lunedi` 21 aprile 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



Clicca qui






Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.07.2009 Questa è l'agonia del regime iraniano
L'interpretazione di Martin Amis

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 luglio 2009
Pagina: 14
Autore: Martin Amis
Titolo: «La Repubblica islamica e i segni dell'agonia»

Le ricostruzioni storiche, con l'aggiunta di sottili analisi politiche, rivisitate dagli scrittori sembrano sovente esercizi intellettuali, quasi un bisogno da parte di chi scrive abitualmente romanzi, di comunicare ai  lettori che non vive in mondo separato dalla realtà. Per cui diventa indispensabile affrontare i fatti quotidiani, trasformarsi in cronista, storico. E' quel che succede, tra i tanti, a Martin Amis, famoso scrittore inglese, che interpreta gli avvenimenti iraniani sul CORRIERE della SERA di oggi, 19/07/2009, a pag.14-15, un un lungo articolo dal titolo " La Repubblica islamica e i segni dell'agonia ":

 Martin Amis

Lo scrittore Jason Elliot ha intitolato il suo recente e suggestivo diario di viaggio in Iran  Specchio dell'ignoto. Personalmente, sono ben consapevole dei rischi banali che incom­bono su qualsiasi scritto riguardante il futu­ro. Tuttavia, è sotto gli occhi di tutti che in Iran la Repubblica islamica già avverte i primi sintomi dell'agonia. Nel processo di disfaci­mento, che sarà lungo e sanguinoso, con ogni probabilità Mir Hossein Mousavi svolge­rà un ruolo minore rispetto a Neda Agha Sol­tan, la cui metamorfosi (passata nel giro di po­chi istanti da bella ragazza piena di vita e di speranza a un'atroce maschera mortuaria) ha fissato indelebilmente quel concetto così radi­cato nella psiche iraniana, che trae origine dal­la passione e dalla tragedia dello Sciismo: il martirio come risposta all'ingiustizia barbari­ca. Ma Neda Soltan incarna qualcos'altro anco­ra: la modernità.
E' opportuno tenere a mente il titolo del li­bro di Elliot mentre passiamo in rivista gli eventi di giugno, che si prestano a due inter­pretazioni. E' possibile che le cose siano anda­te più o meno come ci sono state presentate: i risultati di un'elezione fraudolenta comunica­ti al paese con una fretta indecente e con risi­bile incompetenza (in altre parole, con il più profondo disprezzo implicito per la democra­zia); subito dopo la repressione di stato, che
ha soffocato nel sangue i disordini civili. A questo punto occorre riflettere: se, dopo il so­lito lasso di tempo, la Guida Suprema Ali Kha­menei avesse tranquillamente annunciato la vittoria del presidente Ahmadinejad con il 51 percento dei consensi, allora l'Iran, e il mon­do intero, avrebbero certamente chinato il ca­po e accettato il verdetto delle urne. Ma è an­che ipotizzabile (non facciamoci illusioni sul­la Repubblica islamica) che la vittoria schiac­ciante di Ahmadinejad sia stata manovrata, e sbandierata in pompa magna, proprio per sca­tenare il terrore e giustificare il giro di vite.
Nel 1997 il regime si sentiva talmente sicu­ro di sé da ratificare la vittoria a sorpresa del presidente Muhammad Khatami, che aveva ri­portato la stessa schiacciante maggioranza del 69 per cento dei voti in una gioiosa elezio­ne che nessuno si era sognato di contestare. Khatami, un religioso, vantava tuttavia cre­denziali liberali assai più forti del tecnocrate Mousavi (il quale, durante la guerra Iran-Iraq, si era spostato ben più a destra di Khatami). Festosamente salutato come l'«ayatollah Gorbaciov», Khatami ben presto aveva accennato al «dialogo costruttivo» che intendeva avviare con gli Stati Uniti. Sembra­va già veder aprirsi qualche spiraglio nell'iso­lamento internazionale, che rende tanto pe­sante e asfittica l'atmosfera in Iran.
