Due articoli oggi, 26/07/2009, a pag.9, dell'inviato del CORRIERE della SERA in Afghanistan Andrea Garibaldi, mentre altri tre soldati italiani sono stati feriti ieri in un attentato. Eccoli:

a sin. Andrea Garibaldi
Andrea Garibaldi: " La Folgore e l'escalation della guerriglia "
FARAH — Mentre gridano «Folgore urrà!», ricordano che un uomo, o un ragazzo, della Folgore, 187˚ reggimento paracadutisti, non ha paura. Anche se il primo caporal maggiore Alessandro Di Lisio è morto pochi chilometri là fuori, il 14 di luglio, e se il primo caporal maggior Simone Careddu rischia di non tornare a camminare. Anche se ieri i soldati italiani sono stati per altre due volte colpiti. «Silenziosi e aggressivi», c’è scritto su uno degli stemmi della Folgore affissi sulla baracca nel cortile del campo base e gli uomini e i ragazzi hanno stretto i denti mercoledì davanti al ministro La Russa che è venuto a trovarli e che con la sua camicia mimetica, il suo piglio militare, il suo saluto assorto alla bandiera, in fondo, è piaciuto. Ma qui è sempre più difficile stare, se gli episodi ostili si moltiplicano.
Questa è Farah. Se vi guardate attorno per 360˚ vedete solo sabbia chiara e monti scuri. Un albero? Forse uno, laggiù, pare un albero. Il comando italiano, a Herat, ha battezzato la base El Alamein, ma molti — con poca fantasia — la chiamano Fort Apache. L’avamposto più a sud. Il più sperduto del contingente italiano in Afghanistan, il più vicino all’offensiva anglo-americana «Colpo di spada» nell’Helmand, terra meridionale di sterminati campi d’oppio e di talebani in rimonta. Farah è un frammento d’Italia gettato lontano. Trecento paracadutisti inquadrati in un battle group, gruppo di battaglia, e cento incursori nella «Task 45», forza speciale, per missioni speciali. I primi, con compiti di assistenza alla popolazione, sminamento, ricostruzione, i secondi con riservati compiti bellici: contrastare la propaganda talebana nei villaggi, il reclutamento, la sottomissione della popolazione civile, i traffici di droga. Anche con la forza. Poi, ci sono gli uomini dei servizi di sicurezza, si contano sulle dita delle mani, lavorano in borghese, si calano fra vicoli e casupole, cercano di capire che succede, d’interdire. Questo è diventata la spedizione italiana in Afghanistan, tesserina dentro un Grande Gioco, arduo da decifrare.
Il C-130 arriva in mezz’ora da Herat a Farah, scende a precipizio, poi ondeggia volgendo verso il suolo l’ala destra, poi la sinistra, per evitare colpi, prima d’atterrare sulla pista di sabbia e di terra, coi sassi che schizzano sotto le ruote. Una immensa spianata, 1.200 metri di altezza. Nessun essere umano, a vista d’occhio. Il capitano Paolo Bianconi punta l’indice in lontananza. Prima ci sono delle case col tetto arrotondato, l’abitato di Farah, e molto oltre le pendici di altri monti: «Guerriglieri, lontano, da quella parte». Quelli che hanno messo l’ordigno che ha ucciso Di Lisio e menomato Careddu, probabilmente. Cosa architettano ora? «Avete mai passeggiato per un villaggio afgano — chiede Bianconi —? L’80 per cento della gente sorride, è contenta che siamo qui». E allora? Quanto è difficile capire, soprattutto se si è armati. Il comandante italiano Rosario Castellano dice che in Afghanistan si mescolano undici motivi di instabilità che si trasformano in «insorgenza», ribellione contro la presenza di truppe straniere: i talebani antigovernativi, i trafficanti di droga, i coltivatori di oppio, la faide tribali, i signori della guerra, i trafficanti di armi, lo spionaggio, la criminalità, gli estremisti religiosi, i gruppi autonomi, i poveri. In questo momento dall’Helmand, sotto pressione per l’attacco americano, molti insurgents trovano sbocco verso l’Ovest, verso Farah e premono sulla zona sotto la responsabilità italiana: per questo Castellano è in contatto stretto con il comandante dei marines.
