Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 11/07/2009, a pag. VIII, l'articolo di Andrea Affaticati dal titolo " Il giorno dei cristalli ".
Notte d'estate in spiaggia, di Edvard Much
Una delle opere confiscate ad Alma Mahler
Il 23 febbraio del 2007 un’agenzia comunicava con poche, laconiche parole, che il ministero federale delle Finanze tedesco dava il suo assenso alla riconsegna del quadro “Fiat Justitia” di Carl Spitzweg agli eredi del suo legittimo proprietario di un tempo, cioè il collezionista ebreo Leo Bendel il quale, prima di fuggire insieme con la moglie Else nel 1937 dalla Germania nazista, era stato costretto a mettere all’asta la sua collezione. Per decenni “L’occhio della legge”, questo il sottotitolo del quadro, aveva vigilato sui presidenti della Repubblica federale tedesca (anche sull’attuale Horst Köhler), senza che nessuno ne conoscesse la provenienza. Il tema della restituzione delle opere saccheggiate dai nazisti resta attualissimo anche a oltre sessant’anni dalla fine della guerra. E la Repubblica ceca ha voluto chiudere la propria presidenza di turno europea dedicando un simposio di cinque giorni proprio a questo tema. Quarantasette i paesi che vi hanno preso parte, mille almeno ancora le opere al centro di azioni legali. Alla fine del convegno di Praga è stata stilata anche la “Dichiarazione di Terezin” (Theresienstadt) sottoscritta da tutti i presenti. L’intento, per quanto non vincolante, è quello di fare il punto sulla situazione e accelerare le procedure di restituzione. Che l’argomento non abbia sempre incontrato orecchie sensibili lo dimostrano anche le reazioni dal sapore nemmeno tanto velatamente antisemita a cui alcuni tabloid si sono lasciati andare, parlando della “tipica sete di denaro degli ebrei”. Ora, un libro uscito a inizio anno in Germania, ricco anche di riproduzioni delle opere perse e di foto che narrano la vita dei loro legittimi proprietari, prova a narrarne invece i risvolti umani. E non solo. Attraverso il volume curato da Melissa Müller e Monika Tatzkow: “Verlorene Bilder – Verlorene Leben. Jüdische Sammler und was aus ihren Kunstwerken wurde” (“Quadri persi – Vite perdute. Collezionisti ebrei e cosa ne è stato dei loro capolavori”. Editore Elisabeth Sandmann, München) si può intraprendere idealmente un grand tour attraverso l’affascinante mondo del mecenatismo e collezionismo ebraico in Europa agli inizi del Novecento. “Potevo immergermi per giorni interi in quel mare liscio come l’olio, immobile, eppure così agitato”, ricorda Alma Mahler-Werfel nell’autobiografia pubblicata nel 1960. Parole che tradiscono il rimpianto, ma pure la rabbia verso il suo paese d’origine. Lo stato austriaco, appigliandosi a tutti i cavilli legali possibili le aveva già più volte negato la restituzione del “Notte d’estate in spiaggia” di Edvard Munch, il quadro che descrive nell’autobiografia. Era talmente infuriata che, dopo una prima breve visita nel 1947, tornò in America, dove si era rifugiata durante la guerra, e non rimise mai più piede in Austria. Quel quadro ad Alma l’aveva regalato nel 1916 il collezionista Carl Reininghaus. A dire il vero, il dono avrebbe voluto farglielo il suo secondo marito, Walter Gropius, per festeggiare la nascita della loro figlia Manon. Sapeva che lei adorava quel dipinto. Per questo Gropius si era rivolto a Reininghaus, il quale era però a sua volta segretamente innamorato “della più bella donna di Vienna”, come la definì un altro dei suoi corteggiatori/amanti, Gustav Klimt. Reininghaus non si lasciò dunque scappare l’occasione di ingraziarsi Alma e le fece recapitare l’opera d’arte accompagnata da un biglietto nel quale, scrive Alma Mahler, si leggeva che “quel quadro era mio già da anni, visto che l’amavo tanto. Solo che era sempre mancata l’occasione per farmelo avere. Scriveva [Reininghaus] che me l’ero guadagnata con il sorriso”. Sarà stata anche quella osservazione sul suo