Le ricostruzioni storiche, con l'aggiunta di sottili analisi politiche, rivisitate dagli scrittori sembrano sovente esercizi intellettuali, quasi un bisogno da parte di chi scrive abitualmente romanzi, di comunicare ai lettori che non vive in mondo separato dalla realtà. Per cui diventa indispensabile affrontare i fatti quotidiani, trasformarsi in cronista, storico. E' quel che succede, tra i tanti, a Martin Amis, famoso scrittore inglese, che interpreta gli avvenimenti iraniani sul CORRIERE della SERA di oggi, 19/07/2009, a pag.14-15, un un lungo articolo dal titolo " La Repubblica islamica e i segni dell'agonia ":
Martin Amis
Lo scrittore Jason Elliot ha intitolato il suo recente e suggestivo diario di viaggio in Iran Specchio dell'ignoto. Personalmente, sono ben consapevole dei rischi banali che incombono su qualsiasi scritto riguardante il futuro. Tuttavia, è sotto gli occhi di tutti che in Iran la Repubblica islamica già avverte i primi sintomi dell'agonia. Nel processo di disfacimento, che sarà lungo e sanguinoso, con ogni probabilità Mir Hossein Mousavi svolgerà un ruolo minore rispetto a Neda Agha Soltan, la cui metamorfosi (passata nel giro di pochi istanti da bella ragazza piena di vita e di speranza a un'atroce maschera mortuaria) ha fissato indelebilmente quel concetto così radicato nella psiche iraniana, che trae origine dalla passione e dalla tragedia dello Sciismo: il martirio come risposta all'ingiustizia barbarica. Ma Neda Soltan incarna qualcos'altro ancora: la modernità.
E' opportuno tenere a mente il titolo del libro di Elliot mentre passiamo in rivista gli eventi di giugno, che si prestano a due interpretazioni. E' possibile che le cose siano andate più o meno come ci sono state presentate: i risultati di un'elezione fraudolenta comunicati al paese con una fretta indecente e con risibile incompetenza (in altre parole, con il più profondo disprezzo implicito per la democrazia); subito dopo la repressione di stato, che ha soffocato nel sangue i disordini civili. A questo punto occorre riflettere: se, dopo il solito lasso di tempo, la Guida Suprema Ali Khamenei avesse tranquillamente annunciato la vittoria del presidente Ahmadinejad con il 51 percento dei consensi, allora l'Iran, e il mondo intero, avrebbero certamente chinato il capo e accettato il verdetto delle urne. Ma è anche ipotizzabile (non facciamoci illusioni sulla Repubblica islamica) che la vittoria schiacciante di Ahmadinejad sia stata manovrata, e sbandierata in pompa magna, proprio per scatenare il terrore e giustificare il giro di vite.
Nel 1997 il regime si sentiva talmente sicuro di sé da ratificare la vittoria a sorpresa del presidente Muhammad Khatami, che aveva riportato la stessa schiacciante maggioranza del 69 per cento dei voti in una gioiosa elezione che nessuno si era sognato di contestare. Khatami, un religioso, vantava tuttavia credenziali liberali assai più forti del tecnocrate Mousavi (il quale, durante la guerra Iran-Iraq, si era spostato ben più a destra di Khatami). Festosamente salutato come l'«ayatollah Gorbaciov», Khatami ben presto aveva accennato al «dialogo costruttivo» che intendeva avviare con gli Stati Uniti. Sembrava già veder aprirsi qualche spiraglio nell'isolamento internazionale, che rende tanto pesante e asfittica l'atmosfera in Iran.
Era un processo che avrebbe richiesto del tempo, ovviamente. Nel giugno del 2001 Khatami fu rieletto con una maggioranza del 78 percento. Sette mesi dopo giunse il discorso di George W. Bush sull'«asse del male» (tra le dichiarazioni più distruttive e deleterie della storia americana), e mise fine alla Primavera di Teheran. In realtà, Bush è stato un dono divino alla destra iraniana, rafforzando inconsapevolmente il controllo dell'Iran sulla regione (grazie all'invasione avventuristica, anzi, sperimentale dell'Iraq), e fornendo ampie prove della sua famigerata «arroganza» (l'atteggiamento più detestato in assoluto nella percezione degli iraniani sciiti). Oggi, i mullah si rendono conto che Obama è troppo astuto per prestarsi a questi giochi. Se avesse vinto Mousavi, Obama avrebbe ricompensato l'Iran in modo assai tangibile per tutti i suoi cittadini. E i mullah non potevano assolutamente accettarlo.
