Ottimo e condivisibile il ragionamento di Marco Vitale sul CORRIERE della SERA di oggi, 26/07/2009, a pag.10, in un articolo dal titolo " Basta con l'elemosina all'Africa, il continente è già cammino ". Non avremmo usato la parola elemosina, perchè i finanziamenti internazionali non sono elemosine, ma un mare di dollari che finisce per finanziare stermini, carestie e terroristi. Aggiungiamo una seconda considerazione, perchè non applicare lo stesso concetto in Medio Oriente ? Anche lì i finanziamenti finiscono nelle tasche dei terroristi da un lato, mentre dall'altro servono solo a mantenere decine di migliaia di funzionari che a nulla servono se non a intascare lauti stipendi. Anche se questo furto legalizzato avviene sotto l'egida della Pace.
Ecco l'articolo.
dove finiscono ?
Numerosi commentatori hanno sottolineato la pochezza del contributo finanziario per l’Africa al quale si sono impegnati i governi del G8 dell’Aquila. Gian Antonio Stella ha precisato che la somma stanziata corrisponde a cinque euro e 18 centesimi all’anno, cioè 43 centesimi al mese, per ogni africano. È giusto sottolineare la pochezza dell’intervento. Ma non è possibile fermarsi qui, perché così facendo si trasmette l’impressione che l’Africa sia uno sterminato esercito di lavavetri che aspettano l’elemosina. Ed invece l’Africa è un grande e variegato continente che, in aree sempre più vaste, si è avviato sulla strada dello sviluppo.
Abdoulaye Wade, al momento della riconferma, a 81 anni, in libere elezioni, come presidente del Senegal, nell’aprile 2007, ha detto: «Non vi è mai stato un periodo di dinamici mutamenti, di crescita di infrastrutture, di impegni determinanti alla costruzione di un’Africa migliore di oggi». La decolonizzazione è incominciata nel 1957, con il Ghana, ma il processo si è completato solo nel 1990.
Non dobbiamo meravigliarci che, in un periodo così breve, guerre, lotte tribali, confische colossali da parte di rais e dittatori in parte finanziati dagli aiuti occidentali abbiano reso tanto travagliati questi anni. C’è chi pensa che l’Africa, nei prossimi dieci anni, o almeno una parte rilevante di essa, diventerà una delle nuove più interessanti frontiere dello sviluppo. A me non piace fare previsioni perché non vi è niente di automatico e predeterminato nella vita dei popoli. Ma è possibile leggere la situazione attuale e domandarsi: è plausibile che l’Africa o parte importante di essa si avvii decisamente sulla via dello sviluppo?
La risposta è positiva. Dobbiamo collaborare perché ciò avvenga, ma superando l’approccio degli aiuti finanziari. Come ha scritto Padre Piero Gheddo, missionario del Pime: «Gli aiuti da Stato a Stato producono poco, a volte nulla o inutili cattedrali nel deserto».
Numerosi economisti, sia africani sia europei e americani vanno oltre e documentano i guasti dell’approccio tradizionale, come fa William Easterly (che dopo un passato alla Banca Mondiale si è dedicato alla pratica del sostegno umanitario in Africa) in «I disastri dell’uomo bianco. Perché gli aiuti dell’Occidente al resto del mondo hanno fatto più male che bene» (Bruno Mondadori). Anche la Banca Mondiale ha rivisto i suoi metodi come spiega Biagio Bossone, direttore esecutivo della Banca Mondiale per l’Italia, in un’intervista su Nigrizia : «Il tema è quello dell’efficacia degli aiuti e non solo della quantità». E scrittori africani come il giovane Uzodinma Iweala lo hanno scritto a chiare lettere: «Caro Occidente, smetti di salvare l’Africa. L’Africa non vuole essere salvata. Ciò che l’Africa chiede al mondo è un vero e leale partenariato». Questa è la linea corretta da seguire che si articola in vari capitoli: — certamente resta aperto il capitolo degli aiuti alle popolazioni più sofferenti ma non attraverso il rapporto tra Stati.
Bisogna affidare i fondi ai 7.000 missionari e ai volontari che sono sul campo e aiutano e, nel contempo, educano, curano e sviluppano la mini-imprenditorialità; — è importante l’impegno diretto di imprese italiane per essere parte dello sviluppo africano, contribuire allo stesso e trarre, da esso, vantaggio. Qui si apre il capitolo assai delicato del neocolonialismo. La Cina ha acquistato 2,1 milioni di ettari, Seul 2,3 milioni, l’Arabia Saudita 1,3. Si stima che prossimamente in Africa ci saranno un milione di lavoratori cinesi addetti a 14 grandi fattorie. Ma senza inserirsi in questo filone neo-colonialista che susciterà problemi e rivolte, vi sono grandi spazi per le imprese italiane per partecipare costruttivamente allo sviluppo africano, soprattutto sul fronte della mobilità, logistica, gestione dei fiumi; — ci sono temi caldissimi e decisivi come quello del diritto all’acqua che i potenti della Terra continuano a ignorare. È per questo silenzio più che per l’esiguità del contributo finanziario che va criticato il G8, come del resto l’Onu. Ma l’Africa ha ricevuto, in questi giorni, un grande dono. Mi riferisco al discorso bellissimo, forse il più bello tra tutti i suoi, che Obama ha pronunciato ad Accra, capitale del Ghana.
Obama ha parlato agli africani come si parla ai propri cittadini, ai propri fratelli.
Ha fatto sentire la sua vicinanza a tutti gli africani. Di questo l’Africa ha bisogno.
Non ha negato le responsabilità storiche del colonialismo ma ha chiamato, con vigore ed insieme con amore, gli africani a farsi carico delle proprie responsabilità: «È facile addossare ad altri la colpa di questi problemi. Ma l’Occidente non è responsabile della distruzione dello Zimbabwe nell’ultimo decennio o delle guerre in cui vengono arruolati i bambini tra i combattenti. Io sono convinto che questo sia un nuovo momento di promesse. Non saranno giganti come Nkrumah o Kenyatta a plasmare il futuro dell’Africa. Sarete Voi. E soprattutto saranno i giovani». Nel chiamare gli africani a farsi carico del proprio destino, nel respingere l’approccio assistenziale, Obama ha trasmesso un sentimento di grande rispetto per gli africani ed ha acceso la speranza nei loro cuori. Il suo discorso è la vera enciclica per l’Africa.
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