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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.07.2009 40 frustate alla donne in pantalone e un titolo che falsifica quanto fece in Persia Farah Diba
Cronache dal fondamentalismo islamico realizzato

Testata: Corriere della Sera
Data: 14 luglio 2009
Pagina: 17
Autore: Cecilia Zecchinelli-Viviana Mazza
Titolo: «Aveva i pantaloni, giornalista sudanese rischia 40 frustate-Gli ayatollah mostrano al pubblico i Picasso appartenuti a Farah Diba»

Dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/07/2009, a pag.17, due articoli dai paesi del fondamentalismo islamico realizzato. Il primo, dal Sudan, ci ricorda come la condizione femminile sia considerata dalle leggi locali . 40 frustate per avere indossato i pantaloni. Se si ammette la "colpa", le frustate saranno "solo" 10. Ci aspetteremmo una presa di posizione della Federazione della Stampa italiana, pur sapendo quanto la benemerita organizzazione sia impegnata nello stigmatizzare i comportamenti dei giornalisti israeliani.

Interessante anche il pezzo di Viviana Mazza sul recupero del patrimonio artistico nazionale iraniano, tenuto nascosto dopo il colpo di stato di Khomeini del '79. Peccato il titolo, che stravolge l'accaduto, attribuendo a Farah Diba la "proprietà" delle opere d'arte. Leggendo l'articolo si capisce invece quanto l'ex imperatrice si fosse adoperata per "acquisire" l'importante collezione di opere d'arte al patrimonio nazionale. Mentre il titolo gliene attribuisce la proprietà. Non è la prima volta che agli esteri del CORRIERE della SERA  una qualche manina, magari infarinata per non farsi riconoscere, titola falsificando il contenuto del pezzo. Che questo avvenga è un fatto, che nessuno controlli e non lo consenta è grave. Su questo ennesimo incidente, chiediamo ai lettori di IC di scrivere al CORRIERE della SERA per protestare.

Ecco i due articoli:

Cecilia Zecchinelli: " Aveva i pantaloni, giornalista sudanese rischia 40 frustate"

I famosi ragazzi e ragazze sudanesi fotografati semi-nu­di da Leni Riefenstahl sono lontani anni luce dalla Khar­toum del 2009. Lontani nel tempo: la cineasta tedesca, ce­lebre quanto controversa per le sue immagini della gioven­tù hitleriana, li scoprì e im­mortalò negli anni Settanta. E nello spazio: le tribù Nuba a cui appartenevano quei giova­ni modelli abitano il remoto Ovest del Sudan. Come le re­gioni del Sud, «terre di animi­sti e di cristiani».
Ma la capitale è oggi terra d’Islam sempre più severo. Di sharia applicata con un fervo­re quasi vicino a quello dei Pa­esi del Golfo. Ed è così che un gruppo di donne, tra cui una celebre giornalista, sono state arrestate, incriminate, alcune di loro già punite con frusta­te, altre in attesa di subire la stessa sorte, per aver causato «turbamento pubblico» con il loro «comportamento inde­cente ». Ovvero per aver indos­sato dei pantaloni.
Lobna Ahmed Al Hoseini, 40 anni, giornalista e com­mentatrice del giornale di si­nistra Al Sahafa (La stampa) dove tiene una coraggiosa ru­brica dal titolo «Gli uomini parlano», nonché collaboratri­ce del settore media delle Na­zioni Unite in Sudan, si trova­va in un noto ristorante della capitale quando una ventina di poliziotti hanno fatto irru­zione e le hanno ordinato di seguirli in commissariato. Con lei tutte le altre donne e ragazze che indossavano pan­taloni, per altro coperti da blu­se, e con veli sulla testa che «non coprivano abbastanza». Un abbigliamento certo diver­so dai tradizionali abiti lun­ghi delle sudanesi del Nord, che ricordano i sari indiani ma lasciano meno pelle sco­perta. Un modo di vestirsi, pantaloni e bluse, normal­mente accettato in moltissimi Paesi musulmani e fino a po­co tempo fa anche nella «mo­derna » capitale sudanese.
«Ci hanno portato via, era­vamo in 13, tra cui alcune donne del Sud», ha racconta­to Lobna, confermando che molte di loro erano cristiane e animiste e, in teoria, non do­vrebbero essere soggette alla legge islamica. «Due giorni dopo, dieci di loro sono state portate alla stazione centrale della polizia e sono state puni­te con dieci frustate ciascu­na ». La condanna «clemen­te », ovvero solo dieci colpi, è stata il risultato di una confes­sione di colpevolezza. Lobna e altre due donne, invece, non hanno confessato. Anzi, la giornalista ha inviato mi­gliaia di inviti via mail, sms o per posta ai media e ai suoi so­stenitori per assistere al pro­cesso di cui sarà presto ogget­to. Se verrà condannata (in questo caso le frustate saran­no 40), intende invitare quan­ti più spettatori anche alla sua flagellazione.
«Queste accuse sono il chia­ro tentativo di screditare e mettere a tacere una giornali­sta coraggiosa, solo un regi­me
tirannico può arrivare a tanto», ha denunciato l’Arab Network for Human Rights Information, ricordando che Lobna Al Hussein, nella sua rubrica, non risparmia mai critiche al governo di Khar­toum e ai fondamentalisti isla­mici. «Le autorità dovrebbero avere il coraggio di risponde­re alle accuse anziché vendi­carsi così», ha aggiunto Abeer Soliman, capo del Network. E ricorda come dal 1991, quan­do fu introdotta la legge sul «comportamento indecente», molte altre donne e ragazze sudanesi, soprattutto studen­tesse e lavoratrici, siano state umiliate e punite. «Un modo per isolarle e tenerle in casa, lontane dagli occhi della gen­te », dice Abeer Soliman. Lob­na Al Hussein, invece, vuole che tutti assistano alla sua (probabile) condanna.

