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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
16.07.2009 La sharia ha del lati positivi, lo pensa quello sciocchino di Noah Feldman
Ma Hanif Kureishi, musulmano,per fortuna non la pensa così

Testata: Corriere della Sera
Data: 16 luglio 2009
Pagina: 39
Autore: Marco Ventura
Titolo: «Noah Feldman: il dialogo passa attraverso la sharia»

E' sempre bene conoscere i nemici al proprio interno. L'articolo di Marco Ventura, sul CORRIERE della SERA di oggi, a pag.39, dal titolo " Noah Feldman: il dialogo passa attraverso la sharia " ci fa infatti conoscere le opinioni del signor Feldman, opposte a quelle di Hanif Kureishi, un musulmano che la sharia la conosce sulla sua pelle. Per Feldman, invece, ebreo ma americano, bisogna credere nel lato positivo della sharia. Come se ce ne fosse uno. Eccolo:

 Noah Feldman, che vive nel mondo dei sogni.

Negli anni in cui si sviluppava l’islamismo, l’adolescente Noah Feldman si formava al­l’ortodossia ebraica nel suo Massachusetts, presso la Maimonides School. Era molto lontano dal mondo britannico post-coloniale in cui lo scrit­tore Hanif Kureishi si stava imponendo col suo racconto del nuovo Regno Unito multiculturale. Sul «Corriere» di ieri Ku­reishi ha rievocato quegli anni ottanta, culminati nella celebre fatwa di Khomei­ni contro I versi satanici di Rushdie. Ha ricordato che con quel cambiamento «dobbiamo ancora fare i conti». Vent’an­ni dopo, Kureishi e Feldman restano lon­tani, ma cercano risposte alla stessa do­manda: cosa fare con l’Islam? Noah Feld­man mi riceve nel suo studio di fronte alla celebre Langdell Hall, Facoltà di Leg­ge di Harvard. Se il cinquantacinquenne Kureishi si interroga da scrittore anglo pakistano nato ai tempi di Nehru, Feld­man risponde da giurista americano na­to dopo il sessantotto. «Dobbiamo dare una chance alla Sharia, alla legge del­l’Islam — mi dice —, non c’è strada mi­gliore oggi».
Non ancora quarantenne, Noah Feld­man è una star del diritto costituzionale Usa. Enfant prodige dell’amministrazio­ne Bush, ha scritto libri influenti sulla questione islamica; c’è l’inchiostro della sua penna sulla costituzione irachena imposta dalla pax americana. Nel suo ul­timo saggio su
La Caduta e la Rinascita dello Stato Islamico ( The Fall and Rise of the Islamic State, Princeton Universi­ty Press, pp. 189, $ 22,95), Feldman stu­dia lo sviluppo storico dello stato islami­co e auspica una nuova costituzione de­mocratica fondata sulla Sharia per gli stati musulmani. Potrebbe esser questa la strada per uscire dalla paralisi sociale e dalla stagnazione economica. «Dico che è possibile — precisa —, non che è probabile». L’Occidente deve sostenere questa potenzialità, spiega, deve vedere un lato positivo nel progetto islamista. Non può più pensare di imporre lo stato laico ai musulmani. Il socialismo nazio­nalista arabo è morto con le ideologie del novecento. Va messo alla prova chi grida più Islam per invocare maggiore giustizia e libertà.
La tesi è ricca di argomenti, storici e giuridici. Da esperto di diritto musulma­no, Feldman ricostruisce «ciò che fun­zionava » nei secoli in cui lo stato islami­co si è sviluppato. Ritiene fondamentale proprio l’imperio della Sharia, nell’inter­pretazione fornitane via via dall’influen­te ceto dei giuristi. Lo stato islamico si è fatto assoggettando sovrani, giudici, in­terpreti, società tutta, ad un unico siste­ma di norme e di istituzioni musulma­ne. Imponendosi ai diversi poteri, la giu­stizia islamica ha garantito stabilità e or­dine fino alla fallita modernizzazione dell’Impero ottomano, alla sua caduta,
all’imposizione coloniale d’un sistema giuridico mezzo islamico e mezzo laico. Sotto la cui ombra è cresciuto il dispoti­smo di regimi non più bilanciati dall’or­dine della Sharia. La crisi degli stati isla­mici, il loro sottosviluppo, le loro tensio­ni, starebbero secondo Feldman nell’in­capacità di sostituire efficacemente quella Sharia che per secoli ha garantito molta coesione e un qualche benessere alla comunità.

