Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 31/07/2009, a pag. 36, gli articoli di Giulia Ziino, Claudia Provvedini, Matteo Persivale titolati " Il Diario di Anna Frank patrimonio dell’umanità «Memoria del mondo» ", " Addio a Peter Zadek: trasformò Shakespeare in antisemita " , con un nostro commento, e " Woody Allen è tramontato Oggi un ebreo deve combattere ". Ecco gli articoli:
Giulia Ziino : "Il Diario di Anna Frank patrimonio dell’umanità «Memoria del mondo» "
Anna Frank
Il Diario di Anna Frank fa parte della «memoria del mondo». Lo ha stabilito il Comitato internazionale di esperti incaricati dall’Unesco di scegliere i documenti di «interesse universale» che quest’anno entrano a far parte del programma «Memorie del mondo» dell’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. La notizia è arrivata ieri dal direttore generale dell’Unesco, Koichiro Matsuura. Con il Diario di Anna Frank quest’anno entrano tra le «Memorie» altri trentaquattro documenti, portando a 193 il totale di quelli inseriti nella lista dal 1997, anno della sua creazione, ad oggi. Tra i nuovi entrati ci sono la Canzone dei Nibelunghi, capolavoro dell’epica medievale, i manoscritti dell’abbazia cistercense di Chiaravalle, gli archivi reali di Thailandia e Madagascar e quelli fotografici e cinematografici dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, il registro degli schiavi delle Antille britanniche e il Catecismo Corticu, il primo catechismo scritto nella lingua creola dei Caraibi olandesi. Il Diario di Anna Frank ( foto ), la ragazza ebrea morta nel 1945 in un campo di concentramento nazista, è — come ha sottolineato il Comitato di esperti dell’Unesco — uno «dei dieci libri più letti nel mondo».
Claudia Provvedini : "Addio a Peter Zadek: trasformò Shakespeare in antisemita"
Nell'articolo si ricorda la regia del "Mercante di Venezia", con uno Shylock fortemente negativo, tanto da avvalorare la tesi su Shakespeare antisemita. La polemica non avrà mai fine, noi siamo però dalla parte di coloro che ritengono il personaggio Shylock per nulla negativo, anzi, è forse il personaggio di tutta l'opera quello che meglio esprime l'ubbidienza alla legge. La sua orazione a difesa, un testo giustamente famoso, basterebbe da solo a farci capire quanto Shakespeare, a differenza di altri illustri contemporanei, si fosse schierato dalla parte di Shylock, e non viceversa. Zadek voleva invece evidenziare i lati negativi degli ebrei, con la speigazione che ha dato. Invece di malmenare Shakespeare, poteva scrivere un ritratto di sè, forse gli veniva meglio.
Ecco l'articolo:
Peter Zadek
«Quando Stein ed io iniziammo a lavorare negli anni ’60 discutevamo sempre sul ruolo dell'immaginazione. Lui diceva che l’essenziale è l’analisi, io l’immaginazione. Dell’analisi me ne frego». Lo raccontò in un libro Peter Zadek. Ieri notte il regista tedesco, tra i più noti, è morto ad Amburgo, dopo una lunga malattia. Aveva 83 anni.
Nell’ambiente teatrale era «l’altro Peter» contrapposto a Peter Stein, più giovane di 11 anni. Entrambi nati a Berlino. Ma Zadek era fuggito nel ’33 all’arrivo al potere di Hitler, e con i genitori ebrei si era rifugiato a Oxford. Diplomato alla Scuola dell’Old Vic di Londra, a 21 anni aveva firmato la prima regia, Salomè di Wilde, oltre a lavorare per la Bbc. Rientrato nel ’58 in Germania, trovò ad accoglierlo Brema e nella piccola città universitaria diede vita negli anni ’60 allo «stile di Brema»: rivisitazioni moderne di classici greci, di Shakespeare (nell’80 Zadek sposò la scrittrice e traduttrice del Bardo, Elisabeth Plessen) e di Cechov. Ma il suo rapporto con le origini ebraiche sfociò in regie provocatorie: la prima, negli anni di Ulm, fu lo scespiriano Mercante di Venezia , che gli attirò l’accusa di antisemitismo tanto era negativa la figura di Shylock. La replica di Zadek, violenta nella sua onestà, fu: «Fino a quando i tedeschi non parleranno apertamente degli aspetti negativi degli ebrei, non inizieranno a fare i conti con il loro antisemitismo».
