Sulla STAMPA di oggi, 21/07/2009, a pag.1-39, un articolo di A.B.Yehoshua, dal titolo " Se Israele rompe il silenzio ". In un paese democratico, la voce degli intellettuali, ha un peso sull'opinione pubblica, spesso più forte di quello dei politici. E' la società stessa nel suo insieme che viene analizzata, da una posizione indipendente dalle varie forze politiche. E quasi sempre esprime valutazioni critiche, a volte eccessive, a volte no. A queste ultime appartiene l'analisi di A.B.Yehoshua, che affronta tematiche civili da una prospettiva squisitamente democratica. Un paese forte e liberale non teme di mettersi in discussione, soprattutto se chi lo sollecita è una figura di alto livello quele è Yehoshua. Ecco il suo articolo:
Tzahal, le forze di difesa di Israele
Dopo più di tre anni dal ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e dallo smantellamento degli insediamenti e delle basi militari, Israele non poteva permettere che il governo di Hamas, pervicace nel rifiuto di riconoscere lo Stato ebraico e nell’invocarne l’annientamento, proseguisse i massicci lanci di missili e di granate verso i suoi centri abitati del Sud. Neppure l’embargo parziale messo in atto contro la Striscia giustificava un simile bombardamento giacché il valico di frontiera di Rafah (al confine con l’Egitto) permetteva a Hamas di mantenere un legame col mondo esterno e solo la chiusura di questo valico ha reso completo il blocco della Striscia, facendone quindi ricadere la responsabilità sull’Egitto.
Era imperativo porre dunque fine al fuoco di Hamas e solo con questo scopo lo Stato ebraico si è imbarcato nell’operazione «Piombo Fuso».
Non per sovvertire il governo di Hamas né tanto meno per imporre a Gaza un nuovo regime. Prova ne è che dopo settimane di distruzione e di morte i leader di Hamas, nascosti negli scantinati degli ospedali, hanno ripreso i loro posti e sono ancora gli indiscussi capi della Striscia.
Israele ha mostrato il pugno di ferro mettendo in campo un’enorme potenza di fuoco in zone urbane densamente popolate. I motivi di questa scelta sono vari e complessi. Innanzi tutto lo Stato ebraico temeva una forte resistenza di Hamas, com’è accaduto con Hezbollah durante la seconda guerra del Libano. In secondo luogo voleva concludere al più presto l’operazione con perdite minime tra i suoi soldati. E in ultimo i soldati israeliani hanno incontrato oggettive difficoltà nel distinguere fra i combattenti di Hamas, per lo più senza divisa, e i civili.
Nel complesso l’operazione è riuscita. I bombardamenti sulle città e sui villaggi israeliani sono cessati e il contrabbando di armi dall’Egitto alla Striscia è stato presumibilmente interrotto dalla polizia egiziana, o per lo meno ridimensionato. Durante gli scontri si sono però verificati episodi di brutalità da parte dei soldati di Tsahal che non hanno tenuto troppo conto della popolazione civile coinvolta suo malgrado nei combattimenti.
Alcuni di questi soldati, combattenti in prima linea e preoccupati della propria incolumità non meno dei loro compagni, hanno ritenuto opportuno riportare trasgressioni ingiustificate all’etica bellica e riferire la loro testimonianza perché sia le alte cariche dell’esercito, sia la società civile che lo sostiene, sappiano ciò che è accaduto.
Faremmo bene a prestare seria attenzione a queste testimonianze, verificarle una a una e trarne insegnamenti per il futuro. E anche se alcune di esse si riveleranno gonfiate o scorrette, dobbiamo tuttavia rispettare i motivi che hanno spinto i soldati a parlare, perché nessuno di loro lo ha fatto per trarne un vantaggio personale. Tutt’altro: il loro coraggio civico potrebbe avere un alto prezzo attirandogli l’astio dei compagni e dell’opinione pubblica.
Qualche tempo fa la televisione israeliana ha trasmesso un filmato in cui si vedeva il comandante di un battaglione tenere per la spalla un prigioniero palestinese legato e intimare a un suo sottoposto - distante all’incirca mezzo metro dal prigioniero - di sparargli una pallottola di gomma alla gamba. Se questo filmato non fosse stato reso pubblico, se vi fosse stata soltanto una testimonianza orale di ciò che era accaduto, avremmo potuto pensare a un’ennesima fantasiosa calunnia nei nostri confronti. Perché chi mai avrebbe creduto che un episodio tanto vergognoso potesse verificarsi tra le file del nostro esercito? Eppure il filmato forniva la prova inconfutabile di ciò che era effettivamente avvenuto e la reazione degli alti gradi dell’esercito è stata estremamente severa.
Quindi, sebbene non supportate da filmati o riprese televisive, dobbiamo prestare seria e responsabile attenzione alle testimonianze dei soldati del movimento «Break the Silence». Se la nostra fiducia nei principi morali di molti dei comandanti e dei soldati di Tsahal è ben riposta, non abbiamo nulla da temere da esse.
Dobbiamo altresì ricordare una verità fondamentale: il comportamento da noi adottato nei confronti del nemico non resta al di fuori di Israele ma filtra al suo interno. La violazione di norme etiche nei rapporti con i palestinesi sotto occupazione altera e stravolge quelle stesse norme anche in Israele, nei rapporti fra i suoi cittadini. Se si preme un grilletto con eccessiva leggerezza a Hebron e a Gaza, questo avverrà anche in Israele, per esempio durante regolamenti di conti fra organizzazioni criminali nei quali spesso rimangono coinvolti cittadini innocenti. E la violenza brutale dei coloni contro l’esercito e la polizia legittimerà una condotta altrettanto brutale degli ultraortodossi nelle vie di Gerusalemme contro poliziotti e dipendenti comunali.
E in ultimo: dobbiamo mostrarci molto cauti nei nostri rapporti con i palestinesi, perché costoro saranno per sempre nostri vicini e quando sorgerà un loro Stato i nostri due popoli avranno innumerevoli occasioni di contatto. Quindi, a favore di un futuro comune, è nostro dovere rispettare fin da ora regole pragmatiche di correttezza, in guerra e nell’occupazione, e non macchiarci di vessazioni e soprusi che peseranno su un futuro processo di riavvicinamento e di ricostruzione.
Occorre quindi prestare ascolto ai soldati di «Break the Silence» che hanno scelto di «rompere il silenzio», rispettare il loro coraggio, verificare accuratamente le loro testimonianze e trarne le appropriate conclusioni.