Era un processo che avrebbe richiesto del tempo, ovviamente. Nel giugno del 2001 Kha­tami fu rieletto con una maggioranza del 78 percento. Sette mesi dopo giunse il discorso di George W. Bush sull'«asse del male» (tra le dichiarazioni più distruttive e deleterie della storia americana), e mise fine alla Primavera di Teheran. In realtà, Bush è stato un dono di­vino alla destra iraniana, rafforzando inconsa­pevolmente il controllo dell'Iran sulla regione (grazie all'invasione avventuristica, anzi, spe­rimentale dell'Iraq), e fornendo ampie prove della sua famigerata «arroganza» (l'atteggia­mento più detestato in assoluto nella perce­zione degli iraniani sciiti). Oggi, i mullah si rendono conto che Obama è troppo astuto per prestarsi a questi giochi. Se avesse vinto Mousavi, Obama avrebbe ricompensato l'Iran in modo assai tangibile per tutti i suoi cittadi­ni. E i mullah non potevano assolutamente ac­cettarlo.
La terra ha già tremato sotto i loro piedi, con le elezioni pro occidentali, anti si­riane e anti iraniane in Libano. E questo, assie­me ad altre forze storiche, spiega l'attuale con­fusione e isterismo che travagliano il clero ar­mato in Iran.
Perché oggi i mullah sanno che navigano alla deriva in un mare di illegittimità. I grandi registi della Rivoluzione del 1978-79 sono sta­ti allontanati o esautorati. Delle quattro narra­tive sulle quali è fondata la nazione, tre sono infarcite di falsità.
Innanzitutto, la «Rivoluzione islamica» non è stata una rivoluzione islamica; secon­do, la guerra Iran-Iraq (1980-88), che ha ster­minato una generazione, non è stata una «guerra imposta», come viene ancora deno­minata; e infine l'ayatollah Ruhollah Khomei­ni non è stato un grande personaggio (Kho­meini, come tutti gli iraniani più acuti hanno capito da molto tempo, si è rivelato un mo­stro di proporzioni storico-globali). Fatto di altissima rilevanza al momento attuale, la quarta narrativa, che ha come filo conduttore l'anti americanismo (o la «Westoxication» del vecchio grido di battaglia), è stata bruscamen­te interrotta dall'arrivo di Barack Obama. La Repubblica islamica è condannata anche dal­la modernità (sotto forma delle comunicazio­ni istantanee di massa) e dal suo destino de­mografico: la Persia, tra le nazioni più antiche della terra, ha una popolazione sempre più giovane.
«Sugli altipiani dell'Iran, nel corso della lo­ro lunga storia», scrive Sandra Mackey, nel suo classico magistrale,
Gli iraniani: la Per­sia, l'Islam e l'anima di una nazione, «il sole è sorto e tramontato per quasi un milione di giorni». Ma prima di affrontare l'anima irania­na, e il milione di giorni, passiamo in rasse­gna le Tre Menzogne della Repubblica islami­ca.
La Rivoluzione del 1979 non è stata una ri­voluzione islamica finché non è terminata. Al­le origini, era un movimento popolare su va­sta scala, una valanga di manifestazioni e sommosse, scioperi e disordini susseguitisi a ritmo incessante tanto da mandare in black out il Palazzo del Pavone; nel frattempo, tra le forze armate si registravano migliaia di diser­zioni al giorno. Gli eventi del giugno 2009 non sono altro che un breve sussulto, se para­gonati all'assordante crescendo del 1978. Le proteste non scoppiavano per sostenere un governo di religiosi, ma perché una monar­chia decadente aveva perso il suo
farr — la sua aura di regalità.
E' istruttivo confrontare la rivoluzione ira­niana alle due rivoluzioni russe del 1917: la rivoluzione di febbraio, una rivolta popolare, e la rivoluzione d'ottobre, il colpo di stato leni­nista (mentre era insediato un governo prov­visorio del tutto impotente). Trotsky amava ripetere che i Bolscevichi avevano trovato il potere gettato per strada e «l'avevano raccol­to come una piuma». E a quel punto, ovvia­mente, si misero in movimento i veri ingra­naggi del regime — contro i Bianchi, contro i Verdi (i contadini), contro i sindacati, contro la chiesa e via dicendo, finché non furono era­dicati tutti i centri alternativi di potere (e di opinione), fino a vietare persino gli assembra­menti di tre persone.