Non gli nascondo i miei dubbi su que­sta lettura, ma sposto la discussione sul­l’oggi. Sulle domande dei Kureishi e dei Rushdie. Perché il mondo dovrebbe cre­dere al programma islamista della Sha­ria come fonte di giustizia e di ordine, di «stato di diritto»? L’Iran e l’Arabia Saudita non bastano a provare il contra­rio? Feldman ritiene che se la Sharia ver­rà ripristinata attraverso un processo co­stituzionale e democratico, si innesche­rà una dinamica positiva. Gli ribatto che proprio qui, sulla forza creatrice di una costituzione democratica, il giurista americano si sbaglia: che l’ottimismo co­stituzionale Usa è fuori posto in terra d’Islam; perché la cultura è diversa, la so­cietà è diversa. Ma Feldman insiste, di­fende la sua idea che le costituzioni libe­rali possono creare una «cultura del di­ritto » che cambi la società. Anche in ter­ra d’Islam. Che perciò ha scritto questo libro, perché crede che qui sta «il valore che posso aggiungere»: aiutare gli stati islamici a darsi costituzioni che combi­nino Sharia e democrazia, costituzioni da cui parta una riforma liberale della società. Noah Feldman mi racconta di esser cresciuto da ebreo osservante in un ambiente dominato dallo sforzo di «riconciliare religione e modernità». Si dice consapevole dei «limiti di questo modello di riconciliazione». Sorride e mi spiega compiaciuto d’essere il bersa­glio polemico «tanto dei religiosi con­servatori che degli intellettuali di sini­stra
». Gli ricordo il suo libro del 2005 sul pluralismo religioso negli Usa ( Divided by God): non starà per caso pensando che la Sharia può essere per l’Islam con­temporaneo il collante che la libertà reli­giosa è per l’America? «Per niente — mi risponde —, la nostra religione civile è troppo sottile, evanescente». Mi provoca facendo l’esempio del cattolicesimo ita­liano o dell’Islam turco: «semmai penso che negli stati islamici possa accadere quello che è successo in Italia o in Tur­chia ». Sussulto e gli ricordo l’enorme prezzo pagato da Italia e Turchia per en­trare nella modernità: il conflitto tra la nazione e la sua religione. L’islamismo contemporaneo non vuole niente di si­mile. Perciò la Sharia è invocata per op­primere l’individuo, per scongiurare uno stato di diritto basato sull’equilibrio dei poteri, la società civile, il pluralismo e l’eguaglianza. Condivide i miei dubbi, ma insiste che non c’è alternativa. Non c’è una «strada facile verso il successo», afferma Feldman; dobbiamo «dare un’opportunità a quello che c’è là fuori». È questa, mi dice, la lezione che ha tratto scrivendo la costituzione irachena e osservandone l’impatto. Vi sono molti motivi per essere scettici, ma nell’Islam «vi è un reale desiderio di democrazia, una reale creatività politica». Ci salutia­mo. Sotto la bandiera stelle e strisce, sul frontone di Langdell Hall domina il mot­to «non sub homine sed sub Deo et le­ge ». «Non sotto l’uomo, ma sotto Dio e sotto la legge». Non vi è scritto «la legge di Dio», ma Dio e legge, distinti.

Gli Usa di Feldman e il Regno Unito di Kureishi e Rushdie hanno costruito diritti, libertà e democrazia su quel bino­mio. Sull’ispirazione di Dio, sulla re­sponsabilità dell’uomo. L’islamismo e le società musulmane sono allo stesso bi­vio. Possono continuare a fare di Dio un alibi e dell’uomo un despota. Oppure, come nei personaggi migliori di Ku­reishi e nelle norme migliori di Feld­man, possono fare di Dio l’alleato dei so­gni dell’uomo.

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