Dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/07/2009, a pag.17, due articoli dai paesi del fondamentalismo islamico realizzato. Il primo, dal Sudan, ci ricorda come la condizione femminile sia considerata dalle leggi locali . 40 frustate per avere indossato i pantaloni. Se si ammette la "colpa", le frustate saranno "solo" 10. Ci aspetteremmo una presa di posizione della Federazione della Stampa italiana, pur sapendo quanto la benemerita organizzazione sia impegnata nello stigmatizzare i comportamenti dei giornalisti israeliani.
Interessante anche il pezzo di Viviana Mazza sul recupero del patrimonio artistico nazionale iraniano, tenuto nascosto dopo il colpo di stato di Khomeini del '79. Peccato il titolo, che stravolge l'accaduto, attribuendo a Farah Diba la "proprietà" delle opere d'arte. Leggendo l'articolo si capisce invece quanto l'ex imperatrice si fosse adoperata per "acquisire" l'importante collezione di opere d'arte al patrimonio nazionale. Mentre il titolo gliene attribuisce la proprietà. Non è la prima volta che agli esteri del CORRIERE della SERA una qualche manina, magari infarinata per non farsi riconoscere, titola falsificando il contenuto del pezzo. Che questo avvenga è un fatto, che nessuno controlli e non lo consenta è grave. Su questo ennesimo incidente, chiediamo ai lettori di IC di scrivere al CORRIERE della SERA per protestare.
Ecco i due articoli:
Cecilia Zecchinelli: " Aveva i pantaloni, giornalista sudanese rischia 40 frustate"
I famosi ragazzi e ragazze sudanesi fotografati semi-nudi da Leni Riefenstahl sono lontani anni luce dalla Khartoum del 2009. Lontani nel tempo: la cineasta tedesca, celebre quanto controversa per le sue immagini della gioventù hitleriana, li scoprì e immortalò negli anni Settanta. E nello spazio: le tribù Nuba a cui appartenevano quei giovani modelli abitano il remoto Ovest del Sudan. Come le regioni del Sud, «terre di animisti e di cristiani».
Ma la capitale è oggi terra d’Islam sempre più severo. Di sharia applicata con un fervore quasi vicino a quello dei Paesi del Golfo. Ed è così che un gruppo di donne, tra cui una celebre giornalista, sono state arrestate, incriminate, alcune di loro già punite con frustate, altre in attesa di subire la stessa sorte, per aver causato «turbamento pubblico» con il loro «comportamento indecente ». Ovvero per aver indossato dei pantaloni.
Lobna Ahmed Al Hoseini, 40 anni, giornalista e commentatrice del giornale di sinistra Al Sahafa (La stampa) dove tiene una coraggiosa rubrica dal titolo «Gli uomini parlano», nonché collaboratrice del settore media delle Nazioni Unite in Sudan, si trovava in un noto ristorante della capitale quando una ventina di poliziotti hanno fatto irruzione e le hanno ordinato di seguirli in commissariato. Con lei tutte le altre donne e ragazze che indossavano pantaloni, per altro coperti da bluse, e con veli sulla testa che «non coprivano abbastanza». Un abbigliamento certo diverso dai tradizionali abiti lunghi delle sudanesi del Nord, che ricordano i sari indiani ma lasciano meno pelle scoperta. Un modo di vestirsi, pantaloni e bluse, normalmente accettato in moltissimi Paesi musulmani e fino a poco tempo fa anche nella «moderna » capitale sudanese.
«Ci hanno portato via, eravamo in 13, tra cui alcune donne del Sud», ha raccontato Lobna, confermando che molte di loro erano cristiane e animiste e, in teoria, non dovrebbero essere soggette alla legge islamica. «Due giorni dopo, dieci di loro sono state portate alla stazione centrale della polizia e sono state punite con dieci frustate ciascuna ». La condanna «clemente », ovvero solo dieci colpi, è stata il risultato di una confessione di colpevolezza. Lobna e altre due donne, invece, non hanno confessato. Anzi, la giornalista ha inviato migliaia di inviti via mail, sms o per posta ai media e ai suoi sostenitori per assistere al processo di cui sarà presto oggetto. Se verrà condannata (in questo caso le frustate saranno 40), intende invitare quanti più spettatori anche alla sua flagellazione.
«Queste accuse sono il chiaro tentativo di screditare e mettere a tacere una giornalista coraggiosa, solo un regime tirannico può arrivare a tanto», ha denunciato l’Arab Network for Human Rights Information, ricordando che Lobna Al Hussein, nella sua rubrica, non risparmia mai critiche al governo di Khartoum e ai fondamentalisti islamici. «Le autorità dovrebbero avere il coraggio di rispondere alle accuse anziché vendicarsi così», ha aggiunto Abeer Soliman, capo del Network. E ricorda come dal 1991, quando fu introdotta la legge sul «comportamento indecente», molte altre donne e ragazze sudanesi, soprattutto studentesse e lavoratrici, siano state umiliate e punite. «Un modo per isolarle e tenerle in casa, lontane dagli occhi della gente », dice Abeer Soliman. Lobna Al Hussein, invece, vuole che tutti assistano alla sua (probabile) condanna.