Il 16 gennaio 1979, lo Scià Muhammad Re­za lasciò in aereo Teheran, per rifugiarsi al Cai­ro. Il primo febbraio, l'ayatollah Khomeini sbarcò a Teheran dal suo esilio parigino (do­ve tra i suoi vicini più chiacchierati — non posso tacerlo — c'era Brigitte Bardot). Termi­nava così la rivoluzione politica e iniziava la rivoluzione culturale. Il governo provvisorio fu successivamente scalzato dai
komiteh (mili­zie religiose, poi confluite nei Basiji), dai Guardiani della rivoluzione (in seguito Pasda­ran e forze armate), e dai tribunali rivoluzio­nari (che si affrettarono a giustiziare somma­riamente i superstiti del vecchio regime, più un buon numero di personaggi scomodi). Il 4 novembre, di propria iniziativa, un gruppo di studenti devoti si infiltrò nell'Ambasciata americana e prese in ostaggio 53 funzionari. Khomeini non perse tempo a sfruttare lo smacco inflitto al Grande Satana, tanto che nel primo plebiscito sulla nuova costituzione, dichiarò che ben il «99,5 percento» dei 17 mi­lioni di elettori aveva acclamato e confermato l'autocrazia islamica.
Era rimasto però quel fastidioso «0,5 per­cento » da sistemare e Khomeini si ritrovò ad affrontare una vigorosa opposizione da ogni settore, ma soprattutto dai Mujahedin­e Khalq. Fondato una quindicina d'anni prima in opposizione allo Scià, i Mujahedin (marxi­sti, islamisti di sinistra e sostenitori dei diritti delle donne) vantavano mezzo milione di se­guaci e potevano mettere in campo un eserci­to di 100.000 esperti guerriglieri. Quando Khomeini li escluse dal nuovo ordinamento politico perché «non islamici», i Mujahedin iniziarono una campagna di azioni terroristi­che. Nel 1981, forse lo ricorderete, i Mujahe­din facevano saltare in aria decine di mullah (74 nel corso di un singolo attacco a Tehe­ran); e assassinarono oltre un migliaio di fun­zionari statali negli ultimi mesi di quell'anno. Ne scaturì una guerra civile di natura terrori­stica. A settembre, i Guardiani della rivoluzio­ne di Khomeini giustiziavano una cinquanti­na
di uomini al giorno, colpevoli di «aver di­chiarato guerra a Dio» (oggi come allora, stes­so crimine e stessa punizione invocata dal cle­ro). Animati da uno zelo tanto rivoluzionario quanto religioso, con i loro metodi sanguina­ri i mullah alla fine ebbero la meglio.
Le rivoluzioni, quasi per definizione, sono profondamente anti clericali. Addirittura nel 1922, per fare l’esempio più eclatante, Lenin mandò al patibolo 4500 tra preti e monaci, più 3500 suore. Al contrario, in Iran il clero si è arroccato ai vertici del potere. Nel dicembre del 1982, Khomeini si era quasi del tutto assi­curato il monopolio della repressione e il po­polo iraniano si ritrovò a vivere governato dall'unica teocrazia rivoluzionaria al mondo. La Repubblica islamica era effettivamente isla­mica, ma non era più una repubblica. Da allo­ra, gli iraniani hanno visto solo una parvenza di sovranità popolare. Ma già nel 1982 aveva­no qualcos'altro a cui pensare, il devastante conflitto con l'Iraq.
