La vacanza morale del fascismo.
Intorno a Primo Levi.
Con una lettera di Ferruccio Maruffi
a cura di Arnold I. Davidson
Ets Euro 8,00
Si crede che quando l’argomento è scabroso, e non si trovano le parole giuste, non ci sia di meglio che affidarsi al cuore e lasciarsi andare all’eloquenza dei sentimenti. Niente di più sbagliato, perché “lungi dall’essere universale nel tempo e nello spazio, il linguaggio del cuore è capriccioso, adulterato e instabile, come la moda, di cui in effetti fa parte”. A scagliarsi così contro la scorciatoia del patetico è Primo Levi, in una sua breve riflessione sullo scrivere oscuro. Il giudizio è tagliente e dà voce a una critica antiretorica non proprio di casa nelle nostre patrie lettere. Ci voleva una buona ragione, per fare abbandonare a Levi la sua prosa misurata e spingerlo in un’invettiva da contestatore. Ma dire le cose come stanno, e farsi capire, e costringere il lettore a ribadire a sua volta la propria opinione non è solo una causa nobile. Ne va proprio della sopravvivenza del mestiere di scrittore, o per lo meno di questo Levi era convinto: “Parlare al prossimo in una lingua che questi non può capire è un antico artificio repressivo”. E’ quasi un linguaggio da lotta di classe, anche se qui la ribellione riguarda un secolare compiacimento della casta dei letterati. Il Levi partigiano della chiarezza è protagonista di un intelligente processo letterario, allestito da Arnold I. Davidson, in un piccolo volume che esce per Ets. Davidson riporta alla luce un documento del 1961, una manciata di risposte pubblicate da Levi sulla rivista “Storia illustrata”. Anche la società italiana era in quell’anno lambita dalle polemiche suscitate dal processo Eichmann, che si era aperto a Gerusalemme l’11 aprile, e che si sarebbe concluso il 15 dicembre con la condanna a morte dell’imputato. Era così nata l’idea di chiedere a quattro esponenti del mondo intellettuale se quel processo potesse avere “un valore educativo ed esemplare, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni”. Oltre a Levi, gli intervistati erano il filosofo Remo Cantoni, il giurista Francesco Carnelutti e lo psicoanalista Cesare Musatti. Un documento d’occasione, con interventi in genere ispirati al buon senso, sebbene, a rileggerli oggi, piuttosto datati. Non fosse per la capacità di Levi di trasformare anche, e soprattutto, la cronaca in materiale bello e pronto a divenire storia. Innanzitutto nel secco rifiuto dell’idea di una “colpa collettiva”, che lo scrittore liquida come “internamente contraddittoria e di invenzione nazionalsocialista”. Piuttosto esiste una gradazione di colpe, da quella piena di chi ha “posto mano alle stragi”, alla responsabilità parziale dei complici, “tra cui sarebbe ingiusto – annota Levi, con sarcasmo amaro – dimenticare gli illustri firmatari del “Manifesto sulla razza” nostrani”, poi la massa di quelli colpevoli un poco “ma sempre spregevoli”, che hanno acconsentito sapendo, e dei moltissimi “che hanno evitato di sapere”. Ecco dunque che, alla fine di questo elenco, Levi riesce a rovesciare la falsa nozione di colpa collettiva in quella ben più livida e desolata di “viltà collettiva”, di “collettiva rinuncia alla civiltà”. Ma allora, il processo Eichmann serve per educare? Il giurista Carnelutti lo esclude, dando una prova piuttosto misera d’antigiudaismo cattolico. Levi invece non ha dubbi, servirà, ma certo non basterà. Almeno finchè “permane in Germania e anche in Italia l’ambiguo clima di vacanza morale, che è stato instaurato dal fascismo”. Non si poteva parlare più chiaramente. Giulio Busi Il Sole 24 Ore