Paradosso sulla virtù Jean Bodin
a cura di Andrea Suggi
Nino Aragno Editore Euro 15,00
La plebe incolpava l’esercito, “l’esercito il popolo, il popolo il clero, il clero la nobiltà, la nobiltà la magistratura, questa i principi, i quali si incolpavano l’un l’altro”. Una tragedia nazionale, insomma, che aveva per teatro la Francia intera e per spettatori i sovrani di tutta Europa, impazienti di intervenire per dividersi il bottino. Nel 1951 era difficile per Jean Bodin mantenere la calma. Un tempo uomo potente, fidato consigliere del re, era ormai anch’egli costretto ad assistere attonito allo sfacelo del paese. Da quando Enrico III era stato ucciso dal pugnale di Jacques Clément, la guerra di religione tra ugonotti e cattolici aveva prostrato anche le città più prospere. Ma se non poteva agire, gli restava pur sempre la sua arma più acuminata, quella penna così elegante e provocatoria, che l’aveva reso uno degli umanisti più influenti della Francia del XVI secolo. Scritto in un tempo estremo, “flagrante Gallia civili bello”, mentre la Francia era in fiamme a causa della guerra civile, il “Paradosso sulla virtù” di Bodin è anch’esso opera estrema. Non nel tono, pacato e dialogico, ma nelle ambizioni, e per la tesi che accampa. Il paradosso sta infatti nel volerla far finita con quasi due millenni di “pax philosophica”, buttando all’aria il “giusto mezzo” di Aristotele. Se cercate la virtù, sostiene Bodin, non la troverete in un immaginario punto intermedio tra male e bene, non nei sentimenti tiepidi né nell’indecisione. Chi è mediocremente virtuoso, e si accontenta più che altro di non compiere il male, otterrà solo una lode mediocre. Le virtù sono invece assolute. Il male in quanto tale non esiste, ma è solo privazione di bene, assicura l’umanista francese, e invoca a testimonio il vecchio saggio Mosè Maimonide. Del resto tutta l’opera è pervasa da simbolismo biblico, e più in generale ebraico, tanto che, non a caso, l’eroe che Bodin propone ai suoi lettori è l’ebreo Bezalel, l’architetto del Tabernacolo, a cui Dio diede spirito di conoscenza. Alcuni sostenevano che Bodin fosse ebreo, o per lo meno che sua madre discendesse da una famiglia marrana. Se non ebreo almeno giudaizzante, visto che nelle sue opere parla raramente di Cristo, mentre è evidentemente affascinato dalla sapienza dell’antico Israele. Al di là dei pettegolezzi, è innegabile che il rigorismo intellettuale di Bodin indichi una nuova direzione nel rapporto tra cultura europea e religione. Per lui, la somma virtù non dipende dalla confessione religiosa, ma piuttosto da un processo individuale di perfezionamento, che ha come ricompensa la sapienza. Un po’ stoico, un po’ giudaizzante, un po’ protestante, un po’ cattolico, un po’ incredulo: è difficile definire Bodin, così come è quasi impossibile costringere l’inquietudine europea del Cinquecento in un unico sillogismo. Il paradosso fu pubblicato nel 1596, quando la Francia si era almeno in parte riappacificata. Non era stato, fino a oggi, più ristampato nell’originale latino né tradotto in italiano. L’edizione curata da Andrea Suggi ha il pregio dunque di mettere in circolazione il documento prezioso di una archetipica crisi europea. Dall’estremismo intellettuale di Bodin discende un programma di tolleranza religiosa, ovvero l’invito a mediare nella prassi, dopo essersi liberati dalla mediocrità dell’intelletto.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore