Così vivono gli avamposti di Israele Cronaca di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 08 agosto 2009 Pagina: 3 Autore: Giulio Meotti Titolo: «'Siamo tornati a casa'. Così vivono gli avamposti d’Israele»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 08/08/2009,a pag.3, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " 'Siamo tornati a casa'. Così vivono gli avamposti d’Israele ".
Giulio Meotti
Siamo tornati a casa”, proclama il cartello all’ingresso di Givat Assaf, un avamposto israeliano che prende il nome da un colono ebreo ucciso dai palestinesi. “In questo punto preciso, 3.800 anni fa, la Terra d’Israele fu promessa al popolo ebraico”. Il segretario della comunità, Benny Gal, spiega così la loro presenza: “Se ci portano via di qui, in pericolo sarà l’aeroporto internazionale Ben Gurion”. Givat Assaf è uno dei quartier generali della “Hilltop Youth”, la gioventù delle colline, la seconda generazione di coloni che sta organizzando la resistenza all’evacuazione degli insediamenti giudicati illegali, i cosiddetti outpost, al centro delle trattative fra Netanyahu e Obama. Per questi giovani il risorgimento ebraico passa, come all’inizio del Novecento, dal confronto gomito a gomito con gli arabi. Le leggi del processo di pace non sembrano scalfirli. I soldati israeliani, quelli con cui i coloni condividono brigate e divisa, devono trascinarli via a forza quando arriva l’ordine di evacuazione da Gerusalemme. Chi resta, vive palmo a palmo con la morte. Lo scorso aprile uno di questi giovani è stato ucciso a colpi di ascia. In caso di conflitto non conta la legge dello stato, ma quella del Signore. E’ come la frontiera americana dell’epopea western. Anche se ora il delegato americano Mitchell e Netanyahu stanno forse per presentare una sospensione nella crescita interna degli insediamenti, molti villaggi e comunità sono bloccati da anni. E’ per questo che nascono gli outpost. Israele ha rimosso numerosi di questi accampamenti negli ultimi due anni. Uno degli ultimi, Maoz Ester, consisteva in sette baracche di lamiera e cinque famiglie. “Rifaremo tutto da capo, loro distruggono e noi ricostruiremo”, annuncia il leader Avraham Sandak. Altri outpost sono già stati programmati. Il movimento che li guida è la “Gioventù per la Terra d’Israele”. Ne fanno parte anche ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti. Il guru degli avamposti è Avri Ran, il teorico dell’Avoda Ivrit, l’ideologia sionista del lavoro riattualizzata come ritorno alla terra. E’ noto come “lo sceriffo”. Guai a pensare che sia un fenomeno di estrema destra, categoria priva di senso in Israele. Con Ariel Sharon primo ministro sono nati 44 avamposti, “correte a costruire” diceva il generale del Likud. Altri 39 (secondo i dati di Peace Now) furono edificati sotto Rabin, Peres e Barak, i protagonisti di Oslo. Gli esecutivi laburisti non hanno fatto quasi nulla per impedire che gli avamposti si moltiplicassero. Israele non li considera enclave ribelli. Almeno a giudicare dalle cospicue forze di sicurezza a loro protezione. Così molte comunità hanno strade pavimentate, fermate degli autobus, sinagoghe, perfino campi sportivi. Si va dal semplice container appoggiato in cima a una collina o qualche fascia di baracche, sino a veri e propri insediamenti realizzati con prefabbricati tipo post terremoto. Per la preghiera del sabato serve un minyam, il quorum necessario di dieci uomini. Basta questo per fare un outpost. Così si trovano dieci famiglie di peruviani convertiti all’ebraismo in un avamposto appena fuori l’insediamento di Efrat, tra Betlemme e Hebron. Uno dei leader delle colline vive a Kfar Tapuach. Il villaggio è celebre per il miele che vi si produce, ma