E' sempre bene conoscere i nemici al proprio interno. L'articolo di Marco Ventura, sul CORRIERE della SERA di oggi, a pag.39, dal titolo " Noah Feldman: il dialogo passa attraverso la sharia " ci fa infatti conoscere le opinioni del signor Feldman, opposte a quelle di Hanif Kureishi, un musulmano che la sharia la conosce sulla sua pelle. Per Feldman, invece, ebreo ma americano, bisogna credere nel lato positivo della sharia. Come se ce ne fosse uno. Eccolo:
Noah Feldman, che vive nel mondo dei sogni.
Negli anni in cui si sviluppava l’islamismo, l’adolescente Noah Feldman si formava all’ortodossia ebraica nel suo Massachusetts, presso la Maimonides School. Era molto lontano dal mondo britannico post-coloniale in cui lo scrittore Hanif Kureishi si stava imponendo col suo racconto del nuovo Regno Unito multiculturale. Sul «Corriere» di ieri Kureishi ha rievocato quegli anni ottanta, culminati nella celebre fatwa di Khomeini contro I versi satanici di Rushdie. Ha ricordato che con quel cambiamento «dobbiamo ancora fare i conti». Vent’anni dopo, Kureishi e Feldman restano lontani, ma cercano risposte alla stessa domanda: cosa fare con l’Islam? Noah Feldman mi riceve nel suo studio di fronte alla celebre Langdell Hall, Facoltà di Legge di Harvard. Se il cinquantacinquenne Kureishi si interroga da scrittore anglo pakistano nato ai tempi di Nehru, Feldman risponde da giurista americano nato dopo il sessantotto. «Dobbiamo dare una chance alla Sharia, alla legge dell’Islam — mi dice —, non c’è strada migliore oggi».
Non ancora quarantenne, Noah Feldman è una star del diritto costituzionale Usa. Enfant prodige dell’amministrazione Bush, ha scritto libri influenti sulla questione islamica; c’è l’inchiostro della sua penna sulla costituzione irachena imposta dalla pax americana. Nel suo ultimo saggio su La Caduta e la Rinascita dello Stato Islamico ( The Fall and Rise of the Islamic State, Princeton University Press, pp. 189, $ 22,95), Feldman studia lo sviluppo storico dello stato islamico e auspica una nuova costituzione democratica fondata sulla Sharia per gli stati musulmani. Potrebbe esser questa la strada per uscire dalla paralisi sociale e dalla stagnazione economica. «Dico che è possibile — precisa —, non che è probabile». L’Occidente deve sostenere questa potenzialità, spiega, deve vedere un lato positivo nel progetto islamista. Non può più pensare di imporre lo stato laico ai musulmani. Il socialismo nazionalista arabo è morto con le ideologie del novecento. Va messo alla prova chi grida più Islam per invocare maggiore giustizia e libertà.
La tesi è ricca di argomenti, storici e giuridici. Da esperto di diritto musulmano, Feldman ricostruisce «ciò che funzionava » nei secoli in cui lo stato islamico si è sviluppato. Ritiene fondamentale proprio l’imperio della Sharia, nell’interpretazione fornitane via via dall’influente ceto dei giuristi. Lo stato islamico si è fatto assoggettando sovrani, giudici, interpreti, società tutta, ad un unico sistema di norme e di istituzioni musulmane. Imponendosi ai diversi poteri, la giustizia islamica ha garantito stabilità e ordine fino alla fallita modernizzazione dell’Impero ottomano, alla sua caduta, all’imposizione coloniale d’un sistema giuridico mezzo islamico e mezzo laico. Sotto la cui ombra è cresciuto il dispotismo di regimi non più bilanciati dall’ordine della Sharia. La crisi degli stati islamici, il loro sottosviluppo, le loro tensioni, starebbero secondo Feldman nell’incapacità di sostituire efficacemente quella Sharia che per secoli ha garantito molta coesione e un qualche benessere alla comunità.
Non gli nascondo i miei dubbi su questa lettura, ma sposto la discussione sull’oggi. Sulle domande dei Kureishi e dei Rushdie. Perché il mondo dovrebbe credere al programma islamista della Sharia come fonte di giustizia e di ordine, di «stato di diritto»? L’Iran e l’Arabia Saudita non bastano a provare il contrario? Feldman ritiene che se la Sharia verrà ripristinata attraverso un processo costituzionale e democratico, si innescherà una dinamica positiva. Gli ribatto che proprio qui, sulla forza creatrice di una costituzione democratica, il giurista americano si sbaglia: che l’ottimismo costituzionale Usa è fuori posto in terra d’Islam; perché la cultura è diversa, la società è diversa. Ma Feldman insiste, difende la sua idea che le costituzioni liberali possono creare una «cultura del diritto » che cambi la società. Anche in terra d’Islam. Che perciò ha scritto questo libro, perché crede che qui sta «il valore che posso aggiungere»: aiutare gli stati islamici a darsi costituzioni che combinino Sharia e democrazia, costituzioni da cui parta una riforma liberale della società. Noah Feldman mi racconta di esser cresciuto da ebreo osservante in un ambiente dominato dallo sforzo di «riconciliare religione e modernità». Si dice consapevole dei «limiti di questo modello di riconciliazione». Sorride e mi spiega compiaciuto d’essere il bersaglio polemico «tanto dei religiosi conservatori che degli intellettuali di sinistra ». Gli ricordo il suo libro del 2005 sul pluralismo religioso negli Usa ( Divided by God): non starà per caso pensando che la Sharia può essere per l’Islam contemporaneo il collante che la libertà religiosa è per l’America? «Per niente — mi risponde —, la nostra religione civile è troppo sottile, evanescente». Mi provoca facendo l’esempio del cattolicesimo italiano o dell’Islam turco: «semmai penso che negli stati islamici possa accadere quello che è successo in Italia o in Turchia ». Sussulto e gli ricordo l’enorme prezzo pagato da Italia e Turchia per entrare nella modernità: il conflitto tra la nazione e la sua religione. L’islamismo contemporaneo non vuole niente di simile. Perciò la Sharia è invocata per opprimere l’individuo, per scongiurare uno stato di diritto basato sull’equilibrio dei poteri, la società civile, il pluralismo e l’eguaglianza. Condivide i miei dubbi, ma insiste che non c’è alternativa. Non c’è una «strada facile verso il successo», afferma Feldman; dobbiamo «dare un’opportunità a quello che c’è là fuori». È questa, mi dice, la lezione che ha tratto scrivendo la costituzione irachena e osservandone l’impatto. Vi sono molti motivi per essere scettici, ma nell’Islam «vi è un reale desiderio di democrazia, una reale creatività politica». Ci salutiamo. Sotto la bandiera stelle e strisce, sul frontone di Langdell Hall domina il motto «non sub homine sed sub Deo et lege ». «Non sotto l’uomo, ma sotto Dio e sotto la legge». Non vi è scritto «la legge di Dio», ma Dio e legge, distinti.
Gli Usa di Feldman e il Regno Unito di Kureishi e Rushdie hanno costruito diritti, libertà e democrazia su quel binomio. Sull’ispirazione di Dio, sulla responsabilità dell’uomo. L’islamismo e le società musulmane sono allo stesso bivio. Possono continuare a fare di Dio un alibi e dell’uomo un despota. Oppure, come nei personaggi migliori di Kureishi e nelle norme migliori di Feldman, possono fare di Dio l’alleato dei sogni dell’uomo.
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