Riportiamo da LIBERO di oggi, 12/07/2009, a pag. 31, l'articolo di Gennaro Sangiuliano dal titolo "Le soap opera degli ayatollah ".
Una ragazza è seduta al tavolino di un bar con il suo fidanzato, in un televisore posto in alto nella sala scorrono le immagini del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Il ragazzo volge lo sguardo alla tv e afferma: «Dio lo benedica». La fidanzata annuisce. Poi i due giovani continuano a parlare. È una delle tante scene diffuse all’interno delle musalsalat, una sorta di soap opera dove le storie di protagonisti inventate si muovono in un contesto storico, politico e sociale autentico, raccontato secondo la prospettiva araba.
Negli ultimi anni queste produzioni televisive sono esplose per quantità, peso mediatico e soprattutto per capacità d’influenza negli stili di vita e nella formazione dell’opinione delle masse arabe. «Come mai sei musulmano e lavori per i selvaggi miscredenti?», domanda un giovane a un medico siriano. «Metti al pari un musulmano con l’infedele?», aggiunge. «La dignità umana è una», risponde il medico.
Uomini, donne, amori, storie familiari, scene di vita nelle grandi metropoli arabe, che hanno sullo sfondo i fatti del nostro tempo: il terrorismo, l’avversione per Israele, l’emigrazione in Occidente, la jihad, la religiosità islamica. La rappresentazione che lega vicende e personaggi inventati a dimensioni reali e a tragedie del nostro tempo, riflette la varietà delle posizioni dell’universo arabo. In alcune musalsalat i protagonisti esprimono una blanda condanna per i kamikaze, soprattutto quando a pagare sono vittime innocenti, in altre lo sfondo è apologetico di ogni forma di “guerra santa”. L’Occidente, però, quasi in ogni produzione, è rappresentato come l’antagonista miscredente alleato del demonio ebraico. “Media arabi e cultura nel Mediterraneo” è il titolo del saggio scritto da Donatella Della Ratta, Roberta Nunnari e Naman Tarcha, autori di una voluminosa ricerca sull’universo, spesso sconosciuto, dei media arabi (Cangemi editore, pp. 240, euro 20,00). L’Occidente, come conferma un sondaggio Gallupp, conosce poco, anzi quasi nulla, dello sterminato universo mediatico arabo, che non è relegabile alle sole Al Jazeera e Al Arabiya, ma è una galassia articolatissima, fatta di oltre 500 canali, nazionali e transnazionali, supportati da fornitori di contenuti: reality show, soap opera, film, documentari, service news. Una industria, rilevante per fatturato e peso culturale, se si considera che le masse arabe sono forti consumatrici di televisione, molto più degli occidentali.
La star del pop arabo Nancy Ajram chiede stabilmente un cachet di due milioni di dollari per partecipare a film e produzioni di vario tipo, una cifra pari a quella che possono pretendere solo cinque o sei grandi attrici di Hollywood. Dopo l’11 settembre i rapporti fra l’Occidente e il fondamentalismo islamico, oltre a misurarsi sui campi di battaglia dell’Iraq e dell’Afghanistan, sono diventati sempre più rapporti di confronto scontro mediatici, dove due culture si rappresentano con gli strumenti del cinema e della televisione attorno ai valori delle rispettive civiltà. Scrive al riguardo Donatella Della Ratta: «La civiltà araba era anch’essa diventata civiltà visuale e visiva che si autorappresenta attraverso immagini». Già i titoli delle fiction arabe introducono ai temi dominanti “Al hurr al ayn” (“Le vergini del paradiso”), “Saqf al alam” (“Il tetto del mondo”) sulla vicenda della pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto ad opera del giornale danese ma anche “Al Mariquona” (“I falsi credenti”) dove si critica il fondamentalismo. C’è tutta una saga che si intreccia con le vicende dei prigioneri di Guantanamo, storie di madri dilaniate dall’incertezza sulla detenzione dei loro figli, di mogli e sorelle, di torture americane illustrate con dovizia di particolari. In alcuni casi vengono coinvolti attori occidentali, come Antonio Banderas che partecipa al “Tredicesimo guerriero”, storia di un viaggiatore arabo che si unisce a una tribù di guerrieri del Nord Europa. Una caratteristica decisiva del giornalismo arabo è nel poter contare su una sostanziale unità linguistica, che l’Occidente, per quanto pervaso dall’inglese, non ha ancora conseguito oltre gli strati molto colti della popolazione. L’arabo è la lingua ufficiale di 24 Paesi, parlata da più di 200 milioni di persone. Un notiziario o una soap opera algerina vengono seguiti e compresi dall’operaio egiziano e viceversa. Non lo stesso accade fra francesi, tedeschi, italiani. «La media di telespettatori che si sintonizzano sulle frequenze di Al Jazeera viene stimata intorno a 35 milioni di persone (di cui 200 milioni negli Usa)», scrive Roberta Nunnari, «mentre il sito internet registra 17 milioni di “hits” al giorno». L’emittente del Qatar, insieme ad Al Arabiya, l’altro grande network, contribuisce a diffondere una sorta di panarabismo culturale. L’universo mediatico arabo si espande con i new media, capaci di interconnettere tv satellitari, pc, telefonini. Questa galassia si sta muovendo con il fine strategico di diffondere progetti politico-culturali e politico-ideologici, dove la umma si disperde e unifica l’islam, il suo peso nel determinare convinzioni diffuse nel mondo arabo è enorme, con esso l’Occidente dovrà fare i conti.
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