Viviana Mazza: " Gli ayatollah mostrano al pubblico i Picasso appartenuti a Farah Diba "
Farah Diba
Confinati per 30 anni dietro una porta chiusa a chiave, nei sotterranei del Museo d’Arte Contemporanea di Teheran, erano un simbolo perfetto dell’isolamento dell’Iran dal resto del mondo. Capolavori di Picasso, Magritte, Van Gogh, Mirò, Warhol, Pollock e altri maestri del XIX e XX secolo. E’ la più grandiosa collezione di arte contemporanea occidentale al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti, per un valore stimato di 3 miliardi di euro. Li acquistò negli Anni 70 l’ultima moglie dello Scià, Farah Diba. Il museo aprì nel ’77. Ma nel ’79 la Rivoluzione Islamica depose lo Scià e li relegò nell’oscurità, visibili solo su richiesta e a pochi.
Ma per la prima volta, gran parte delle oltre 3000 opere sono in mostra in questi giorni, scrive il quotidiano spagnolo La Vanguardia. Proprio mentre l’Iran accusa i Paesi stranieri di aver istigato le proteste contro il voto del 12 giugno e si prepara la cerimonia di riconferma del presidente Mahmoud Ahmadinejad, che nel primo mandato ha censurato e bandito libri e musica occidentali. Il museo è adiacente al parco Laleh, dove si sono tenute molte delle proteste. «Mi pare davvero paradossale», ha notato Maryan, una ragazza di 25 anni, intervistata alla mostra. «Ma queste sono contraddizioni che abbiamo in Iran», ha aggiunto sottovoce, dedicandosi poi a «Sogni» di Dalì, sedotta dal «mistero» del quadro.
Inaugurata a fine maggio, la mostra continuerà fino ad agosto: ci sono i ritratti di Mao Zedong di Andy Warhol e diversi Picasso, incluso la Finestra aperta su Rue de Penthievre. La collezione comprende uno dei dipinti di maggior valore di Jackson Pollock, Mural on a Red Indian Ground e opere che vanno «dall’ascesa dell’impressionismo al trionfo del minimalismo», come spiegò orgoglioso Ali Reza Sami Azar, direttore del museo dal 1998 al 2005. Paul Gauguin, Henri de Toulouse-Lautrec, Claude Monet, Edward Munch, Marc Chagall, Mark Rothko, Josper Johns, Roy Lichtenstein, David Hockney, Sol LeWitt, Donald Judd. Relegati negli scantinati, sono stati però protetti. «Nei primi anni della Rivoluzione islamica, il custode del museo mi chiese che cos’era quella spazzatura, disse che suo figlio sapeva disegnare meglio — ha raccontato al Guardian l’artista Aydin Aghdashloo, che vi lavorò come consulente —. Gli raccomandai di averne cura perché potevano fruttare molti soldi». Meno chiaro è come mai siano in mostra adesso. «Avevamo molte richieste: università e studenti che chiedevano di vederle», ha detto l’addetto alle Relazioni pubbliche Hasan Naferisti. L’ex direttore del Museo (e pittore) Habibollah Sadeghi, nominato da Ahmadinejad nel 2005 (sostituì Sami Azar), era stato accusato di non volerli esibire. Pur essendo critico del «dominio culturale» occidentale, lui diceva che mancava lo spazio. Molti non gli credevano, incluso Samazar, che era riuscito durante la presidenza del riformista Khatami a esporre un numero ridotto di quei quadri: «Non li espongono perché la politica del ministero della Cultura e della Guida islamica è contraria ad arte e cultura occidentali. Mira all’isolamento ». Sadeghi è stato di recente sostituito da Mahmud Shaluii, che si è detto contento della mostra: «Aiuterà studiosi e studenti di arti visive a condurre ricerche».
«I mullah vogliono che la collezione resti nascosta — aveva detto qualche anno fa lo scrittore Amir Hassan Cheheltan — come monito contro la modernità, negata oggi come in passato. Ma molti ex rivoluzionari stanno cambiando strada e riconsiderando la modernità. E’ un processo al quale nessuno può sfuggire». Mir Hussein Mousavi, rivoluzionario nel ’79, premier negli anni ’80, cacciato dalla Guida Suprema Khamenei, è oggi un noto pittore e architetto. A giugno è diventato il leader dell’opposizione al regime. L’anno scorso, ad una mostra, l’ex direttore del museo di Teheran Sadeghi disse di vedere nell’opera di Mousavi i principi dell’arte iraniana e islamica. Non citò la modernità, che lo stesso Mousavi riconosce nella propria arte.
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