«Oggi la temperatura è a 50 gradi— dice il capitano Bianconi —. Certi giorni siamo più fortunati, si ferma a 45». Ecco le grandi tende dove dormono e mangiano i nostri e le strutture di legno che fanno da bagni. «Ma stiamo costruendo la nuova base, in muratura, il Fob, Forward operative base , base avanzata operativa», dice Bianconi. Il capitano è ingegnere, ha 30 anni: «Gestiamo budget da milioni di euro, cosa che all’inizio della carriera in Italia sarebbe impossibile».
Si costruisce, dunque: non è prevista l’uscita in tempi brevi. Ma la situazione diventa sempre più critica. Arrivano ogni giorno, dal Sud soprattutto, le notizie dei caduti delle altre forze armate. Solo nel mese di luglio 37 soldati americani uccisi (il conto degli afgani non lo tiene nessuno). Nella zona italiana a luglio gli attentati e gli Ied (ordigni esplosivi improvvisati) sono stati 134, buona parte nella zona di Farah. Lo scorso anno furono 56. Per agosto, mese delle elezioni presidenziali, il comando italiano ne prevede 179, contro i 79 dello scorso anno. È la strada 517, che parte dalla base e va verso la Ring Road, arteria che collega ad anello le principali città dell’Afghanistan, uno dei punti d’allarme. Se gli insurgents rendono insicura quella, incerto diventa ogni collegamento della base di Farah. Lì è saltato il carro Lince su cui viaggiava Di Lisio. Ora il rischio è che la missione italiana, a Farah in particolare, si chiuda a garantire la propria sicurezza, prima di perseguire i compiti d’ufficio, che sarebbero consegnare strade e terre, ricostruire scuole e ospedali, addestrare esercito e polizia afgane, riconvertire i campi d’oppio. Racconta un ufficiale: «Abbiamo da poco consegnato ai contadini 27 tonnellate di zafferano per sostituire questa coltura a quella del papavero». Fa una pausa: «Certo, poi occorre proteggere campi e contadini, altrimenti talebani e trafficanti impediscono il cambiamento». Obiettivo finale: riconsegnare il Paese agli afgani, ma la parola «afgani» definisce una realtà molto differenziata.
Arrivano più Predator, gli aerei senza pilota, i Tornado potranno sparare per proteggere dall’alto i soldati italiani in difficoltà, i carri Lince avranno le torrette protette. Aumentano gli effettivi, aumentano le spese, già altissime. Basti pensare che Farah, come le altre basi, è tenuta in vita quasi esclusivamente con gruppi elettrogeni a gasolio e che il gasolio arriva con i camion dall’Iran. Abbiamo sempre pensato al nostro esercito nel mondo nella chiave «Italiani brava gente». Ma da queste parti c’è stato un convoglio attaccato a settembre, un’autobomba contro un altro convoglio a ottobre, un’imboscata a giugno, un attacco suicida all’inizio di luglio. Poi, Di Lisio. Due agguati ieri.
Ora, invece, bisognerebbe pensare ai seggi da proteggere, 1.086 nella zona italiana, a impedire che i candidati vengano uccisi. «Usciamo per Alessandro», dice il caporal maggior Fabio Barile, che era sul convoglio di Di Lisio. Lo sguardo fiero, che intuisce quanto è fragile la situazione. Il cuoco di Farah sforna pizze, gesto che sdrammatizza. Il tenente Leonardo Bevilacqua è un ingegnere che ha fatto il percorso inverso a Bianconi: lavorava nel civile, si è arruolato. Quando ha visto il ministro La Russa, si è commosso: «Il nostro ministro, qui...». «Non conosco l’impossibile», sta scritto su un altro stemma della Folgore. Bisogna crederci, per restare fra queste pietre.