La terra ha già tremato sotto i loro piedi, con le elezioni pro occidentali, anti siriane e anti iraniane in Libano. E questo, assieme ad altre forze storiche, spiega l'attuale confusione e isterismo che travagliano il clero armato in Iran.
Perché oggi i mullah sanno che navigano alla deriva in un mare di illegittimità. I grandi registi della Rivoluzione del 1978-79 sono stati allontanati o esautorati. Delle quattro narrative sulle quali è fondata la nazione, tre sono infarcite di falsità.
Innanzitutto, la «Rivoluzione islamica» non è stata una rivoluzione islamica; secondo, la guerra Iran-Iraq (1980-88), che ha sterminato una generazione, non è stata una «guerra imposta», come viene ancora denominata; e infine l'ayatollah Ruhollah Khomeini non è stato un grande personaggio (Khomeini, come tutti gli iraniani più acuti hanno capito da molto tempo, si è rivelato un mostro di proporzioni storico-globali). Fatto di altissima rilevanza al momento attuale, la quarta narrativa, che ha come filo conduttore l'anti americanismo (o la «Westoxication» del vecchio grido di battaglia), è stata bruscamente interrotta dall'arrivo di Barack Obama. La Repubblica islamica è condannata anche dalla modernità (sotto forma delle comunicazioni istantanee di massa) e dal suo destino demografico: la Persia, tra le nazioni più antiche della terra, ha una popolazione sempre più giovane.
«Sugli altipiani dell'Iran, nel corso della loro lunga storia», scrive Sandra Mackey, nel suo classico magistrale, Gli iraniani: la Persia, l'Islam e l'anima di una nazione, «il sole è sorto e tramontato per quasi un milione di giorni». Ma prima di affrontare l'anima iraniana, e il milione di giorni, passiamo in rassegna le Tre Menzogne della Repubblica islamica.
La Rivoluzione del 1979 non è stata una rivoluzione islamica finché non è terminata. Alle origini, era un movimento popolare su vasta scala, una valanga di manifestazioni e sommosse, scioperi e disordini susseguitisi a ritmo incessante tanto da mandare in black out il Palazzo del Pavone; nel frattempo, tra le forze armate si registravano migliaia di diserzioni al giorno. Gli eventi del giugno 2009 non sono altro che un breve sussulto, se paragonati all'assordante crescendo del 1978. Le proteste non scoppiavano per sostenere un governo di religiosi, ma perché una monarchia decadente aveva perso il suo farr — la sua aura di regalità.
E' istruttivo confrontare la rivoluzione iraniana alle due rivoluzioni russe del 1917: la rivoluzione di febbraio, una rivolta popolare, e la rivoluzione d'ottobre, il colpo di stato leninista (mentre era insediato un governo provvisorio del tutto impotente). Trotsky amava ripetere che i Bolscevichi avevano trovato il potere gettato per strada e «l'avevano raccolto come una piuma». E a quel punto, ovviamente, si misero in movimento i veri ingranaggi del regime — contro i Bianchi, contro i Verdi (i contadini), contro i sindacati, contro la chiesa e via dicendo, finché non furono eradicati tutti i centri alternativi di potere (e di opinione), fino a vietare persino gli assembramenti di tre persone.
Il 16 gennaio 1979, lo Scià Muhammad Reza lasciò in aereo Teheran, per rifugiarsi al Cairo. Il primo febbraio, l'ayatollah Khomeini sbarcò a Teheran dal suo esilio parigino (dove tra i suoi vicini più chiacchierati — non posso tacerlo — c'era Brigitte Bardot). Terminava così la rivoluzione politica e iniziava la rivoluzione culturale. Il governo provvisorio fu successivamente scalzato dai komiteh (milizie religiose, poi confluite nei Basiji), dai Guardiani della rivoluzione (in seguito Pasdaran e forze armate), e dai tribunali rivoluzionari (che si affrettarono a giustiziare sommariamente i superstiti del vecchio regime, più un buon numero di personaggi scomodi). Il 4 novembre, di propria iniziativa, un gruppo di studenti devoti si infiltrò nell'Ambasciata americana e prese in ostaggio 53 funzionari. Khomeini non perse tempo a sfruttare lo smacco inflitto al Grande Satana, tanto che nel primo plebiscito sulla nuova costituzione, dichiarò che ben il «99,5 percento» dei 17 milioni di elettori aveva acclamato e confermato l'autocrazia islamica.
