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La Repubblica Rassegna Stampa
19.07.2009 Raccontare attraverso le immagini, Shtetl e Shoah
In mostra al Jewish Museum di New York i disegni di Meyer Kirshenblatt, 94 anni

Testata: La Repubblica
Data: 19 luglio 2009
Pagina: 36
Autore: Siegmund Ginzberg
Titolo: «Il pittore del mondo scomparso»

Una mostra da non perdere, per chi avrà la fortuna di essere a New York, quella di Meyer Kirshenblatt, 94 anni, nella quale espone i suoi ricordi della Polonia, la vita negli Shtetl e gli anni della Shoah. La mostra, al Jewish Museum,  rimane aperta fino al 1° ottobre. Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 19/07/2009, a pag.36, l'articolo di Siegmund Ginzberg, dal titolo "Il pittore del mondo scomparso":

 Meyer Kirshenblatt, con la figlia Barbara.

C´ è chi ricorda ma non vuole raccontare. C´è chi racconta ma non vuole ricordare. C´è chi non può più né ricordare né raccontare. Mayer Kirshenblatt ricorda e racconta dipingendo. Racconta un mondo che non esiste più: una cittadina della Polonia dove, quando era nato lui, vivevano 5.462 ebrei e 2.365 cristiani. Lo racconta visto con gli occhi di un bambino. Ha cominciato a raccontarlo che aveva già compiuto settantatré anni. Continua a raccontarlo ora che ne ha quasi novantaquattro. Lo racconta metodicamente, sistematicamente, con un´attenzione maniacale, quasi ossessiva ai dettagli. Compresi, anzi soprattutto, quelli che un adulto sarebbe portato a dimenticare, ignorare, trascurare. Ai particolari che non si trovano nei libri di storia, neppure nei memoriali e nei diari, neppure nella pur grande letteratura ebraica che ci ha raccontato gli shtetl dell´Europa orientale. Nei suoi tratti naif non ci sono i sogni di Marc Chagall o gli incubi di Franz Kafka. Ci sono invece i dettagli terra terra, l´odore di come si mangia e si dorme, il quotidiano del come si cibavano, si lavavano, facevano i propri bisogni, sudavano, vivevano, sopravvivevano, giocavano, amavano, macellavano, si imbrogliavano, si tradivano, pregavano, morivano. Ci sono, descritti con minuzia, i mestieri, gli strumenti, i lavori domestici, i pettegolezzi, le distrazioni attorno a cui si svolgeva la vita di ogni giorno.
Un´esposizione al Jewish Museum di New York raccoglie e ordina circa duecento di questi dipinti, gran parte dei quali erano stati già raccolti un anno fa in un volume pubblicato dalla University of California Press, col titolo They called me Mayer July: memorie dipinte di un´infanzia ebraica in Polonia prima dell´Olocausto, spiega il sottotitolo. Mayer, spiega l´autore, è il nome che gli avevano dato, quello di suo nonno; Tamez, luglio, il modo in cui lo avevano soprannominato, per distinguerlo dagli altri molti Mayer, perché quello era il mese in cui era nato e forse perché i calori di luglio si addicevano a quel ragazzino irrequieto che amava bighellonare tutto il giorno per le strade curiosando negli affari altrui.
La curiosità e la vivacità gli sono rimaste, malgrado l´età avanzata. In mezzo alla folla accorsa a vedere i suoi dipinti, confesso di aver fatto una certa fatica a frenarla: pretendeva che fossi io a raccontargli come mai mi chiamo Siegmund e non Zygmunt, anziché rispondere a quanto gli chiedevo io su di lui. Per fortuna gli era accanto la figlia, che anni fa era riuscita finalmente a convincerlo a frequentare un corso di pittura («Guarda, papà, che è già pagato, se non vai buttiamo via i soldi…»), per dare la stura a tutto quello che sino ad allora non era riuscita a farsi raccontare a voce. E così il discorso si è spostato sul disegno da cui era partito tutto: quello in cui gli si chiedeva di ritrarre l´ambiente che meglio ricordava e in cui aveva passato gran parte