Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/08/2009, a pag. 19, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Abu Mazen, no ai 'corrotti' di Hamas 'Ma anche noi abbiamo fatto errori' ".
Come previsto, al congresso di Fatah non ci sono novità sul fronte arabo. Abu Mazen sostiene che l'obiettivo è la fondazione di " uno Stato palestinese democratico, con capitale a Gerusalemme e una soluzione equa per i profughi.". Ma più che una soluzione equa, ripropone tutte quelle precondizioni che impediscono una trattativa seria. Si aggiunga la riconferma del no al riconoscimento di Israele come Stato ebraico.
Per quanto riguarda il blocco del terrorismo, Abu Mazen non ne parla nemmeno quando si riferisce ad Hamas. Anzi, dichiara che : " Non siamo terroristi e rifiutiamo la definizione di terrorismo per la nostra battaglia ". Anche gli attentati della seconda intifada non erano terroristi? E tutti i tentativi di terrorismo suicida bloccati ai check point? E il caso del palestinese che pochi mesi fa ha ucciso a colpi d'accetta un ragazzino di tredici anni?
Per quanto riguarda le " manifestazioni pacifiche contro il muro " a Biilin, le cronache hanno più volte riferito di sassate dei manifestanti contro i soldati israeliani, impegnati a difendere una barriera che ha salvato e continua a salvare molte vite umane dalle stragi del terrorismo palestinese.
Ecco l'articolo:
Fatah e Hamas, stessa idea su Israele
BETLEMME — I sorsi di acqua e anice accompagnano le quasi tre ore di discorso. Abu Mazen sta seduto sotto la gigantografia di Yasser Arafat, foto in bianco e nero per un congresso che vorrebbe ridare colore al Fatah. Dopo vent’anni (l’ultima conferenza era stata a Tunisi nel 1989), dopo gli accordi di Oslo, dopo la violenza della seconda Intifada e la spaccatura con Hamas. La storia raccontata dal presidente palestinese parte da più lontano, ripercorre le tappe chiave, esalta il padre-fondatore, a volte con un sorriso ironico: «Dopo la guerra dei Sei giorni, incontro Arafat alla guida di una Volkswagen, l’unica auto che possedevamo allora. Era in mimetica. Gli dico: 'Abu Ammar abbiamo perso, perché indossi la divisa militare?'. Mi risponde: 'I regimi arabi sono stati sconfitti, noi no'». Abu Mazen invece ammette gli «errori commessi» («i nostri comportamenti ci hanno allontanato dalla gente »), promette «un nuovo inizio », attacca i «golpisti e corrotti » che hanno il controllo della Striscia di Gaza. «La Palestina resterà unità, non permetteremo ad Hamas di dividerci». Offre ai fondamentalisti di riprendere il dialogo, dalla Striscia gli replicano di «essersi comportato come un clown e di aver rimescolato i fatti».
La piazza della Mangiatoia a Betlemme è ripulita, anche di pedoni e macchine. L’accesso è controllato dalle guardie presidenziali e dalle squadre di polizia, con le nuove divise anti- sommossa, dono di americani e europei. Gli oltre duemila delegati arrivano anche da Siria e Libano, permessi speciali concessi dagli israeliani (non a tutti, Munir Hussein al-Maqdah è rimasto a Beirut perché è considerato l’uomo di collegamento con Hezbollah e l’Iran). In quattrocento non hanno potuto lasciare Gaza, Hamas chiedeva in cambio la liberazione dei suoi attivisti arrestati dall’Autorità di Ramallah.
La sfida politica non è solo con i fondamentalisti. I «giovani » spingono per rinnovare il movimento, in gioco ci sono i ventuno posti del Comitato centrale e i centoventi nel Consiglio rivoluzionario. Marwan Barghouti corre (e scrive lettere critiche) dal carcere, Mahmoud Dahlan fronteggia Abu Mazen e i suoi fedeli dal palco. Solo un quarto tra i delegati è stato eletto, gli altri sono stati scelti da una commissione presieduta dal presidente, è difficile che il voto di domani porti a una rivoluzione interna.
Il congresso deve approvare la piattaforma rivisitata del partito, quarantuno pagine che dovrebbero moderare l’enfasi sulla «resistenza armata» contro Israele e chiedere un blocco alle costruzioni negli insediamenti prima che i negoziati possano ricominciare. Lo anticipa Abu Mazen, che accusa il governo di Benyamin Netanyahu «di pulizia etnica a Gerusalemme Est»: «L’obiettivo è creare uno Stato palestinese democratico, con capitale a Gerusalemme e una soluzione equa per i profughi. Il nostro sostegno alla pace non vuol dire che resteremo inermi di fronte alle violazioni israeliane. Ci riserviamo il diritto alla resistenza legittima, garantita dal diritto internazionale. Il nostro popolo può inventare tattiche diverse e creative, come le manifestazioni pacifiche contro il muro nei villaggi di Biilin e Niilin. Non siamo terroristi e rifiutiamo la definizione di terrorismo per la nostra battaglia » .
Nel salone campeggia la foto di un ragazzino che imbraccia un kalashnikov. Per Jibril Rajoub, ex consigliere di Arafat, serve a ricordare che «Fatah non intende abbandonare l’opzione della lotta armata». Zakaria Zubeidi, ex leader delle Brigate Al Aqsa a Jenin, minaccia la ricostituzione dell’ala militare: «La destra non vuole la pace». Da Gerusalemme, gli israeliani stanno ad ascoltare. Ehud Barak, ministro della Difesa, annuncia in parlamento un’iniziativa di pace americana («verrà presentata nelle prossime settimane e per noi sarà importante accettarla ») e sostiene che per Fatah «il test arriverà dopo il congresso » .
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