La guerra Iran-Iraq può essere definita a ra­gione una «guerra imposta», ma solo nel sen­so che fu Khomeini a imporla. E' una vera sfi­da all'immaginazione storica tentare di affer­rare il senso di sgomento suscitato in tutta la regione dall'avvento dell'ayatollah «pazzo». Stalin, dopo un po', si accontentò del «sociali­smo al potere in un solo paese». Khomeini, invece, voleva imporre la teocrazia sciita in ogni nazione della terra. Nel corso della guer­ra Iran-Iraq, Khomeini esercitò pressioni, a suon di attentati dinamitardi, omicidi e sov­versione armata, nei paesi confinanti, in
Bahrein, Kuwait, Libano e in Arabia Saudita. Alla Mecca l’hajj divenne teatro di agitazioni annuali; nel 1987, uno scontro tra miliziani iraniani e forze di sicurezza saudite lasciò sul terreno 400 vittime.
E l'Iraq? Nel 1979 Saddam Hussein aveva fatto una timida apertura di amicizia al nuovo Iran, con la speranza di continuare il clima di détente stabilito con lo Scià. L'Iran rispose ap­poggiando i Curdi separatisti (ogni forma di sostegno era stata sospesa dal 1975) e i movi­menti sciiti clandestini. Ci furono attentati contro il vice primo ministro e il ministro dell'informazione, e una ventina di funziona­ri di spicco vennero assassinati nel solo mese di aprile del 1980. Nel frattempo, Khomeini aveva ritirato il suo ambasciatore da Bagdad; a settembre, l'Iran bombardò le città confi­nanti di Khanaqin e Mandali.
Nella guerra Iran-Iraq (1980-88), Efraim Karsh cita nella sua cronologia otto offerte ira­chene di cessate il fuoco, la prima il 5 ottobre del 1980, dodici giorni dopo l'inizio delle osti­lità, e l'ultima il 13 luglio del 1988, cinque set­timane prima della fine.
Scopo della guerra, secondo Khomeini, era la teocratizzazione, o de-satanizzazione, dell' Iraq. La guerra diventò così una prova (falli­ta) dell'Islam, e portò, nelle parole di Sandra Mackey, a «una commemorazione quotidiana dei massimi valori sciiti, quali il sacrificio, la privazione e il lutto». Risultato: ragazzini ira­niani di dodici anni venivano spediti, in sella alle biciclette, ad attaccare le postazioni di mi­tragliatori iracheni, e ben 750.000 caduti ira­niani andarono a riempire cimiteri chilometri­ci, mentre forse il doppio restò mutilato nel corpo e nello spirito. Undici mesi più tardi, Khomeini stesso andava a raggiungere i suoi soldati nel regno dei morti.
Che cosa resta, ci si chiede, quando si sbar­ca nell'Imam Khomeini International Airport di Teheran e si entra in una città dove nessun tassista si ferma per dare un passaggio a un religioso? Che cosa resta del retaggio del Pa­dre della Rivoluzione, detto anche «quel male­detto pezzo di merda», come viene chiamato, in inglese, dai ragazzi che popolano le metro­poli iraniane? La teoria del
velayat-e faqih, propugnata da Khomeini, ovvero il governo per mano del vice reggente di Dio (cioè il mul­lah numero uno, e quindi Khomeini) era tal­mente priva di fondamento che molti dei suoi più accesi oppositori si contavano ap­punto tra le file del clero. La partecipazione politica, nella teologia sciita, viene vista come contaminazione. E a ragione: che il potere cor­rompe non è una metafora e il potere assolu­to, abbinato alla certezza incrollabile di essere nel giusto, ispirò l'incubo demenziale del go­verno di Khomeini.
