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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.07.2009 Insegnare la Shoah ai ragazzi palestinesi
Il racconto di Davide Frattini

Testata: Corriere della Sera
Data: 23 luglio 2009
Pagina: 14
Autore: Davide Frattini
Titolo: «La missione di Khaled, raccontare la Shoah ai ragazzi palestinesi»

Insegnare la Shoah agli arabi. Un'impresa non facile, assunta da Khaled Ksab Mahamid, un arabo israeliano. Lo racconta Davide Frattini sul  CORRIERE della SERA di oggi, 23/07/2009, a pag.14, in un articolo dal titolo " La missione di Khaled, raccontare la Shoah ai ragazzi palestinesi ".

BETLEMME — Il militare israeliano che al posto di blocco perquisisce il bagagliaio non si aspetta di trovare quella foto. Bianco e ne­ro. Un bambino con le mani alzate, i fucili puntati dei soldati tedeschi. E’ l’immagine simbolo dell’Olocausto e la didascalia — «1943, Ghetto di Varsavia» — è scritta in ara­bo. Come arabo è il guidatore, che ha viag­giato da Nazareth a Betlemme per incontra­re i giovani del campo rifugiati di Dheishe e raccontare loro quello che non hanno letto nei libri di scuola.
Khaled Ksab Mahamid ci mette i suoi sol­di (ha comprato ottanta pannelli dallo Yad Vashem) e il suo tempo. Ci ha rimesso il salu­to dei vicini e il rispetto del fratello. Per lui è una missione: «I leader arabi temono che parlare dell’Olocausto significhi legittimare il trattamento inflitto dagli israeliani ai pale­stinesi. Invece, i palestinesi devono studiare la Shoah per capire meglio il popolo ebraico e cominciare a sviluppare una storia comu­ne ». Questo avvocato di mezza età ha aperto un museo a Nazareth («il primo e unico per gli arabi», sostiene) e nei fine settimana gira per le città e i villaggi della Cisgiordania, do­ve lo invitano e dove riesce a imporsi («non ho rapporti ufficiali con l’Autorità palestine­se »).
La lezione porta via due ore a un annoiato sabato pomeriggio di Betlemme. I ragazzi siedono attorno a un tavolo, Khaled sta in mezzo e provoca. Fa girare un opuscolo pub­blicato da Yad Vashem, che lui ha tradotto. Discute di numeri e paragoni: «Non chiama­te l’aggressione contro Gaza un Olocausto, è controproducente. Diciamo che i morti nella Striscia sono 1.500, come potete confrontar­li con sei milioni?». Uno studente universita­rio obbietta che la cifra è più bassa. Il «pro­fessore » risponde con un esempio: «In Un­gheria, tutti gli ebrei sono stati sterminati».
Khaled racconta di aver cominciato a inte­ressarsi alla Shoah da giovane, dopo aver vi­sto le fotografie delle atrocità naziste e di aver approfondito le ricerche all’università ebraica di Gerusalemme, dove ha studiato anche relazioni internazionali e sociologia. I critici lo accusano di danneggiare la causa palestinese. «Gli ho proposto di aprire un centro studi sul sionismo per spiegare che sta all’origine della Nakba e del nostro dolo­re. Io non voglio comprendere il mio dram­ma attraverso le lenti dell’Olocausto», com­menta Hashem Mahamid, un parente ed ex deputato nel parlamento israeliano.
La famiglia è originaria del villaggio di Lajoun, la biblica Megiddo. L’avvocato è an­dato a vedere la casa dei genitori, ha cono­sciuto gli ebrei che ci abitano. E’ convinto che ogni palestinese — gli abitanti dei cam­pi rifugiati o gli arabi israeliani come lui — porti con sé la memoria collettiva della «cata­strofe » del 1948 («non c’è bisogno di affian­care le foto della nostra espulsione a quelle dei massacri nazisti»). «I palestinesi — conti­nua — devono conoscere quello che non gli viene insegnato, senza aver paura che l’orro­re dell’Olocausto possa indebolire la loro im­magine internazionale di vittime. Siamo noi che stiamo pagando per quello che avvenne in Europa sessant’anni fa e continueremo a farlo, se non impariamo che cosa successe».
Qualcuno tra i ragazzi di Dheishe si lascia convincere. «E’ la prima volta che sento que­ste idee — dice Alaa Hamdan, appena entra­to all’università Al Quds —. Ha ragione, non si possono paragonare le atrocità». Israr in­vece non crede sia possibile parlare ai «nemi­ci », «perché ci sono quarantadue milioni di giorni (moltiplica i morti per la settimana tradizionale nel lutto ebraico, ndr) dedicati a commemorare l’Olocausto. Non si può chiedere nulla, non ti stanno ad ascoltare» Khaled Mahamid partecipa anche alle ma­nifestazioni contro la barriera di sicurezza a Naalin. Settimana scorsa, ha proposto di in­nalzare nel corteo le fotografie dei massacri commessi dai nazisti per disorientare ma an­che connettersi con i soldati israeliani. Gli or­ganizzatori ne hanno discusso e hanno te­muto le reazioni dei dimostranti palestinesi. Lui che si oppone alla resistenza violenta suggerisce: «La Shoah è l’arma che non stia­mo usando».

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