sorriso a farglielo amare oltre ogni cosa, sta di fatto che Alma era disposta a rinunciare a tutti gli altri quadri della sua collezione lasciati a Vienna nella precipitosa fuga il giorno dell’Anschluss ma non al “Sole di Mezzanotte”. Ma proprio quello l’aveva dato in prestito per due anni, insieme ad altre quattro opere, il 2 agosto del 1937, alla Österreichische Galerie Belvedere. Non è che gli altri quattro quadri fossero di poco valore: c’erano tre opere di suo padre Emil Jakob Schindler, e soprattutto il ritratto fattole da Oskar Kokoschka. Quelli l’Austria se li poteva tenere. Ancora a fine marzo 1961, l’ormai 82enne Alma si dichiarava disposta a cedere anche alcune partiture del suo primo marito, Gustav Mahler, pur di riavere quel dipinto. Ma quando l’11 dicembre del 1964 si spense nella lontana America, quel sole che sta per tuffarsi nel “mare così tranquillo eppur così agitato” faceva ancora bella mostra di sé dalle pareti del Belvedere. Così come pendevano da quelle pareti i due ritratti che Klimt fece dipingere per Adele Bloch- Bauer. Ci sarebbero voluti altri trent’anni e più, perché gli eredi Bloch- Bauer e la nipote di Alma Mahler- Werfel tornassero in possesso di quei capolavori sottratti indebitamente oppure acquistati a prezzi ridicoli dai nazisti. Di collezioni smembrate, di opere d’arte appartenenti a ebrei espropriate, estorte per pochi soldi, messe all’asta in modo coatto e ancora trafugate durante il nazismo si è parlato spesso. Le azioni legali intentate recentemente soprattutto dall’America contro l’Austria, come nel caso dei dipinti di Klimt appartenuti ai coniugi Adele e Ferdinand Bloch- Bauer, hanno avuto un enorme clamore mediatico. E anche qualche rigurgito di cliché antisemiti sui tabloid, che parlavano “della tipica avidità degli ebrei per i soldi”. Ma fino a oggi mancava una storia dei proprietari di quelle collezioni. Chi erano, cosa li aveva spinti a coltivare questa passione. Il libro prova a colmare questo vuoto, raccontando quindici storie emblematiche. L’introduzione alle loro vite, è un viaggio attraverso un’Europa che, a cavallo del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, è stata al centro di una fioritura sociale e culturale, dovuta per massima parte agli ebrei. E non a caso, i nazisti, ancora prima di procedere alla loro distruzione fisica, ne annientarono il ruolo culturale ed economico, come teorizzato già da Hitler nel “Mein Kampf”. Ogni storia prosegue nel Dopoguerra. Storie che raccontano delle peripezie, delle assurdità che dovettero affrontare i legittimi proprietari o i loro eredi per riavere le opere requisite, sottratte. Storie che non restituiscono un quadro proprio edificante della coscienza collettiva di allora. Ne è un esempio la vicenda dello scrittore, critico letterario e grande appassionato d’arte Paul Westheim. “Due donne sulla strada” di Ernst Ludwig Kirchner (1914), esposto oggi nella Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf, è l’unico quadro salvato appositamente per lui da un gallerista inglese. Quella di Westheim era stata una passione coltivata pazientemente: gli piacevano in particolare i giovani artisti. Andava alle loro mostre, soprattutto a quelle che, negli anni Venti, la rivista “Kunstblatt” organizzava regolarmente prima di Natale a Berlino e in altre città tedesche. Si appassionava alle opere così come agli artisti che aiutava in ogni modo. Westheim non era solo collezionista, ma mecenate in senso proprio. E lui stesso dopo la guerra ricordava: “A dire il vero, più che quadri e dipinti collezionavo persone creative, d’ingegno, per loro mi spendevo”. Nella rosa dei suoi protetti figuravano, oltre a Kirchner, Erich Heckel, Paul Klee, Otto Mueller, Otto Dix. Westheim ebbe almeno la fortuna di riuscire a mettersi in salvo, anche se dovette lasciare i propri averi. Lì per lì non si diede però pena, convinto com’era che fossero in mani sicure. Li aveva affidati