Invitiamo i nostri lettori a leggere con attenzione l'articlo di Lorenzo Trombetta, dal titolo " Nel mirino l'ambasciata israeliana di Roma ", uscito sulla STAMPA di oggi, 26/07/2009, a pag.2
Prima di tutto è scritto in modo farraginoso, l'intera storia è confusa e di difficile comprensione.
Poi, il linguaggio." La missione Onu è impegnata a bonificare i terreni seminati da ordigni lanciati da Israele", così scrive Trombetta, come se quello fosse il compito di Unifil e sul terreno non ci fossero altre bonifiche da fare, tra le quali Hezbollah che si riarma malgrado il dicieto dell'Onu. Le minacce di Al Qaeda, poi, Trombetta le chiama "presunte". Ma veniamo alla " spia al soldo di Israele ", con quell' "al soldo" che esprime già di per sè un giudizio di valore negativo.Tutta la sua storia è raccontata come se le sue dichiarazioni fossero garantite dal rispetto verso la sua persona, mentre conosciamo i metodi applicati da Hezbollah nei confronti di chi viene ritenuto un traditore. Trombetta prende per buono tutto quanto gli viene riferito dai suoi carcerieri, quando si sa benissimo che le confessioni, in regimi dittatoriali, vengono estorte con la tortura. Ma a Trombetta non gli viene in mente. L'articolo (ma anche il sottotitolo) è condito da espressioni, quali " Spia di tel Aviv ", " ...Tel Aviv ha sempre preso le distanze ", come se Tel Aviv fosse la capitale di Israele. Sarà bene ricordarlo alla STAMPA e al suo corrispondente da Beirut. Un articolo quindi, oltre che mal scritto, disinformato e disinformante. L'invito è scrivere per protestare con forza.
Ecco l'articolo:
Sul silenzioso ma instancabile lavoro degli oltre duemila militari italiani dell’Unifil, la missione Onu del sud del Libano dall’autunno 2006 impegnata, tra l’altro, a bonificare i terreni seminati di ordigni inesplosi lanciati da Israele, è calata negli ultimi giorni l’ombra di presunte minacce di «terroristi di al Qaeda», mentre sempre dal Libano arriva un’altra notizia che coinvolge, anche se non direttamente, il nostro Paese: l’ambasciata israeliana a Roma sembra fosse l’obiettivo di un oscuro attentato pianificato dal movimento sciita Hezbollah. A rivelarlo è una spia libanese al soldo di Israele, infiltrata prima tra i palestinesi di Fatah, poi tra i miliziani di Hezbollah e, dal novembre scorso, dietro le sbarre di una cella a Beirut.
Secondo quanto riferisce il quotidiano panarabo «al-Hayat», lo scorso 15 luglio si è svolta nella capitale libanese la prima udienza del processo ad Ali Jarrah, 51 anni, accusato di aver passato al «nemico» per circa 25 anni informazioni sensibili su installazioni militari di Hezbollah, dell’esercito siriano e delle forze armate libanesi.
Originario della valle orientale della Beqaa, la spia ha raccontato ai giudici di esser stato definitivamente smascherato dal Partito di Dio, e da esso denunciato alle autorità di Beirut, soltanto dopo che il 9 luglio 2008 si era rifiutato di svolgere la sua «ultima missione»: compiere un attentato suicida, con una valigetta piena di esplosivo di fronte alla sede dell’ambasciata israeliana a Roma. «Da te vogliamo solo una cosa, dopo la quale sarai un’eroe», gli avrebbero detto, ricorda Jarrah, due membri di Hezbollah. Il suo rifiuto, sostiene l’imputato citato dal giornale, avrebbe fornito al movimento sciita la prova definitiva della sua appartenenza al Mossad.
«Loro avevano dei dubbi su di me», ha ammesso Jarrah in tribunale. Circostanza che, se confermata, solleverebbe seri dubbi sulla reale volontà del Partito di Dio di compiere l’attentato romano. Che potrebbe invece esser stato usato solo come esca per far uscire allo scoperto la spia di Israele. In ogni caso, la storia di Jarrah, rivelata dallo stesso protagonista, è degna della migliore letteratura di genere: imprigionato nel 1982 dall’esercito israeliano durante l’invasione del Libano, all’allora ventenne Ali fu offerto il ruolo di infiltrato nelle fila dei palestinesi di Fatah operativi nel Paese dei Cedri. Fino al 2001 la copertura avrebbe funzionato, poi, un anno dopo il ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano, il Mossad gli avrebbe chiesto di «avvicinarsi» agli Hezbollah. Da allora, secondo fonti di stampa locali, Ali e suo fratello Yusuf avrebbero lavorato dalla loro casa nella Beqaa, roccaforte del Partito di Dio e corridoio privilegiato tra Beirut, Damasco e il sud del Libano, armati delle «più sofisticate strumentazioni» per monitorare i movimenti dei vertici di Hezbollah e delle truppe siriane, presenti nel Paese fino al 2005.
«Titolare di diversi passaporti stranieri», Jarrah avrebbe in questi anni viaggiato in Italia, Belgio e nello stesso Stato ebraico per ricevere ordini e addestrarsi. La scelta di Roma come teatro dell’ipotetico attentato sarebbe stata fatta proprio in virtù della «buona conoscenza del territorio italiano» da parte della spia del Mossad. Sembra che Jarraj svolgesse la sua attività all’insaputa della moglie «ufficiale» e di una apparente «seconda moglie», residente poco lontano dal principale punto di frontiera tra Siria e Libano. Il suo ultimo «successo» sarebbe stato quello di aver fornito agli israeliani informazioni sui movimenti di Imad Mughniye, il super ricercato leader militare di Hezbollah, ucciso a Damasco ne febbraio 2008 in un attentato attribuito a Israele ma su cui Tel Aviv ha sempre preso le distanze.
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