Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/07/2009, a pag. 10, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " La scalata di Obama e i dubbi di Israele ".
Barack Obama
GERUSALEMME — «Sapete come ho festeggiato i sessant’anni? », ha chiesto George Mitchell qualche settimana fa a un gruppo di ebrei americani. «Con la scalata al monte Katahdin». Per raggiungere la vetta più alta del Maine, dove vive, l’ex senatore democratico si è preparato con la meticolosità che applica ai negoziati e si è consultato con alpinisti esperti. «Il loro consiglio è stato: mentre sali, non devi mai guardare verso la cima, sembrerà tanto lontana da deprimerti. Non guardare neppure in basso, verresti distratto. Devi solo concentrarti sul passo che stai per compiere, è l’unico modo per sopravvivere ».
Sono passati sedici anni dall’ascensione e l’aneddoto funziona ancora per spiegare l’approccio alla missione che Barack Obama gli ha affidato. Le montagne che Mitchell ha affrontato nella visita a Gerusalemme sono quelle della Cisgiordania, dove gli americani pretendono il blocco degli insediamenti. «Progressi», dice dopo l’incontro di due ore e mezzo con il premier Benyamin Netanyahu. Ripete che Israele e gli Stati Uniti sono «amici e alleati». Proclama che l’obiettivo della Casa Bianca è una pace regionale: tra lo Stato ebraico e i palestinesi, ma anche un accordo con il Libano e la Siria (l’amministrazione starebbe pensando di ammorbidire le sanzioni contro Damasco) e la normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi.
Il congelamento delle costruzioni — anche a Gerusalemme Est — è considerato da Mitchell il primo passo da compiere, perché la salita verso la vetta mediorientale possa continuare. Netanyahu vorrebbe che venisse garantita la cosiddetta «crescita naturale», nuovi alloggi per famiglie che si allargano: i coloni in Cisgiordania sono arrivati a 300 mila, calcola un rapporto ufficiale rivelato dal quotidiano Haaretz.
Le pressioni americane hanno trasformato Obama in un presidente impopolare tra gli israeliani. Solo il 6 per cento — secondo un sondaggio del Jerusalem Post — lo considera un amico dello Stato ebraico, gli editorialisti di destra lo evocano con il secondo nome Hussein per evidenziare quelle che sarebbero le sue «tendenze arabe ». «Gli israeliani sentono che tutto il peso per far ripartire i negoziati di pace — scrive Yossi Klein Halevy, intellettuale conservatore, su The New Republic — è stato messo sulle loro spalle. Molti (e non solo gli elettori del Likud) sono convinti che Barack cerchi lo scontro con noi per rafforzare la sua immagine nel mondo musulmano ». È d’accordo — da sinistra — Aluf Benn, analista di Haaretz : «Se Israele è parte del problema, è anche parte della soluzione — commenta in un articolo ospitato dal New York Times —. Eppure fino ad ora, né il presidente né uno dei suoi emissari si sono rivolti alla gente di questo Paese. Gli arabi hanno avuto il discorso del Cairo, noi il silenzio».
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