Viviana Mazza: " Gli ayatollah mostrano al pubblico i Picasso appartenuti a Farah Diba "

 Farah Diba

Confinati per 30 anni dietro una porta chiusa a chiave, nei sotterranei del Mu­seo d’Arte Contemporanea di Teheran, erano un simbolo perfetto dell’isolamen­to dell’Iran dal resto del mondo. Capola­vori di Picasso, Magritte, Van Gogh, Mi­rò, Warhol, Pollock e altri maestri del XIX e XX secolo. E’ la più grandiosa colle­zione di arte contemporanea occidenta­le al di fuori dell’Europa e degli Stati Uni­ti, per un valore stimato di 3 miliardi di euro. Li acquistò negli Anni 70 l’ultima moglie dello Scià, Farah Diba. Il museo aprì nel ’77. Ma nel ’79 la Rivoluzione Islamica depose lo Scià e li relegò nel­­l’oscurità, visibili solo su richiesta e a po­chi.

Ma per la prima volta, gran parte del­le oltre 3000 opere sono in mostra in questi giorni, scrive il quotidiano spa­gnolo La Vanguardia. Proprio men­tre l’Iran accusa i Paesi stranieri di aver istigato le proteste con­tro il voto del 12 giugno e si prepara la cerimonia di ri­conferma del presidente Mahmoud Ahmadi­nejad, che nel primo mandato ha censurato e bandito libri e musi­ca occidentali. Il mu­seo è adiacente al par­co Laleh, dove si sono tenute molte delle pro­teste. «Mi pare davvero paradossale», ha notato Maryan, una ragazza di 25 anni, intervistata alla mostra. «Ma queste sono contraddizioni che abbiamo in Iran», ha aggiunto sottovoce, de­dicandosi poi a «Sogni» di Dalì, se­dotta dal «mistero» del quadro.
Inaugurata a fine maggio, la mostra
continuerà fino ad agosto: ci sono i ri­tratti di Mao Zedong di Andy Warhol e diversi Picasso, incluso la Finestra aper­ta su Rue de Penthievre. La collezione comprende uno dei dipinti di maggior valore di Jackson Pollock, Mural on a Red Indian Ground e opere che vanno «dall’ascesa dell’impressionismo al trionfo del minimalismo», come spiegò orgoglioso Ali Reza Sami Azar, direttore del museo dal 1998 al 2005. Paul Gau­guin, Henri de Toulouse-Lautrec, Clau­de Monet, Edward Munch, Marc Cha­gall, Mark Rothko, Josper Johns, Roy Li­chtenstein, David Hockney, Sol LeWitt, Donald Judd. Relegati negli scantinati, sono stati però protetti. «Nei primi anni della Rivoluzione islamica, il custode del museo mi chiese che cos’era quella spazzatura, disse che suo figlio sapeva disegnare meglio — ha raccontato al Guardian l’artista Aydin Aghdashloo, che vi lavorò come consulente —. Gli raccomandai di averne cura perché pote­vano fruttare molti soldi». Meno chiaro è come mai siano in mostra adesso. «Avevamo molte richieste: università e studenti che chiedevano di vederle», ha detto l’addetto alle Relazioni pubbliche Hasan Naferisti. L’ex direttore del Mu­seo (e pittore) Habibollah Sadeghi, no­minato da Ahmadinejad nel 2005 (sosti­tuì Sami Azar), era stato accusato di non volerli esibire. Pur essendo critico del «dominio culturale» occidentale, lui di­ceva che mancava lo spazio. Molti non gli credevano, incluso Samazar, che era riuscito durante la presidenza del rifor­mista Khatami a esporre un numero ri­dotto di quei quadri: «Non li espongono perché la politica del ministero della Cul­tura e della Guida islamica è contraria ad arte e cultura occidentali. Mira all’iso­lamento ». Sadeghi è stato di recente so­stituito da Mahmud Shaluii, che si è det­to contento della mostra: «Aiuterà stu­diosi e studenti di arti visive a condurre ricerche».
«I mullah vogliono che la collezione resti nascosta — aveva detto qualche an­no fa lo scrittore Amir Hassan Cheheltan — come monito contro la modernità, ne­gata oggi come in passato. Ma molti ex rivoluzionari stanno cambiando strada e riconsiderando la modernità. E’ un pro­cesso al quale nessuno può sfuggire». Mir Hussein Mousavi, rivoluzionario nel ’79, premier negli anni ’80, cacciato dalla Guida Suprema Khamenei, è oggi un noto pittore e architetto. A giugno è diventato il leader dell’opposizione al re­gime. L’anno scorso, ad una mostra, l’ex direttore del museo di Teheran Sadeghi disse di vedere nell’opera di Mousavi i principi dell’arte iraniana e islamica. Non citò la modernità, che lo stesso Mousavi riconosce nella propria arte.

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