Le sue imbecillità morali sono sconfinate e mi limiterò a citarne due. Dopo il tragico «fia­sco nel deserto» del presidente Carter, il falli­to salvataggio degli ostaggi americani nell' aprile del 1980, Khomeini annunciò che Dio in persona aveva gettato sabbia nei motori de­gli elicotteri, al fine di proteggere la nazione dell'Islam. Sentire tali fandonie da un ottan­tenne è una cosa; sentirle da un capo di stato bellicoso, alla radio pubblica, è un'altra. Il se­condo esempio è tratto dal libro di Sandra Mackey (siamo nel 1981): un film diffuso dal­la televisione di stato mostrava una madre che denunciava il figlio come marxista. Il fi­glio, in lacrime, si aggrappa alla mano mater­na per convincerla di aver abbandonato le idee marxiste. La madre respinge le sue implo­razioni dicendo, «devi pentirti davanti a Dio,
quando salirai sul patibolo». L'immagine si sfuma, mentre si sente l'appello che l'ayatol­lah Khomeini rivolge al popolo iraniano: «Vo­glio vedere tante madri capaci di consegnare i loro figli alla giustizia con altrettanto corag­gio e senza versare una lacrima. Questo è l'Islam».
Ebbene, sarà pure questo l'Islam, ma così certamente non sono gli iraniani.
L'Iran è una delle più antiche civiltà del pia­neta. Al suo cospetto, la Cina sembra un adole­scente e l'America un poppante. La sua storia di 2500 anni è intersecata quasi esattamente a metà dall'ascesa dell'Islam.
Di conseguenza, il cuore iraniano è bipola­re, diviso tra Serse e Maometto, tra Persepoli e Qom, tra la sensualità imperiale (con il suo lusso e la sua poesia) e la fronte corrucciata dei devoti. Anche voi sarete d'accordo su que­sta dicotomia quando scoprirete che l'autore di questa delicata quartina — Supplico un calice di vino dalla mano dell'amata.

A chi potrò confidare il mio segreto, dove lamentare il mio tormento?
— è l'ayatollah Khomeini.
Non Ferdowsi, non Rumi, non Hafez, né Omar Khayyam: no, è Khomeini. Nella vita iraniana, è sorprendente vedere come la gen­te si rechi in pellegrinaggio non solo ai san­tuari dei martiri e degli imam, ma anche ai santuari dei poeti. L'anima persiana e irania­na assomiglia alla dea Proserpina, nel capola­voro di Ted Hughes,
Tales from Ovid.
Proserpina, che trascorre l'anno Tra il marito all'inferno, tra gli spettri E la madre sulla terra, tra i fiori.
Anche la sua natura è divisa. Ora Cupa come il re degli inferi, ora Luminosa come il disco del sole, quando sbuca dalle nuvole.
Nel 1935 gli iraniani scoprirono di vivere in un paese che non era il loro: non più la Per­sia, ma l'Iran, denominazione che rimandava alla «terra degli Ariani», precedente l'Islam. Era stato questo il colpo messo a segno dallo Scià Reza (il militare che si era impadronito del trono nel 1925). Modernista e secolarizza­tore, Reza volle essere l'Atatürk o il Nasser dell'Iran. Era anche amico della Germania na­zista (e fu deposto dagli Alleati nel 1941). Nel 1976 gli iraniani scoprirono di vivere in un millennio diverso, non nell'anno 1355 (a par­tire dall'epoca del Profeta), bensì nel 2535 (a partire da Ciro il Grande). E questo grazie al figlio di Scià Reza.
Insediato con un colpo di stato nel 1953 (gravissimo crimine storico dell'Occidente, di cui soffriamo ancora oggi le conseguenze di­sastrose), lo Scià Muhammad Reza era «un poveraccio», come giustamente lo definiva Khomeini, ma quel poveraccio capiva profon­damente l'identità divisa del suo popolo. Scià Reza faceva bastonare le donne che portava­no il velo; Khomeini quelle che non lo porta­vano; ma Scià Muhammad Reza né queste né quelle.
Dopo il 1979, l'Iran fu assoggettato a una re-islamizzazione militante e accelerata. L'era zoroastriana fu dichiarata
jahiliyyah, un marasma di ignoranza e idolatria, causa di profondo imbarazzo per tutti i buoni mu­sulmani. Verso la metà degli anni Novanta, per esempio, lo storico Jahangir Tafazoli fu condannato a morte solo perché era il più no­to specialista sull'antico Iran. Noi diremmo «hanno ucciso il messaggero», e definirem­mo «negazione maniacale» la tendenza pre­dominante in Iran. L'aver soppresso per trent' anni la doppia anima iraniana — che dice sì alla libertà e alla tolleranza, sì all'amore, alla vita e all'arte, sì all'Islam e sì alla modernità — ha fornito la spinta e il coraggio ai fatti di giugno, sfociati nel vergognoso omicidio di Neda Soltan.
