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La Stampa Rassegna Stampa
04.08.2009 I 75 anni del Birobidzhan, la Regione autonoma ebraica nell' Estremo Oriente russo
Un articolo di Piotr Smolar

Testata: La Stampa
Data: 04 agosto 2009
Pagina: 15
Autore: Piotr Smolar
Titolo: «Nella Sion di Stalin colonizzata dai cinesi»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/08/2009, a pag. 15, l'articolo di Piotr Smolar dal titolo " Nella Sion di Stalin colonizzata dai cinesi ".

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I bambini portano una candela in mano. Rispettano una specie di coreografia: «Ti canto, o mio paese natale», intona il coro, in russo. I genitori, con gli occhi umidi, battono le mani e immortalano l’istante con le macchine fotografiche. È la festa di fine anno nella piccola sala dove si soffoca dal caldo, al primo piano del centro della comunità ebraica. Per settimane i bambini hanno giocato, ballato, e soprattutto imparato i rudimenti della cultura locale. Sui muri ci sono i loro disegni colorati che mostrano le glorie di Birobidzhan.
Siamo nell’Estremo Oriente russo, a 180 chilometri da Khabarovsk, sette ore e mezzo di aereo da Mosca. La Regione autonoma ebraica, che copre 36 mila kmq lungo il fiume Amur, che fa da confine con la Cina, festeggerà quest’autunno i suoi 75 anni di vita. Ma di ebrei, tra i 190 mila abitanti, ce ne sono pochini, secondo il censimento appena l’1,22%. «Nessuno sa quanti siamo - sorride Valerij Gurievich, vicecapo del governo locale, la più alta autorità tra gli ebrei della regione -. Dopo la caduta dell’Urss sono partiti in 13 mila, mentre ne erano censiti soltanto 9 mila».
Fondata nel 1934, la Regione è stata la prima avventura sionista del Ventesimo secolo, ma temprata nel piombo sovietico. È una storia di ucraini, lituani o polacchi, a costruire fattorie collettive in un ambiente ostile, alla conquista dell’Estremo Oriente, paludoso, immenso. Era la volontà di Stalin: far crescere la popolazione in questa frangia dell’Urss per contrastare le ambizioni cinesi e giapponesi.
Le differenze culturali sono state all’inizio incoraggiate. Nei primi anni ‘30, le scuole ebraiche si sono moltiplicate. Poi, come ovunque in Russia, l’antisemitismo di Stato ha colpito. Nel 1948 le scuole sono state chiuse, così come il teatro. I visitatori della sinagoga erano schedati, a volte arrestati dal Kgb, finché l’edificio venne incendiato alla fine degli anni ‘50. La rivendicazione dell’identità religiosa veniva considerata controrivoluzionaria.
«Una cultura e una lingua sono scomparse - spiega Alexandr Shliufman, diretto del giornale Birodidzhaner Stern, che ha due pagine in yiddish -. Mi si riscaldava il cuore, al cinema, quando vedevo nomi ebraici nei titoli di coda. Cercavamo la conferma che avevamo il diritto di esistere». Negli anni ‘70 gli ebrei erano ormai solo il 6% della popolazione.
Si è dovuto aspettare la fine dell’Urss perché le origini ebraiche non fossero più un motivo di discriminazione ma di fierezza. Dopo il 1991 ci si riscopre ebrei. I racconti in yiddish prima sussurrati dalle nonne, con un nodo in gola per la paura della repressione, vengono detti e cantati a pieni polmoni. Ma la distruzione della cultura è stata profonda. Non bisogna fidarsi dei cartelli e delle insegne: sono rarissimi quelli che ancora parlano davvero yiddish, anche se gli scolari lo studiano per parecchie ore alla settimana.
«Quando finiscono gli studi, lo capiscono e lo leggono un po’ - sospira Lilia Komissarenko, 42 anni, preside di una scuola comunale. Lei stessa non parla yiddish, e neppure i suoi figli -. Le nostre nonne non ce lo hanno insegnato. Non ne vedevano lo scopo. Per la maggior parte delle persone queste tradizioni sono folclore. Solo il rabbino ci mostra che dietro c’è la fede».
Dal suo arrivo da Israele, sei anni fa, il rabbino Mordechai Shainer, 38 anni, è diventato un personaggio del posto. Ultraortodosso lubavitch, è l’unico a rispettare con rigore i precetti, anche nel vestirsi. Officia in una sinagoga tutta nuova, a due passi dal centro. È un missionario, non approva il patriottismo giocoso degli abitanti. «Tutti debbono capire che questa regione era un tentativo artificiale, politico, voluto da Stalin. Birobidzhan è opera dell’uomo, Israele è opera di Dio».
Figlio di una famiglia ultraortodossa scappata dall’Urss nel 1967, Shainer ha dovuto cambiare i suoi metodi di predicazione, di fronte all’abisso culturale. «Ho capito che non potevo cominciare con la preghiera - riconosce -. Mi serviva un linguaggio più accessibile». Ha lanciato una trasmissione settimanale alla tv locale, per parlare di folclore e cucina ebraica. Ha curato un libro di racconti basato sul Talmud e una raccolta di barzellette ebraiche.
La principale preoccupazione degli abitanti non è però di ordine spirituale ma economico. Isolata, la regione sogna scambi commerciali. La città si è un po’ modernizzata negli ultimi anni. Ma tutti gli sguardi sono ormai volti verso la Cina, vicina, temuta e ammirata. «Ai cinesi viene dato in affitto il 16% delle terre agricole - spiega Gurievich -. Non abbiamo altra scelta, per via del calo della popolazione». Quasi 4 mila cinesi vengono ogni anno a lavorare a buon mercato nell’industria della trasformazione del legno, o a coltivare i campi o nei cantieri. «Costano meno e sono più professionali - conferma Iosif Brenier, imprenditore e storico -. Sono i nostri alleati, non nemici».
Il progetto che suscita le più grandi speranze è la costruzione di un ponte attraverso l’Amur. Il più contento di tutti è Wan Baolin, proprietario del ristorante Teatralny. Dice di essere più ebreo degli ebrei, porta la kippah e si fa chiamare Nikolai Vladimirovitch, per ragioni che i suoi biografi un giorno forse spiegheranno. L’assimilazione continua.

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