all’amica e curatrice Charlotte Weidler. Ma nel Dopoguerra dovette ricredersi. Di Weidler a un certo punto perse le tracce, o meglio, lei scomparì. Westheim nemmeno sapeva che la donna, anche se ariana, aveva lasciato la Germania già durante la guerra per timore di essere perseguitata a causa della sua cerchia di amici ebrei. Westheim era convinto di aver perso tutto. Nel 1961 scriveva: “La collezione di cui mi ricordo è mia, o meglio è stata mia, visto che non esiste più. Probabilmente è andata distrutta in un bombardamento aereo di Berlino”. Ma non era vero. Molte di quelle opere ricomparirono quasi miracolosamente a New York, dopo la sua morte nel 1963. Ad averle portate in salvo, appropriandosene al tempo stesso, era stata proprio Charlotte Weidler. Ma per quanto avessero stretto le maglie, per quanto potesse essere pericoloso portare fuori dalla Germania le opere o aiutare gli ebrei a metterle in salvo, i nazisti sapevano pure che non bastava. Bisognava procedere a vere e proprie requisizioni per assicurarsi i capolavori. Per questo, il 30 giugno del 1937, Joseph Goebbels spedì i suoi emissari in giro per la Germania “affinché scegliessero e assicurassero alle autorità, ai fini di una mostra, tutte le opere depravate – pitture e sculture indifferentemente – presenti dal 1910 sul territorio e in possesso del Reich, dei comuni e dei Länder” (come si legge nell’ordine impartito dal ministro del Reich per la Propaganda e l’Informazione). E gli emissari tornarono da questa battuta di caccia con un bottino di tutto rispetto. Nel giro di soli dieci giorni avevano bussato alla porta di più di trenta collezionisti e requisito settecento opere considerate “entartet”. Non ci fu un solo curatore di museo che provò a opporsi alla razzia. E poco importa che tra i proprietari dei quadri sottratti ci fossero anche membri, fino al giorno prima stimatissimi, delle fondazioni. In quanto ebrei erano, esattamente come i loro quadri, “Freiwild” (preda di chiunque). Con quel bottino si inaugurò poi, il 19 luglio del 1937, nell’Istituto archeologico di Monaco la mostra “Entartete Kunst”. Hitler stesso il giorno prima aveva promesso solennemente che, di lì in poi, tutti i musei del Reich sarebbero stati liberati, ripuliti da quest’arte depravata. Ma se il nazismo riuscì nell’intento di deprivare i legittimi proprietari dei loro capolavori, di smembrare le collezioni, nel Dopoguerra, come racconta il libro, i sopravvissuti non ebbero un trattamento molto migliore. Gli Alleati consegnarono ai musei francesi, olandesi, tedeschi, austriaci la refurtiva nazista, e i direttori degli stessi, sostenuti anche dai loro ministri della Cultura, si ingegnarono per non restituire le opere. Chi si reca oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, può tuttora ammirare l’“Autoritratto con pelliccia, collana e orecchino” del 1655 di Rembrandt. Apparteneva alla collezione dei fratelli Eleonora e Francesco von Mendelssohn che dopo l’Anschluss si rifugiarono a New York. Tra i capolavori reclamati per anni, prima da Eleonora (suicidatasi nel 1951), poi dalla seconda moglie di Francesco c’era anche un altro Rembrandt, il “Ritratto di Hendrikje Stoffel”, oggi esposto nella Alte Pinakothek di Monaco. Di quest’opera si era invaghito Hitler, che volendola per il suo museo di Linz ordinò di comperarlo per 900mila Reichsmark. Nel Dopoguerra nessuno dei due capolavori fu restituito, così come non tornarono ai Mendelssohn i Monet, i Corot esposti nella Österreichische Galerie Belvedere. Per quel che riguarda l’autoritratto di Rembrandt, il Kunsthistorisches si appigliò alla quietanza in sue mani, dalla quale risultava il regolare acquisto nel 1939 per 750mila Reichsmark. Se per molto tempo questi quadri venivano tenuti il più possibile lontano dal grande pubblico, con l’andar del tempo questa precauzione si allentò Così – ricordano le curatrici – ci furono anche aste nella quali si raccontava