E così ci ritroviamo altri quattro anni di Mahmoud Ahmadinejad, che sarà ancor più nervoso e insicuro che mai, e saranno altri quattro anni di incubi sulla bomba atomica iraniana. A mio parere, Ahmadinejad gode di
piena legittimità, se non altro, nel coprirsi di ridicolo, perché è impossibile scrivere seria­mente di un uomo che, tra le varie assurdità, sostiene di aver vinto le elezioni del 2005 per il semplice fatto di non possedere la vasca dell' idromassaggio. E non c'è bisogno di rileggere la frase: quando — jacuzzi o non jacuzzi? — il candidato ha rivelato che no, non ce l'aveva l'idromassaggio, questa risposta, a quanto pa­re, gli ha assicurato la vittoria elettorale. E ciò è bastato, così si dice, a farlo brillare tra quel pol­verone di corruzione e ipocrisia che viene chia­mato Repubblica islamica.
Il politico americano cui Ahmadinejad asso­miglia di più, per un aspetto fondamentale, è Ronald Reagan. Somiglianze generali, lo am­metto, sono difficili da trovare. Ahmadinejad non vive in un ranch e non è sposato a un'ex attricetta. Reagan, dal canto suo, non aveva un diploma in scorrimento del traffico. Ahmadi­nejad non si tinge i capelli (come conferma trionfalmente la sua chioma brizzolata). Ma Re­agan, da giovane, non aveva partecipato all'as­sassinio degli avversari politici. E via dicendo. Hanno però in comune questo particolare: so­no entrambi figure politiche che amano fre­quentare le pianure tempestose dove la teolo­gia apocalittica allunga i suoi artigli verso gli armamenti nucleari.
Passiamo adesso alle differenze. Ahmadi­nejad non deve sottostare al controllo delle isti­tuzioni democratiche. Reagan non spese dena­ro
pubblico sui preparativi per il giudizio uni­versale, né era il prodotto di una cultura satura di fantasticherie estasiate di macabri tormenti. Ahmadinejad non ha il carattere per cui anche «un idealismo sempliciotto» (nelle parole di Eric Hobsbawm) potrebbe spingerlo a ricono­scere «la sinistra assurdità» della corsa agli ar­mamenti. Reagan, invece, non doveva render conto delle sue azioni a qualche prete che predi­cava la fine del mondo nella città santa di, per esempio, Baltimore. Infine, mentre Reagan pos­sedeva gli armamenti per distruggere l'intero pianeta più di una volta, Ahmadinejad non è ancora entrato in possesso del suo «bottone».
Gesù Cristo, a sentire entrambi i presidenti, sta per arrivare, ma nella visione di Ahmadi­nejad,
il Nazareno sarà un semplice accolito di un personaggio infinitamente più importante — l'Imam nascosto. Chi è costui? Nell'anno 873, l'albero genealogico del Profeta si seccò quando Hasan al-Askari (l’undicesimo imam le­gittimo, secondo lo Sciismo), si spense senza lasciare eredi. A quel punto, tra i credenti, pre­se piede il classico sillogismo. Doveva per forza esserci un erede, e se non c'era traccia della sua esistenza, ragionavano, lo si doveva al fatto che sforzi straordinari erano stati messi in atto per tenerla nascosta; e tanti sforzi straordinari per nascondere la sua identità erano giustifica­ti perché quel ragazzino era un imam straordi­nario — il Mahdi, ovvero il Signore del Tempo. Nell'escatologia sciita, il Mahdi farà ritorno durante un periodo di grandi tribolazioni (una guerra nucleare?) per liberare i fedeli dall'op­pressione e dalle ingiustizie, e presiederà al Giorno del Giudizio. Non solo Ahmadinejad, ma anche membri del suo governo stimano che l'Imam nascosto si materializzerà «tra circa quattro anni» — vale a dire, entro il secondo mandato del presidente. E dove è vissuto l'Imam nascosto dal nono secolo a oggi? In «oc­cultamento », così pare. Se l'Imam nascosto è chiamato il Signore del Tempo almeno in que­sto caso c'è un buon motivo: dovrebbe avere circa 1100 anni.
