Sul FOGLIO di oggi, 22/07/2009, a pag.1, un articolo dal titolo " Obama prigioniero di Guantanamo ", i fatti contano più delle parole.
Washington. Gli uomini di Barack Obama chiedono più tempo per dare un parere sulla chiusura della prigione di Guantanamo. Sul dossier delle detenzioni speciali si è inceppato un meccanismo fondamentale della propaganda obamiana, quell’ultima spinta che avrebbe fatto precipitare l’era Bush dalla rupe della storia. Ieri scadevano i termini per le due task force incaricate di fondare la linea Obama sulla chiusura di Guantanamo e sulle tecniche di interrogatorio. La prima commissione, guidata da Brad Weigmann, ha chiesto altri sei mesi di tempo per esprimere un parere sul futuro di Guantanamo; la seconda aveva il compito di ridefinire la linea sui contestati metodi di interrogatorio per i detenuti e ha chiesto altri due mesi per lavorare al dossier. Due giorni dopo l’insediamento alla Casa Bianca Obama aveva promesso, con un ordine esecutivo, che Guantanamo sarebbe stata chiusa entro un anno (cioè il 22 gennaio 2010) e alcuni ufficiali dell’Amministrazione dicono che “l’obiettivo sarà raggiunto”. Le task force istituite in marzo dal dipartimento della Giustizia, in collaborazione con il Pentagono, dovevano dettare la linea e dare un giudizio di fattibilità su un progetto con cui Obama ha ottenuto consensi a mani basse, ma che nei fatti è molto complicato da realizzare. La task force sulle detenzioni non ha trovato un accordo nei tempi fissati, scrive Newsweek, per divergenze interne su alcune questioni dirimenti, come la detenzione a tempo indeterminato dei prigionieri più pericolosi. In mancanza di un documento definitivo, la task force ha pubblicato un report preliminare in cui spiega quali sono le difficoltà da sciogliere e i punti su cui lavorare. Il memorandum è dominato dall’espressione “case-by-case”, caso per caso: un indicatore della difficoltà che i tecnici del governo hanno incontrato nel definire in maniera unilaterale la genesi, lo stato e le possibili sorti di una prigione straordinaria costruita per rispondere a minacce straordinarie, per natura irriducibili ai percorsi consueti della giustizia. Il report parla infine dei criteri con i quali si dovrebbe decidere a quali condizioni un processo dovrebbe essere gestito da una corte militare piuttosto che da una federale. Anche gli uomini che invece stanno ragionando sui metodi di interrogatorio hanno preso tempo e almeno una parte della task force chiede a Obama di non limitarsi ad approvare soltanto le diciannove tecniche consentite dal manuale dell’esercito, molto rispettose dei diritti umani ma probabilmente non eccessivamente efficaci, anche soltanto al livello della semplice deterrenza. Infine, una terza commissione si sta occupando di studiare i singoli casi dei detenuti: circa la metà sono stati esaminati e, complici le ragionevoli perplessità internazionali, gli Stati Uniti hanno trasferito da Guantanamo soltanto undici prigionieri verso paesi stranieri e uno sul suolo nazionale perché fosse processato. Molti analisti dicono che il rinvio è la prova conclamata del fallimento di Obama, che a questo punto non riuscirà a tenere fede agli impegni in agenda. Anche l’Aclu, la potente associazione per i diritti civili, si è spazientita e, nel contesto di una comunque convinta infatuazione obamiana, sta facendo pressione perché il presidente chiuda Guantanamo e la smetta di prendere tempo. “Presidente Obama: il mondo guarda” è lo slogan della campagna comparso, fra l’altro, anche sulle pagine del Corriere. Allegato al dossier di Guantanamo c’è quello della prigione afghana di Bagram, denunciata dal mondo liberal per i soprusi e i metodi arcigni che lì verrebbero applicati ai circa seicento detenuti. Lunedì il segretario alla Difesa, Bob Gates, ha annunciato che per l’autunno sarà pronta una nuova struttura, sempre nella base americana di Bagram, che rimpiazzerà quella vecchia, nel tentativo di rendere trasparente una situazione che gli stessi tecnici del Pentagono giudicano sospetta. Passi piccoli per l’Amministrazione, che inizia a rendersi conto che le promesse di rendenzione filano lisce solo a parole. Tutto il resto è “case-by-case”.
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