Era rimasto però quel fastidioso «0,5 percento » da sistemare e Khomeini si ritrovò ad affrontare una vigorosa opposizione da ogni settore, ma soprattutto dai Mujahedine Khalq. Fondato una quindicina d'anni prima in opposizione allo Scià, i Mujahedin (marxisti, islamisti di sinistra e sostenitori dei diritti delle donne) vantavano mezzo milione di seguaci e potevano mettere in campo un esercito di 100.000 esperti guerriglieri. Quando Khomeini li escluse dal nuovo ordinamento politico perché «non islamici», i Mujahedin iniziarono una campagna di azioni terroristiche. Nel 1981, forse lo ricorderete, i Mujahedin facevano saltare in aria decine di mullah (74 nel corso di un singolo attacco a Teheran); e assassinarono oltre un migliaio di funzionari statali negli ultimi mesi di quell'anno. Ne scaturì una guerra civile di natura terroristica. A settembre, i Guardiani della rivoluzione di Khomeini giustiziavano una cinquantina di uomini al giorno, colpevoli di «aver dichiarato guerra a Dio» (oggi come allora, stesso crimine e stessa punizione invocata dal clero). Animati da uno zelo tanto rivoluzionario quanto religioso, con i loro metodi sanguinari i mullah alla fine ebbero la meglio.
Le rivoluzioni, quasi per definizione, sono profondamente anti clericali. Addirittura nel 1922, per fare l’esempio più eclatante, Lenin mandò al patibolo 4500 tra preti e monaci, più 3500 suore. Al contrario, in Iran il clero si è arroccato ai vertici del potere. Nel dicembre del 1982, Khomeini si era quasi del tutto assicurato il monopolio della repressione e il popolo iraniano si ritrovò a vivere governato dall'unica teocrazia rivoluzionaria al mondo. La Repubblica islamica era effettivamente islamica, ma non era più una repubblica. Da allora, gli iraniani hanno visto solo una parvenza di sovranità popolare. Ma già nel 1982 avevano qualcos'altro a cui pensare, il devastante conflitto con l'Iraq.
La guerra Iran-Iraq può essere definita a ragione una «guerra imposta», ma solo nel senso che fu Khomeini a imporla. E' una vera sfida all'immaginazione storica tentare di afferrare il senso di sgomento suscitato in tutta la regione dall'avvento dell'ayatollah «pazzo». Stalin, dopo un po', si accontentò del «socialismo al potere in un solo paese». Khomeini, invece, voleva imporre la teocrazia sciita in ogni nazione della terra. Nel corso della guerra Iran-Iraq, Khomeini esercitò pressioni, a suon di attentati dinamitardi, omicidi e sovversione armata, nei paesi confinanti, in Bahrein, Kuwait, Libano e in Arabia Saudita. Alla Mecca l’hajj divenne teatro di agitazioni annuali; nel 1987, uno scontro tra miliziani iraniani e forze di sicurezza saudite lasciò sul terreno 400 vittime.
E l'Iraq? Nel 1979 Saddam Hussein aveva fatto una timida apertura di amicizia al nuovo Iran, con la speranza di continuare il clima di détente stabilito con lo Scià. L'Iran rispose appoggiando i Curdi separatisti (ogni forma di sostegno era stata sospesa dal 1975) e i movimenti sciiti clandestini. Ci furono attentati contro il vice primo ministro e il ministro dell'informazione, e una ventina di funzionari di spicco vennero assassinati nel solo mese di aprile del 1980. Nel frattempo, Khomeini aveva ritirato il suo ambasciatore da Bagdad; a settembre, l'Iran bombardò le città confinanti di Khanaqin e Mandali.
Nella guerra Iran-Iraq (1980-88), Efraim Karsh cita nella sua cronologia otto offerte irachene di cessate il fuoco, la prima il 5 ottobre del 1980, dodici giorni dopo l'inizio delle ostilità, e l'ultima il 13 luglio del 1988, cinque settimane prima della fine.
Scopo della guerra, secondo Khomeini, era la teocratizzazione, o de-satanizzazione, dell' Iraq. La guerra diventò così una prova (fallita) dell'Islam, e portò, nelle parole di Sandra Mackey, a «una commemorazione quotidiana dei massimi valori sciiti, quali il sacrificio, la privazione e il lutto». Risultato: ragazzini iraniani di dodici anni venivano spediti, in sella alle biciclette, ad attaccare le postazioni di mitragliatori iracheni, e ben 750.000 caduti iraniani andarono a riempire cimiteri chilometrici, mentre forse il doppio restò mutilato nel corpo e nello spirito. Undici mesi più tardi, Khomeini stesso andava a raggiungere i suoi soldati nel regno dei morti.
