Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 31/07/2009, a pag. 11, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Tel Aviv 1972, a sparare sono tre giapponesi. Da allora Israele non si affida più al 'profilo' ".
L'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv
GERUSALEMME — I terroristi indossano abiti grigi, tengono strette le custodie per i violini. Le guardie all’aereoporto israeliano di Lod sono state addestrate a prevenire un attacco palestinese, la minaccia arriva dal Fronte di liberazione o dagli uomini di Yasser Arafat. Le occhiate degli agenti scandagliano i passeggeri arabi.
Il 30 maggio 1972 la minaccia arriva da tre giapponesi, atterrati da Parigi e addestrati a Balbek, in Libano. Kozo Okamoto, Tsuyoshi Okudaira e Yasuyuki Yasuda entrano nella sala d’aspetto senza che nessuno li fermi per un controllo, dagli astucci tirano fuori tre fucili mitragliatori Vz 58 (fabbricazione cecoslovacca) e iniziano a sparare: ventiquattro morti, settantotto feriti.
La lezione del massacro di Lod (e la facilità con cui si è mosso il commando dell’Armata Rossa Giapponese) è stata studiata dai servizi segreti israeliani. E applicata quattordici anni dopo, quando una giovane irlandese, incinta, sta per prendere il volo da Londra a Tel Aviv. Anche lei (come i tre «violinisti») non dovrebbe richiamare l’attenzione, non fa parte dei gruppi etnici considerati «pericolosi ». Eppure porta nella valigia una bomba al plastico con timer: non lo sa, l’esplosivo è stato nascosto dal fidanzato palestinese. Il viaggio (sta andando a trovare i parenti di lui) e le risposte all’interrogatorio creano sospetti. La borsa viene ricontrollata, aveva già superato la macchina a raggi X. Da allora, la frase «chi ha preparato i bagagli?» viene ripetuta migliaia di volte ogni giorno a migliaia di passeggeri che si preparano a imbarcarsi sui voli dell’El Al, la compagnia di bandiera dello Stato ebraico.
Gli israeliani ripetono che il loro obiettivo è individuare «prima il bombarolo e poi la bomba». Analisi dei comportamenti, studio delle intenzioni, un manuale che gli uomini e le donne della sicurezza seguono passo per passo, domanda dopo domanda. «Quali sono le ragioni del viaggio?», «Chi conosce in Israele?», «Ha amici nei Paesi arabi?». Anche se lo Shin Bet, il servizio segreto interno, nega di applicare i profili razziali negli aereoporti, un vecchio visto per la Siria o un timbro di frontiera egiziano possono trasformare il colloquio di dieci minuti in un lungo interrogatorio. Un anno fa, Menachem Mazuz, il procuratore generale dello Stato, è dovuto intervenire per ridurre le discriminazioni all’aereoporto Ben Gurion, soprattutto verso gli arabi israeliani. Le etichette per i controlli avevano colori diversi che servivano a identificare e dividere i passeggeri per gruppi etnici. «Sarebbe stupido e poco efficace concentrarsi solo sugli arabi — commenta Rafi Ron, che ha diretto la sicurezza a Ben Gurion fino al 2001 —. Rischiamo di trascurare quello che i terroristi hanno già capito: l’uso di attentatori non mediorientali». Prima di riuscire a salire sul Parigi-Miami del 22 dicembre 2001 — niente bagagli, l’esplosivo nascosto nelle scarpe —, Richard Reid (nato a Londra, madre inglese e padre giamaicano) aveva viaggiato con El Al l’estate prima. Il suo comportamento aveva insospettito gli israeliani che lo avevano imbarcato con una guardia personale, uno «sceriffo dei cieli», seduto nel posto a fianco.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, gli esperti israeliani — passati al business privato — sono diventati tra i consulenti più richiesti. Alcune delle tecniche non supererebbero il test dei diritti costituzionali americani e sarebbero difficili da introdurre in Europa. «Non siamo contrari all’idea del profiling — ha scritto l’ Economist — quello che ci preoccupa sono le sue applicazioni. È giusto individuare i passeggeri che si comportano in modo strano o che presentano una situazione molto diversa dalla norma. Ma non può diventare una scusa per interrogare persone di specifici gruppi etnici ».
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