Regola numero uno: a nessuna teocrazia sia consentito il possesso di armi nucleari. E l'Iran, suggeriamo umilmente, non è ancora pronto per impadronirsi della forza che muove il sole. Tutti sappiamo che cosa pensa Ahmadi­nejad di Israele (e ricordiamo la sua conferen­za islamista a Teheran — vergognosa buffona­ta — sulla storicità dell'Olocausto). Eppure ec­co che cosa pensa Ali Rafsanjani di Israele — proprio Rafsanjani, il vecchio rivoluzionario, incarcerato più volte, pragmatista e riformato­re, così mondano, così tremendamente vena­le: «L'impiego di un unico ordigno nucleare su Israele basterà ad annientarlo», mentre un con­trattacco sull'Iran non produrrà altro che «dan­ni contenuti» nel mondo islamico; e conclude «non è irrazionale contemplare una simile eventualità». Già, vista la vocazione sciita al martirio, nelle parole di un ufficiale israeliano, la Distruzione Reciproca Assicurata per loro «non rappresenta un deterrente, ma un incen­tivo ».
Le armi nucleari, a quanto pare, sono state concesse all'umanità per funestarla con una se­rie di impossibili dilemmi. Fino a poco tempo fa, la corsa alla bomba atomica da parte dei mullah sembrava facile da ostacolare: le poten­ze nucleari potevano respingere le richieste di Teheran e cominciare a smantellare i propri ar­senali. Ma ora tra queste potenze si è affacciata la Corea del Nord (già governata da morti vi­venti); e la Repubblica islamica, ad ogni modo, non è più disposta ad accettare dilazioni e com­promessi. Stringendo in pugno le sue armi di fissione o fusione nucleare, la Guida Suprema potrebbe delegare l'onore del primo lancio a Hezbollah, o alla Chiamata all'Islam, o alla Le­gione dei Puri. O potrebbe egli stesso diventare il primo attentatore suicida con una cintura a megaton.
Intanto, il ricordo dei fatti di giugno e di Ne­da Soltan andrà a sommarsi al fardello di umi­liazioni insopportabili inflitte al popolo irania­no. Intanto, il regime senescente (azzardo di nuovo le mie previsioni) si spingerà oltre la re­pressione, fino all'effetto unificatore di una nuova guerra, ma stavolta non sarà un conflit­to contro un paese di pari dimensioni, né più grande. Il piccolo Bahrein, al 60 percento sciita, sembra il candidato ideale.
Per quel che riguarda l'Islam apocalittico, in tutte le sue forme, non posso far altro che cita­re il grande Norman Cohn. Il brano è estratto dalla prefazione del 1995 al libro
Licenza per un genocidio (1967), dove si parla del falso do­cumento, di fabbricazione zarista, chiamato «I protocolli dei Savi di Sion», e della Shoah, che per gli ebrei significa «vento di morte»: «Esiste un universo sotterraneo dove fantasie patologi­che, camuffate da idee, vengono rimuginate da imbroglioni e fanatici poco acculturati (specie il basso clero) a beneficio degli ignoranti e dei superstiziosi. Ci sono momenti in cui questo universo sotterraneo emerge dalle profondità e di colpo stordisce, affascina e cattura una moltitudine di persone generalmente sane di mente e coscienziose, fino a spingerle ad ab­bandonare ogni ragione e ogni senso di respon­sabilità. Di tanto in tanto, può capitare che que­sto mondo sotterraneo irrompa sulla scena po­litica e intervenga ad alterare il corso della sto­ria ».

Per inviare al Corriere della Sera la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante.



lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT