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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Yehoshua Kenaz, Paesaggio con tre alberi 03/08/2009

Paesaggio con tre alberi     Yehoshua Kenaz
Traduzione di Elena Loewenthal
Nottetempo                              Euro 13

Tutto comincia a Natale, anzi a Christmas, e non è il modo migliore, visto che siamo in un quartiere ebraico di Haifa. Si odono “passi pesanti…seguiti da un sommesso bussare”, ma non appena si apre la porta il caporale cade “lungo disteso per terra, con le gambe sulla terrazza e la fronte contro la ringhiera metallica”. Un soldato inglese ubriaco, una festa estranea, un’epoca misteriosa, quando il futuro della Palestina è ancora quasi tutto da scrivere. Yehoshua Kenaz è di casa in una simile atmosfera, non foss’altro perché sotto il mandato britannico ci è nato, nel 1937, e la sua arte è cresciuta sotto il segno della precarietà. E incerto, virato in toni sfumati, sospeso nelle psicologie e slabbrato nella trama è Paesaggio con tre alberi, racconto lungo, che narra una pre-storia israeliana. Gli inglesi nessuno li vorrebbe fra i piedi, ma con quello che succede nell’Europa in guerra bisogna aspettare tempi migliori. Il disagio di una convivenza forzata tra l’esercito semicoloniale di sua maestà britannica e un gruppo di immigrati ebrei, sionisti più per caso che per convinzione, è forse il tema principale del libro. Veri eroi non ce ne sono, nel senso di protagonisti della grande storia e consapevoli di esserlo. I personaggi di Kenaz vivono il loro fato con malcelato scetticismo, come il caporale Franck, che passerà mesi a vergognarsi, e a scusarsi di quella ubriachezza di una sola sera. O come gli Hazon, ebrei venuti dal Cairo, clan tribale ormai in lenta disgregazione. E’ evidente che, se potessero, ne vivrebbero un’altra, di vita. Anche se, un po’ per i colori del mare di Haifa e un po’ perché un altrove bisognerebbe innanzitutto immaginarselo e poi costruirselo, ciascuno si adatta a quell’angolo di mondo, e lo riempie di sentimenti goffi e antiquati, proprio come la mobilia degli appartamenti provvisori. Come fa un popolo che viene da due millenni di diaspora a trasformarsi in nazione sedentaria? Semplice, comincia con l’annoiarsi. O per lo meno ci prova, sforzandosi di metter su una normalità piccolo borghese, fatta di tinelli angusti, con relativi ninnoli e paesaggi a olio alle pareti. Copie di copie, quei quadri, così come la tranquillità è solo imitata, e neanche con mano sicura. Ma ecco che da un dipinto di Rembrandt, ovviamente imitato, nasce un episodio narrativo a sé, un’avventura nell’invisibile, o meglio, nel travisabile, che riscatta il perbenismo con una ventata di fantasie sessuali. Nientedimeno. Gli ebrei senza qualità di Kenaz scrutano il presente per scorgervi, come in un gioco d’ombre, le certezze che non hanno mai avuto. Da parte sua, lo scrittore israeliano ci mette una buona dose di non-finito. Le frasi e i dialoghi sono modellati in una materia duttile, di cui è difficile identificare la provenienza. Un’arte dell’abbozzo, insomma, che ben si addice a ospiti impacciati del vivere.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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