Andrea Garibaldi: " Quelle bombe fatte con taniche e tergicristalli "
HERAT — Dicono gli artificieri di Camp Arena, il quartier generale del contingente italiano nell’Afghanistan occidentale, che dopo gli attentati entra in azione l’ exploiter . Sarebbe? «È l’uomo incaricato di riprendere la scena dopo l’esplosione». A quale scopo? «Due obiettivi. Uno è usare il filmato come mezzo di propaganda, per esibire capacità e fare proseliti. L’altro è studiare come si comportano le vittime dopo l’agguato».
Spiegano l’ufficiale e il sottufficiale (preferiscono non siano pubblicati i nomi) che i soldati italiani si trovano oggi a fronteggiare una guerriglia che ha mezzi molto limitati ma il vantaggio dell’imprevedibilità e di potersi confondere con la popolazione locale. C’è un tavolo davanti ai nostri militari, nella palazzina per le riunioni di Camp Arena. Ecco due taniche legate assieme, così si presentava la bomba che ha fatto saltare il carro Lince e ha causato la morte del caporal maggiore Di Lisio. Dentro le taniche? «Presumibilmente una miscela di alluminio e nitrato di ammonio. Poi serve una scintilla elettrica». Un comando a distanza... «Sì, ma ormai i nostri mezzi sono dotati di un’apparecchiatura che si chiama Jammer e fa da scudo al carro e a tutto ciò che c’è intorno: così i comandi a distanza vengono inibiti». Allora? «Si torna indietro. La scintilla viene causata dalla pressione». Su cosa? «Su strumenti rudimentali. L’ordigno del 14 luglio è stato innescato da una specie di tergicristallo, due bacchette che quando il carro Lince ci è finito sopra hanno chiuso il circuito e, tramite i fili, hanno trasmesso la scintilla al liquido esplosivo». Tutto l’ordigno era sepolto dentro un terrapieno, appena sotto l’asfalto. Il Lince, che apriva un convoglio di 12 mezzi, aveva superato quel punto, ma l’equipaggio aveva notato qualcosa. Il carro ha fatto marcia indietro ed è andato a finire dove stava sotterrato il «tergicristallo». La bomba nel terrapieno, uno scenario che ricorda Capaci, quando fu ucciso il giudice Falcone. Ma le tecniche richiamano quelle dei vietcong.
Si chiamano home made explosive, esplosivi fatti in casa: si preparano con ingredienti reperibili nei negozi o nelle fabbriche chimiche. Al posto delle taniche ci possono essere pentole a pressione, al posto dei tergicristalli una sega o coperchi da pentola. «Per certi versi diventa più difficile prevenire sistemi così rudimentali — dicono i due militari —. Se l’ordigno è interrato, bisogna individuare, mentre si transita, punti che evidenziano uno scavo fresco. Oppure, vanno notate foglie rimosse e poi risistemate. Sono molti gli agguati che riusciamo a evitare in questo modo. Non tutti». Sul tavolo ci sono pezzi di legno, camere d’aria di bicicletta che servono a legare. «Abbiamo trovato fili per l’innesco nascosti dentro steli di papavero».
All’inizio di luglio sono piovuti razzi dentro Camp Arena lanciati con un bilanciere artigianale: da una parte un peso, dall’altra un secchio d’acqua con un foro sul fondo. Quando l’acqua è defluita, il peso è venuto su ed è scattato il detonatore che ha lanciato i razzi, mentre i responsabili avevano il tempo di allontanarsi. A Farah, quando si entra nella base, si nota un carro Buffalo con la parte anteriore sinistra divelta: risultato di un agguato di quaranta giorni fa. Nessuno dei soldati si è fatto male, ma il Buffalo è un pachiderma lento e l’equipaggio deve stare all’interno. Visibilità e velocità ridotta, sicurezza accresciuta. I mezzi vanno scelti in base alle esigenze della missione, perché la guerriglia è in grado di modulare gli attacchi. L’ordigno che ha fatto saltare il Lince di Di Lisio aveva una potenza attorno ai 70 chili.
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