Mentre sul CORRIERE della SERA di ieri, Sergio Romano trovava nel regime teocratico iraniano dei segnali interessanti di democrazia, sul FOGLIO di oggi, 16/07/2009, a pag.2, Carlo Panella analizza lucidamente il doppio gioco esercitato dal potere a Teheran, " Domani Rafsanjani guida la preghiera" è il titolo.
Carlo Panella, e la copertina del suo ultimo libro.
Roma. La notizia che Ali Akbar Rafsanjani, potente sponsor di Mir Hossein Moussavi, terrà il sermone del venerdì domani di Teheran può apparire sotto due luci opposte. Può sembrare un segnale di debolezza del regime, costretto a dare la parola a un suo oppositore – Rafsanjani ha contestato i brogli elettorali, quindi l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza e ha sempre protetto Moussavi – o può sembrare una sua resa alla logica del regime. In realtà, fatto salvo che mai Rafsanjani ha compiuto atti di rottura, che ha sempre “galleggiato”, che per settimane ha taciuto, mentre i manifestanti venivano massacrati (avvalorando così il secondo scenario), questo è l’ennesimo episodio in cui traspare l’essenza del regime iraniano più difficile da comprendere in occidente. Ali Khamenei guida un regime teocratico, autoritario e repressivo, in cui concentra nella propria persona poteri assolutamente dittatoriali (il presidente della Repubblica e il governo sono solo esecutori di sue direttive), in cui Khomeini ha semplicemente separato quanto è invece indissolubilmente unito nelle democrazie: il consenso dal potere decisionale. La struttura istituzionale della Repubblica islamica d’Iran è segnata da questa netta separazione: il regime è cosciente di dovere tenere un canale aperto con la popolazione attraverso strutture elettorali, in cui si sfogano umori, emergono contraddizioni, ma si guarda bene dal permettere che poi queste manifestazioni di consenso – o di dissenso – si possano trasformare in quote di potere reale che la dirigenza mette a disposizione della volontà degli elettori. Nella storia trentennale del regime khomeinista si trovano infinite esplicitazioni di questo meccanismo, che ora concede la più ascoltata tribuna politica del paese – il discorso del venerdì a Teheran – proprio al leader dell’opposizione. Rafsanjani, con tutta probabilità, imposterà la sua – mediocre – oratoria sull’appello all’unità del popolo, ancor più naturale dopo la tragedia di ieri del Tupolev schiantatosi a pochi minuti dal decollo (tutti morti i passeggeri), sarà aggressivo circa le “provocazioni imperialiste”, ma non mancherà di dare pubblicamente il suo suggello alle ragioni di Moussavi, e di Khatami, che siederanno in prima fila. L’occasione, potrà servire al movimento come spazio in cui incunearsi e non è improbabile che dopo il discorso vi saranno cortei e incidenti. Ma tanto il regime permetterà di dire a Rafsanjani sul palco quanto non permetterà a nessuno di gridare, subito dopo, nelle piazze. Questo uso cinico e dittatoriale degli ayatollah iraniani della forma della democrazia – deprivata della sua sostanza decisionale – continua così ad accecare gli occhi di molti analisti occidentali, ultimo Strobe Talbott, presidente della Brookings Institution che pochi giorni fa giudicava l’Iran “il paese più democratico del medio oriente dopo, naturalmente, Israele”. Una cecità d’analisi grave che preoccupa, visto il ruolo di Talbott quale consigliere di Hillary Clinton. Una cecità d’analisi evidente nel discorso di Obama al Cairo, in cui si esponeva a una profferta di dialogo, convinto di avere un interlocutore condizionabile dal suo elettorato di lì a poco. E’ omogenea a questo quadro la crudeltà che il regime sta mostrando non soltanto nelle piazze. Dopo le decine di impiccagioni di “criminali comuni” degli ultimi giorni, due giorni fa sono stati impiccati a Zahedan tredici “nemici di Dio e corrotti sulla Terra”, membri del gruppo sunnita di Jundullah, accusati di vari attentati recenti nel Sistan Beluchistan, al confine con Afghanistan e Pakistan. La strage rimanda a un gioco complesso applicato in questa regione dal regime di Teheran, denunciato il 12 giugno da Robert Gates, segretario americano alla Difesa: “L’Iran attua una sorta di doppio gioco in Afghanistan; dice di avere buone relazioni con il governo afghano, ma nello stesso tempo fa passare dai suoi confini una flotta di armi e di mezzi che permettono ai talebani di attaccare le forze dell’Isaf ”. Jundullah, dunque, sponsorizzato dai talebani, si rafforza nelle crepe di questa apparente linea contraddittoria degli ayatollah, che copre inconfessabili complicità di molti gerarchi del regime con il traffico di droga che passa attraverso il Beluchistan.
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