Negli anni Settanta, mentre Stein fondava la Schaubühne, Zadek fu soprintendente a Bochum. Tornato alla regia, i suoi allestimenti divisero la critica osannante dalla parte di pubblico che rifiutava la rottura delle convenzioni sociali e artistiche. Zadek ha poi diretto il Deutsches Schauspielhaus di Amburgo con affascinanti regie di elisabettiani come Webster o un’aggressiva Lulu di Wedekind.
Dal 1990 l’Europa è sua: indipendente, lavora a Berlino (Berliner Ensemble, Freie Volksbühne), Vienna (Burgtheater), Amburgo (Thalia Theater), Monaco (Kammerspiele), Parigi (Théâtre de l’Europe) e ai grandi festival europei (a Salisburgo, Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny di Brecht-Weill). Quadrumviro con Fritz Marquardt, Heiner Müller e Peter Palitzsch dal 1993 al ’95 guida il teatro del Berliner: Brecht, ovvio, e Strindberg, Williams; tra le venti regie scespiriane, un Antonio e Cleopatra ironico visto al Festival di Edimburgo e, più di recente, Peer Gynt di Ibsen, successo clamoroso, con il suo gruppo d’attori. Cresciuti alla sua corte sono Bruno Ganz, Otto Sander, Gerd Voss, Edith Clever, Eva Mattes, Susanne Lothar e Angela Winkler, l’attrice che incarna un lavoro sul testo diventato natura, anche nella recente Opera da tre soldi wilsoniana.
Membro dell’Akademie der Künste, pluripremiato, Peter Zadek amava molto l’Italia, la Toscana. E ripeteva: «L’immaginazione è la cosa più bella che possa esistere, è irraggiungibile. È il 'potere' più particolare che l’essere umano possa avere».
Matteo Persivale : "Woody Allen è tramontato Oggi un ebreo deve combattere"
Josh Bazell
In sette pagine — le prime sette, tanto per far capire al lettore di che pasta è fatto — il protagonista di Vedi di non morire di Josh Bazell (Einaudi Stile libero, pp. 322, e 18,50, traduzione di Luca Conti) picchia un rapinatore, gli ruba la pistola, cede alle avances della rappresentante di una casa farmaceutica dotata di anfetamine e guanti sterili omaggio, glutei da cubista e denti bianchissimi. Il protagonista si chiama Pietro Brnwa (non è un refuso) alias dottor Peter Brown, medico (come l’autore) ma anche ex killer della mafia braccato dagli ex colleghi e sotto la protezione del Fbi, manesco e sicuro di sé. E ebreo (come l’autore).
Vedi di non morire ha un bel sito Internet dalla grafica accattivante ( www. beatthereaper. com ) realizzato dall’editore americano, un trailer di genere cinematografico, una serie di video su YouTube dove il dottor Bazell dà opinioni tutte da ridere su una serie di leggende metropolitane di genere medico (donne che partoriscono un gemello bianco e nero figli di due padri diversi, scarafaggi che entrano nelle orecchie durante il sonno, eccetera) diventerà presto un film. E Leonardo DiCaprio è interessato a interpretare la parte di Pietro. Bazell, intanto, sta già scrivendo il seguito.
«Un successo non pianificato a tavolino — spiega il quarantenne Bazell —. Il protagonista non è nato già con un elenco di storie belle e pronte a lui collegate. Questo è avvenuto più tardi. E poi non credo che sia il solito eroe da noir o poliziesco seriale, che attraversa i libri sempre immutabile. Pietro porta con sé i segni — i danni — di quello che gli capita (letteralmente, come sanno i lettori di Vedi di non morire : ma non è giusto anticipare il finale, già celebre, a chi non l’ha letto, ndr ). Come nella vita vera. Probabilmente, però — scherza Bazell —, finirò per trasformarlo in un automa senza più credibilità soltanto per fare un po’ di soldi, chissà».
Uno dei motivi del successo di Pietro Brnwa, sostiene Bazell, è che quell’ex sicario dalla morale combattuta «che cerca di mantenere una sua moralità senza essere sentimentale», è il contrario dell’archetipo ebraico americano reso celebre nel mondo da Woody Allen: quello dell’intellettuale timido, gracile, insicuro, autoironico, nevrotico.