soprattutto per essere citato nella Bibbia, Giosuè 12. E’ una delle trenta città conquistate dagli ebrei all’arrivo migliaia di anni fa. Oggi è uno degli insediamenti più ideologici della Cisgiordania, che i coloni chiamano con i nomi biblici di “Giudea e Samaria”. Fondata da immigrati yemeniti, a Kfar Tapuach abita con moglie e figli David Ha’ivri, uno dei leader della gioventù delle colline. “Abbiamo chiamato Obama una delle nostre comunità”, ci dice ridendo David Ha’ivri, originario di Long Island e oggi a capo dello Shomron Liaison Office. Non è uno scherzo, esiste davvero Givat Obama fra Gerusalemme e Beit El. Della “Hilltop Youth” fanno parte giovani nati e cresciuti nelle colonie, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno nei grandi conglomerati per andare ad annidarsi in cima alle colline. Pregano in sinagoghe spesso fatte di terracotta. Si costruiscono la casa con le proprie mani, sono single o appena sposati, da pochissimo genitori. Si ritengono la nuova avanguardia dei coloni. Il loro motto è essenziale: “Costruiamo e il permesso arriverà”. Vivono a un tiro di schioppo dagli arabi. Si muovono a cavallo o con un asino. Il quotidiano Haaretz dice che hanno un look “neo-hassidico”, sono la “versione sionista del New Age occidentale”. I loro padri sono diventati coloni soltanto dopo molti anni di vita negli insediamenti. Loro qui ci sono nati e cresciuti. E’ una nuova generazione imbevuta di un nazionalismo mistico che si coniuga al pionierismo e all’ascetismo, rigetta il consumismo delle grandi città sulla costa e vive di ideologia e ardore. Le donne indossano il “mitpahat”, l’equivalente ebraico, meno avvolgente e più delicato del chador islamico. Gli uomini hanno capigliature al vento, lunghi riccioli laterali e camicie a quadri. “Sono giovani che incarnano l’ideologia della Torah e l’autosacrificio”, ci spiega Ha’ivri. “La salvezza di Israele e del popolo ebraico non può venire da politicanti che pensano che la battaglia per la Terra sia un gioco tattico. Dieci anni fa abbiamo iniziato a creare avamposti. Sono giovanissime coppie che hanno deciso di essere pionieri come i genitori, vogliono costruire, credono nel sionismo, sono idealisti, pronti a lasciare ogni esistenza confortevole nelle grandi città o nelle grandi colonie. Vogliono essere autosufficienti, con tutti i limiti che questo comporta”. Costruire “piccoli paradisi” Shani Simkovitz dirige la Gush Etzion Foundation. E’ americana e ha cinque figli. “Questa è terra contesa, da patteggiare, non terra occupata”, ci spiega Shani. “Più di tremila anni fa i nostri padri ci hanno dato una terra, che non è Roma, non è New York, ma questa. La terra ebraica. Ci hanno mandato qui a costruire, a coltivare, a vivere, ci hanno sostenuto sempre, soprattutto Rabin, Peres e gli altri laburisti. Fino a oggi. I miei figli sono nati qui, ma non c’è più terra legale su cui costruire, il governo da tempo non concede più permessi per una casa, per questo nascono gli outpost. Gli avamposti sono estensioni delle comunità esistenti. Ma lo stesso è a Gerusalemme, dove migliaia di israeliani vivono al di là della Linea verde”. Eera Ungar abita a Tekoa 2, un outpost vicino all’insediamento più grande nel deserto della Giudea. “Gli outpost sono parte di una domanda politica, non giuridica”, ci spiega Eera. “Abbiamo il diritto di vivere nella terra dei nostri padri? Abbiamo diritto a una famiglia?”