Che cosa resta, ci si chiede, quando si sbarca nell'Imam Khomeini International Airport di Teheran e si entra in una città dove nessun tassista si ferma per dare un passaggio a un religioso? Che cosa resta del retaggio del Padre della Rivoluzione, detto anche «quel maledetto pezzo di merda», come viene chiamato, in inglese, dai ragazzi che popolano le metropoli iraniane? La teoria del velayat-e faqih, propugnata da Khomeini, ovvero il governo per mano del vice reggente di Dio (cioè il mullah numero uno, e quindi Khomeini) era talmente priva di fondamento che molti dei suoi più accesi oppositori si contavano appunto tra le file del clero. La partecipazione politica, nella teologia sciita, viene vista come contaminazione. E a ragione: che il potere corrompe non è una metafora e il potere assoluto, abbinato alla certezza incrollabile di essere nel giusto, ispirò l'incubo demenziale del governo di Khomeini.
Le sue imbecillità morali sono sconfinate e mi limiterò a citarne due. Dopo il tragico «fiasco nel deserto» del presidente Carter, il fallito salvataggio degli ostaggi americani nell' aprile del 1980, Khomeini annunciò che Dio in persona aveva gettato sabbia nei motori degli elicotteri, al fine di proteggere la nazione dell'Islam. Sentire tali fandonie da un ottantenne è una cosa; sentirle da un capo di stato bellicoso, alla radio pubblica, è un'altra. Il secondo esempio è tratto dal libro di Sandra Mackey (siamo nel 1981): un film diffuso dalla televisione di stato mostrava una madre che denunciava il figlio come marxista. Il figlio, in lacrime, si aggrappa alla mano materna per convincerla di aver abbandonato le idee marxiste. La madre respinge le sue implorazioni dicendo, «devi pentirti davanti a Dio, quando salirai sul patibolo». L'immagine si sfuma, mentre si sente l'appello che l'ayatollah Khomeini rivolge al popolo iraniano: «Voglio vedere tante madri capaci di consegnare i loro figli alla giustizia con altrettanto coraggio e senza versare una lacrima. Questo è l'Islam».
Ebbene, sarà pure questo l'Islam, ma così certamente non sono gli iraniani.
L'Iran è una delle più antiche civiltà del pianeta. Al suo cospetto, la Cina sembra un adolescente e l'America un poppante. La sua storia di 2500 anni è intersecata quasi esattamente a metà dall'ascesa dell'Islam.
Di conseguenza, il cuore iraniano è bipolare, diviso tra Serse e Maometto, tra Persepoli e Qom, tra la sensualità imperiale (con il suo lusso e la sua poesia) e la fronte corrucciata dei devoti. Anche voi sarete d'accordo su questa dicotomia quando scoprirete che l'autore di questa delicata quartina — Supplico un calice di vino dalla mano dell'amata.
A chi potrò confidare il mio segreto, dove lamentare il mio tormento?
— è l'ayatollah Khomeini.
Non Ferdowsi, non Rumi, non Hafez, né Omar Khayyam: no, è Khomeini. Nella vita iraniana, è sorprendente vedere come la gente si rechi in pellegrinaggio non solo ai santuari dei martiri e degli imam, ma anche ai santuari dei poeti. L'anima persiana e iraniana assomiglia alla dea Proserpina, nel capolavoro di Ted Hughes, Tales from Ovid.
Proserpina, che trascorre l'anno Tra il marito all'inferno, tra gli spettri E la madre sulla terra, tra i fiori.
Anche la sua natura è divisa. Ora Cupa come il re degli inferi, ora Luminosa come il disco del sole, quando sbuca dalle nuvole.
Nel 1935 gli iraniani scoprirono di vivere in un paese che non era il loro: non più la Persia, ma l'Iran, denominazione che rimandava alla «terra degli Ariani», precedente l'Islam. Era stato questo il colpo messo a segno dallo Scià Reza (il militare che si era impadronito del trono nel 1925). Modernista e secolarizzatore, Reza volle essere l'Atatürk o il Nasser dell'Iran. Era anche amico della Germania nazista (e fu deposto dagli Alleati nel 1941). Nel 1976 gli iraniani scoprirono di vivere in un millennio diverso, non nell'anno 1355 (a partire dall'epoca del Profeta), bensì nel 2535 (a partire da Ciro il Grande). E questo grazie al figlio di Scià Reza.