della sua infanzia, la cucina di casa. È un soggetto che ha fatto e rifatto più volte. Un´enorme stanza dal pavimento di legno, la stufa in un angolo, la mamma ai fornelli, all´angolo opposto un letto (quello in cui dormiva lui), in un altro angolo il barile di legno in cui veniva conservata l´acqua potabile, una bacinella che serviva per lavarsi, il paiolo per fare pipì, la piattiera al muro con i ganci cui sono appese le tazze, e lui che è seduto al tavolo di legno a fare i compiti, o in piedi a suonare il violino. «No, non era così grande come appare, l´ho rivista quando sono tornato in Polonia, è un buco, ma ero io ad essere piccolo, e tutto mi pareva enorme…».
Il piccolo Mayer curiosa in casa sua e nelle case degli altri. Racconta, descrive feste di famiglia, riti ebraici e processioni cattoliche, riproducendo uno per uno le centinaia di figuranti. In una scena in sinagoga si contano non meno di 139 personaggi. Si affaccia, con altri monelli, alle finestre della famiglia Zajfman. Sbircia negli obitori, persino nel bagno pubblico delle donne. Dipinge le prostitute che si aggirano di fronte al bar degli Zajfman e Zadzka scandalosa che mostra discinta le sue mercanzie in piazza nei giorni di mercato. Racconta la storia del pio sagrestano che scappò seminudo il giorno in cui era stato sorpreso dal marito della donna con cui aveva una relazione, e quella della ragazza gobba che fu sposata per intercessione della comunità dall´uomo che l´aveva messa incinta, per partorire subito dopo la cerimonia. C´è la storia, cui forse ha assistito, o che più probabilmente si raccontava in giro, della moglie del ricco commerciante affetta da cleptomania. La si vede al mercato del pesce, che si infila una carpa ancora guizzante nel reggiseno.
Lo humour è onnipresente. Non c´è quasi scena che non porti lo spettatore a sorridere. Ma non sorridono i protagonisti: neanche una delle migliaia di figure, nemmeno nelle occasioni di festa. La vita nello shtetl era grama, dura la sopravvivenza. Per gli uomini e gli animali. Si sgozzano galline, oche e tacchini, si squartano vitelli e agnelli, si sventrano pesci. Si può indovinare la fatica dei cavalli. Molto più esplicita quella delle persone. Le donne fanno il bucato, o spazzolano i pavimenti di legno; molte figure sono sedute, chine a cucire. Dominano figure cariche di pesi immensi. Io non ricordo un millesimo di quel che ricorda Mayer. Ma mi è rimasta impressa l´immagine dei hamal di Istanbul, chini sotto i carichi immensi poggiati sul loro basto di cuoio. Un dipinto mostra un facchino col materasso sul gobbo, altri che trasportano la testiera in ferro, le altre masserizie sparse per la strada. È intitolato La vendita dei nostri beni prima della partenza. Quasi una foto di qualcosa che non potrò mai dimenticare: il giorno in cui facemmo fagotto dalla casa in cui ero nato.
I Kirshenblatt emigrarono in Canada nel 1933. Dei parenti rimasti indietro si hanno solo i ritagli di notizie filtrate dopo la guerra. La deportazione. La nonna paterna che non ce la fa e viene giustiziata sul cammino. La nonna materna che, sospettata di contatti coi partigiani, viene legata ad un albero e costretta ad assistere all´esecuzione dell´intera famiglia. Sono i quadri più lividi. Questi, spiega Mayer Kirschenblatt, è riuscito a dipingerli solo di recente, dopo aver visto al Prado le fucilazioni di Goya. La cittadina si chiamava Opatow. Non vi abitano più ebrei. Ho guardato un atlante: è presso Kielce, la città dove, ben un anno dopo la liberazione dai campi di sterminio, nella Polonia già comunista, furono massacrati in un nuovo pogrom gli ebrei superstiti di Auschwitz che vi avevano fatto ritorno.

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