. Un altro leader delle colline vive in un agglomerato di roulotte abbarbicate sul monte Artis, chiamato Pisgat Yaakov, che significa la “collina di Giacobbe”. Un luogo isolato d’inverno, tanto nevica. Tra queste trenta famiglie c’è Yishai Fleischer, il fondatore di Kumah, un’organizzazione che promuove alyah, immigrazione, e conduce un programma radiofonico di grande successo. “Abbiamo una vita idilliaca e naturalistica, è una regione bellissima, in mezzo alle montagne”, dice al Foglio Yishai. “I nostri padri hanno camminato qui tremila anni fa, siamo un po’ come i nuovi hippy. Lavoriamo la terra. C’è molta musica, religione, è una vita felice. Preghiamo, meditiamo, conduciamo un’esistenza spirituale. Siamo il popolo aborigeno. Ero a New York, da studente credevo nel sionismo e decisi che questo era il posto dove avrei dovuto vivere. Abbiamo quello che ci serve. Ci sentiamo pionieri, siamo dei veri sionisti. Molti miei amici sono religiosissimi e lavorano nel settore high tech. I nostri figli crescono con valori autentici”. E’ una vita, ammette Yishai, molto pericolosa. “Giro armato, odio le pistole, non significa che debba usarle, ma devo proteggere la mia famiglia. Il nostro villaggio è citato più volte nella Bibbia, per questo attrae molte persone. Lei vive a Roma, una città sacra per il suo popolo, il mio è nato e cresciuto in Israele. Qui senti di essere parte della terra e del cielo. Siamo cresciuti sapendo che il prossimo passo sarebbe stato il nostro”. Yishai sa bene che i settlers non sono amati dagli israeliani che vivono sulla costa. “Siamo isolati nell’opinione pubblica, ma lavoriamo ogni giorno per migliorare. Oggi il nazionalismo non è cool, non è politicamente corretto. Non mi aspetto di conquistare i cuori delle persone che non vivono qui. E’ semplice: questa è la nostra terra. Secondo le norme internazionali, secondo la Bibbia, secondo la storia. Viviamo in tempi eccitanti in cui il popolo ebraico torna a casa. Siamo di nuovo qui. Quando ci svegliamo la mattina non pensiamo alla pace, ma a condurre una vita felice, dignitosa e piena di amore. Dobbiamo essere vigili, ci sono persone qui che vogliono ucciderci in quanto ebrei. Hanno la stessa ideologia dei nazisti. Gli europei non si sono interessati alla sorte degli ebrei sessant’anni fa, stiano lontani da noi oggi. Sappiamo perché siamo qui, abbiamo una missione che portiamo avanti tutti i giorni. Gli ebrei italiani dovrebbero venire a vivere qui. Non fa differenza dove, a Tel Aviv o nella collina di Giacobbe. Ma è qui il nostro posto”. David Ha’ivri li descrive così. “Molti sono contadini o pastori, ci sono studenti, tutti pionieri che vivono in zone desertiche, vuote, senza abitanti, non ci sono palestinesi cui venga sottratto alcunché, i coloni piantano alberi, coltivano la terra, portano acqua, cibo, elettricità. Nelle grandi comunità la sicurezza è ben organizzata, ma in queste comunità di poche famiglie il peso della sicurezza è enorme. La seconda generazione è molto più attaccata alla terra della prima, sono nati qui, il loro sangue viene da qui. Sono persino più religiosi dei padri”. Molti di questi avamposti sono creati negli anni proprio lì dove i palestinesi avevano ammazzato un colono. Loro, le giovani leve, li chiamano “monumenti viventi”. Come Itay Zar, che oggi vive in un outpost intitolato al fratello ucciso. Venti famiglie, una dozzina di scatole di metallo, quaranta bambini e un maneggio per cavalli. “Non siamo venuti qui per divertirci. C’era il deserto, oggi la terra fiorisce”. Il leader spirituale dell’outpost, Arie Lipo, dice che hanno il compito di costruire “piccoli paradisi”. “Siamo il popolo della Bibbia e la domanda è: chi è il boss? Dio? Oppure Obama?”. David Ha’ivri la mette così: “Siamo i continuatori di una storia interrotta dai Romani che esiliarono il popolo ebraico. Il nostro motto recita: Hashem Melech, Dio è il re”. Ieri è nato un altro avamposto, Tzur-ya. Una capanna e un manifesto: “La salvezza è vicina”.
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