Insediato con un colpo di stato nel 1953 (gravissimo crimine storico dell'Occidente, di cui soffriamo ancora oggi le conseguenze disastrose), lo Scià Muhammad Reza era «un poveraccio», come giustamente lo definiva Khomeini, ma quel poveraccio capiva profondamente l'identità divisa del suo popolo. Scià Reza faceva bastonare le donne che portavano il velo; Khomeini quelle che non lo portavano; ma Scià Muhammad Reza né queste né quelle.
Dopo il 1979, l'Iran fu assoggettato a una re-islamizzazione militante e accelerata. L'era zoroastriana fu dichiarata jahiliyyah, un marasma di ignoranza e idolatria, causa di profondo imbarazzo per tutti i buoni musulmani. Verso la metà degli anni Novanta, per esempio, lo storico Jahangir Tafazoli fu condannato a morte solo perché era il più noto specialista sull'antico Iran. Noi diremmo «hanno ucciso il messaggero», e definiremmo «negazione maniacale» la tendenza predominante in Iran. L'aver soppresso per trent' anni la doppia anima iraniana — che dice sì alla libertà e alla tolleranza, sì all'amore, alla vita e all'arte, sì all'Islam e sì alla modernità — ha fornito la spinta e il coraggio ai fatti di giugno, sfociati nel vergognoso omicidio di Neda Soltan.
E così ci ritroviamo altri quattro anni di Mahmoud Ahmadinejad, che sarà ancor più nervoso e insicuro che mai, e saranno altri quattro anni di incubi sulla bomba atomica iraniana. A mio parere, Ahmadinejad gode di piena legittimità, se non altro, nel coprirsi di ridicolo, perché è impossibile scrivere seriamente di un uomo che, tra le varie assurdità, sostiene di aver vinto le elezioni del 2005 per il semplice fatto di non possedere la vasca dell' idromassaggio. E non c'è bisogno di rileggere la frase: quando — jacuzzi o non jacuzzi? — il candidato ha rivelato che no, non ce l'aveva l'idromassaggio, questa risposta, a quanto pare, gli ha assicurato la vittoria elettorale. E ciò è bastato, così si dice, a farlo brillare tra quel polverone di corruzione e ipocrisia che viene chiamato Repubblica islamica.
Il politico americano cui Ahmadinejad assomiglia di più, per un aspetto fondamentale, è Ronald Reagan. Somiglianze generali, lo ammetto, sono difficili da trovare. Ahmadinejad non vive in un ranch e non è sposato a un'ex attricetta. Reagan, dal canto suo, non aveva un diploma in scorrimento del traffico. Ahmadinejad non si tinge i capelli (come conferma trionfalmente la sua chioma brizzolata). Ma Reagan, da giovane, non aveva partecipato all'assassinio degli avversari politici. E via dicendo. Hanno però in comune questo particolare: sono entrambi figure politiche che amano frequentare le pianure tempestose dove la teologia apocalittica allunga i suoi artigli verso gli armamenti nucleari.
Passiamo adesso alle differenze. Ahmadinejad non deve sottostare al controllo delle istituzioni democratiche. Reagan non spese denaro pubblico sui preparativi per il giudizio universale, né era il prodotto di una cultura satura di fantasticherie estasiate di macabri tormenti. Ahmadinejad non ha il carattere per cui anche «un idealismo sempliciotto» (nelle parole di Eric Hobsbawm) potrebbe spingerlo a riconoscere «la sinistra assurdità» della corsa agli armamenti. Reagan, invece, non doveva render conto delle sue azioni a qualche prete che predicava la fine del mondo nella città santa di, per esempio, Baltimore. Infine, mentre Reagan possedeva gli armamenti per distruggere l'intero pianeta più di una volta, Ahmadinejad non è ancora entrato in possesso del suo «bottone».