«Pietro fa certamente riflettere su molti temi legati all’ebraismo: perché l’'età dell’oro' cominciata nel secondo dopoguerra, quella del rimorso del mondo per l’Olocausto, negli ultimi anni è terminata. E quel che significa essere ebreo è cambiato drasticamente. Perché, nonostante quel che si pensa, l’Olocausto ha avuto successo: oggi ci sono due milioni di ebrei in meno, al mondo, di quanti ce ne fossero nel 1933, quando Hitler prese il potere. Anche se il resto della popolazione mondiale è triplicato. Per decenni il mondo è stato così condizionato dall’orrore dell’Olocausto che in qualche modo ha cercato di porre freno al proprio naturale, millenario antisemitismo. Ed ecco l’affermazione dell’archetipo dell’ebreo visto come vittima, incarnato al cinema e nell’immaginario collettivo dall’intellettuale con gli occhiali alla Woody Allen, timido, debole. Un archetipo che finalmente veniva apprezzato dai non ebrei — magari spinti anche da un certo senso di colpa — grazie ai suoi successi nell’arte, nella scienza, nella cultura popolare. Quest’epoca è finita ormai. È tornata la voglia di dire agli ebrei quello che devono fare, un’attenzione che definisco psicotica ai crimini — reali o immaginari — di Israele che, con tutti i suoi errori, pare però doversi scusare con il mondo per non essere ancora stato annientato. In quanti Paesi si può ancora aprire un ristorante ebraico, per non dire una sinagoga, senza la polizia a fare la guardia fuori? Dico tutto questo da ebreo non credente né praticante che considera la religione un fatto irrazionale. Io, come il protagonista del mio libro, mi considero ebreo perché gli egizi, i romani, i crociati, gli inglesi, gli arabi mi avrebbero considerato ebreo, a prescindere dalla mia personale fede. E mi avrebbero perseguitato, o ucciso. La definizione stessa di ebreo che dà lo Stato di Israele? È quella delle leggi razziali hitleriane. Non c’entra con la fede spirituale ma con la sopravvivenza. È necessario, se vogliamo sottrarci all’estinzione. Ebreo è chi in quegli anni sarebbe stato rastrellato dai nazisti, punto: credente o ateo. Naturalmente questo tentativo di non scomparire dalla faccia della Terra è considerato, da chi ci odia, una forma di razzismo. Ecco perché il mio protagonista, che dà mazzate senza paura, rappresenta un nuovo tipo di ebreo capace di difendersi: perché Woody Allen è il passato, l’uso della forza è necessario».
Nel libro, Bazell si diverte a inventare citazioni letterarie, note a piè pagina da libro di testo («Mi sono iscritto a medicina a trent’anni: chi ha già conosciuto il mondo del lavoro sa che c’è di peggio nella vita, rispetto a dover leggere un libro su come funzionano i polmoni»), e ha creato un improponibile ospedale lurido e malconcio dove lavora il suo protagonista. Tra colpi di scena e un finale ai confini della realtà che, con lodevole sprezzatura, l'autore elargisce al lettore, che a quel punto si sta chiedendo come Brown/Brnwa possa uscire vivo dal romanzo. «Sì, certo, il finale è esagerato, over the top , è metaforico, è tante cose che io generalmente come lettore non sopporto. Ma scrivendolo pensai che calzasse a pennello, e lo penso ancora. Qualcuno dice che non è realistico? Beh, loro non c’erano, quando è successo...».
Bazell, furbetto del noir, mescola il pop — i telefilm ospedalieri, i film di mafia, l'horror-sanguinaccio di genere splatter — con riflessioni serie ma anche tanto humour senza fingere, lodevolmente, di essere lo scrittore che non è. «Perché scrivere significa ricoprire il veleno per topi con il cioccolato: amo scrittori come Jim Thompson e James Ellroy esattamente per questo. Ma l’autore che più di tutti riesce a essere privo di sentimentalismo è un italiano, che vorrei fosse tradotto di più in inglese: Massimo Carlotto. È uno scrittore di noir al quadrato, di quelli che ti mettono alla prova. In America uno come lui non c’è. Neanch’io potrei leggere Carlotto tutto il tempo. Non ce la farei».
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