la vera origine del quadro: un dettaglio che ne aumentava il valore. L’ “immunità” delle grandi istituzioni museali aveva fatto scuola e quasi nessuno voleva sapere che ne fosse stato del legittimo proprietario. Per questo pochi conoscono la storia drammatica che si cela dietro alla “Sumpflegende” (Leggenda dello stagno, 1919) di Paul Klee, oggi esposta nel museo Lenbachhaus di Monaco. Una storia legata al nome di Sophie Schneider, sposata in prime nozze con Paul Erich Küppers. Fu un matrimonio felice e uno straordinario sodalizio intellettuale. Entrambi appassionati d’arte, erano riusciti, nonostante le ristrettezze economiche – la Germania si trovava schiacciata dalle riparazioni di guerra imposte dal Trattato di Versailles – a mettere insieme una collezione notevole (di cui la “Sumpflegende” fu il primo pezzo) e fondare a Hannover anche l’associazione d’arte contemporanea Kestner Gesellschaft. Poi, all’improvviso, tutto precipitò. Paul Erich Küppers, di salute cagionevole, morì nel gennaio del 1922, stroncato dalla “spagnola”. Un anno e mezzo dopo, Sophie incontra però El Lissitzky, uno dei padri fondatori del costruttivismo russo. Lissitzky, fervente sostenitore della Rivoluzione d’ottobre, convince Sophie a sposarlo e a seguirlo nel 1926 a Mosca. Prima di partire la donna affida i quadri della collezione Küppers al direttore del museo provinciale di Hannover: tra questi, oltre a diverse opere di Klee, anche alcune di Kandinsky (“Improvvisazione10”), Mondrian, Emil Nolde, Marc Chagall. Il museo le rilascia una ricevuta, che attesta la presa in consegna di 16 opere. A Hannover restano inoltre diverse opere del secondo marito. Gran parte di questo lascito verrà requisito nel 1937 dagli emissari di Goebbels. Intanto il destino sembrava essersi accanito contro Sophie: El Lissitzky sarebbe morto nel 1941, proprio l’anno in cui Hitler rompeva il patto con i russi e invadeva l’Unione sovietica. Da quel momento in poi e per il resto della sua vita, Sophie Lissitzky- Küppers si sarebbe trovata sempre nel posto sbagliato. Così, nel 1944, essendo tedesca, viene mandata in esilio coatto a Novosibirsk, dove vive in condizioni di miseria assoluta, e mantiene se stessa e il figlio facendo la donna di pulizie. Finalmente nel 1958, dopo 14 anni passati in Siberia, riesce ad avere un permesso temporaneo per recarsi in occidente. Da Vienna, dove vive uno dei suoi fratelli, scrive a Hannover chiedendo notizie della collezione a suo tempo data in custodia. Le viene risposto che la maggior parte era stata confiscata dai nazisti oppure andata distrutta durante i bombardamenti. Il poco che s’è salvato si era nel frattempo disperso ai quattro angoli della terra: “Dovrà dunque, mia cara signora Lissitzky, prendere atto del fatto che i suoi quadri sono persi… se ciò nonostante i suoi passi dovessero condurla a Hannover sarò comunque lieto di salutarla. Ma credo proprio che non vi siano più molte ragioni che possano indurla a venire qui. Dei suoi vecchi amici… non c’è praticamente più nessuno. Cordialmente, dottor Stuttmann, direttore”. Sophie Lissitzky-Küppers sarebbe morta di polmonite a 87 anni il 10 dicembre del 1978 nella sua casa di legno di Novosibirsk. Nel dicembre del 1998 a Washington si incontrarono i rappresentanti di ventiquattro stati per stilare la carta dei principi relativi alle opere confiscate dai nazisti. Gli eredi si sentirono incoraggiati a riprendere le loro battaglie. Ma non tutte le difficoltà sono state appianate. Il nipote di Lilly Cassirer, Claude, lotta da sette anni per riavere uno dei capolavori di Camille Pissarro, “Rue de Saint-Honoré, aprés midi, effet de pluie” che tutt’ora si può ammirare nel Museo Thyssen-Bornemitza di Madrid. Forse la nuova Dichiarazione di Terezin potrà finalmente facilitare la restituzione o, per lo meno, far giungere eredi e istituzioni a un accordo accettabile.
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