Gesù Cristo, a sentire entrambi i presidenti, sta per arrivare, ma nella visione di Ahmadinejad, il Nazareno sarà un semplice accolito di un personaggio infinitamente più importante — l'Imam nascosto. Chi è costui? Nell'anno 873, l'albero genealogico del Profeta si seccò quando Hasan al-Askari (l’undicesimo imam legittimo, secondo lo Sciismo), si spense senza lasciare eredi. A quel punto, tra i credenti, prese piede il classico sillogismo. Doveva per forza esserci un erede, e se non c'era traccia della sua esistenza, ragionavano, lo si doveva al fatto che sforzi straordinari erano stati messi in atto per tenerla nascosta; e tanti sforzi straordinari per nascondere la sua identità erano giustificati perché quel ragazzino era un imam straordinario — il Mahdi, ovvero il Signore del Tempo. Nell'escatologia sciita, il Mahdi farà ritorno durante un periodo di grandi tribolazioni (una guerra nucleare?) per liberare i fedeli dall'oppressione e dalle ingiustizie, e presiederà al Giorno del Giudizio. Non solo Ahmadinejad, ma anche membri del suo governo stimano che l'Imam nascosto si materializzerà «tra circa quattro anni» — vale a dire, entro il secondo mandato del presidente. E dove è vissuto l'Imam nascosto dal nono secolo a oggi? In «occultamento », così pare. Se l'Imam nascosto è chiamato il Signore del Tempo almeno in questo caso c'è un buon motivo: dovrebbe avere circa 1100 anni.
Regola numero uno: a nessuna teocrazia sia consentito il possesso di armi nucleari. E l'Iran, suggeriamo umilmente, non è ancora pronto per impadronirsi della forza che muove il sole. Tutti sappiamo che cosa pensa Ahmadinejad di Israele (e ricordiamo la sua conferenza islamista a Teheran — vergognosa buffonata — sulla storicità dell'Olocausto). Eppure ecco che cosa pensa Ali Rafsanjani di Israele — proprio Rafsanjani, il vecchio rivoluzionario, incarcerato più volte, pragmatista e riformatore, così mondano, così tremendamente venale: «L'impiego di un unico ordigno nucleare su Israele basterà ad annientarlo», mentre un contrattacco sull'Iran non produrrà altro che «danni contenuti» nel mondo islamico; e conclude «non è irrazionale contemplare una simile eventualità». Già, vista la vocazione sciita al martirio, nelle parole di un ufficiale israeliano, la Distruzione Reciproca Assicurata per loro «non rappresenta un deterrente, ma un incentivo ».
Le armi nucleari, a quanto pare, sono state concesse all'umanità per funestarla con una serie di impossibili dilemmi. Fino a poco tempo fa, la corsa alla bomba atomica da parte dei mullah sembrava facile da ostacolare: le potenze nucleari potevano respingere le richieste di Teheran e cominciare a smantellare i propri arsenali. Ma ora tra queste potenze si è affacciata la Corea del Nord (già governata da morti viventi); e la Repubblica islamica, ad ogni modo, non è più disposta ad accettare dilazioni e compromessi. Stringendo in pugno le sue armi di fissione o fusione nucleare, la Guida Suprema potrebbe delegare l'onore del primo lancio a Hezbollah, o alla Chiamata all'Islam, o alla Legione dei Puri. O potrebbe egli stesso diventare il primo attentatore suicida con una cintura a megaton.
Intanto, il ricordo dei fatti di giugno e di Neda Soltan andrà a sommarsi al fardello di umiliazioni insopportabili inflitte al popolo iraniano. Intanto, il regime senescente (azzardo di nuovo le mie previsioni) si spingerà oltre la repressione, fino all'effetto unificatore di una nuova guerra, ma stavolta non sarà un conflitto contro un paese di pari dimensioni, né più grande. Il piccolo Bahrein, al 60 percento sciita, sembra il candidato ideale.
Per quel che riguarda l'Islam apocalittico, in tutte le sue forme, non posso far altro che citare il grande Norman Cohn. Il brano è estratto dalla prefazione del 1995 al libro Licenza per un genocidio (1967), dove si parla del falso documento, di fabbricazione zarista, chiamato «I protocolli dei Savi di Sion», e della Shoah, che per gli ebrei significa «vento di morte»: «Esiste un universo sotterraneo dove fantasie patologiche, camuffate da idee, vengono rimuginate da imbroglioni e fanatici poco acculturati (specie il basso clero) a beneficio degli ignoranti e dei superstiziosi. Ci sono momenti in cui questo universo sotterraneo emerge dalle profondità e di colpo stordisce, affascina e cattura una moltitudine di persone generalmente sane di mente e coscienziose, fino a spingerle ad abbandonare ogni ragione e ogni senso di responsabilità. Di tanto in tanto, può capitare che questo mondo sotterraneo irrompa sulla scena politica e intervenga ad alterare il corso della storia ».
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