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Il Manifesto Rassegna Stampa
10.07.2009 Come fare propaganda antiisraeliana
Ce lo mostrano due esperti sul quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 10 luglio 2009
Pagina: 5
Autore: Michele Giorgio - Michelangelo Cocco
Titolo: «Israele fa muro col placet Usa - Gli oltranzisti di Tel Aviv che sparano su Obama»

Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 10/07/2009, a pag. 5, gli articoli di Michele Giorgio e Michelangelo Cocco titolati " Israele fa muro col placet Usa " e " Gli oltranzisti di Tel Aviv che sparano su Obama ". Ecco gli articoli:

Michele Giorgio : "  Israele fa muro col placet Usa"

L'articolo si scaglia contro la barriera difensiva e i check point sul confine con Israele.
Non una parola sul motivo che ha spinto gli israeliani ad erigere la barriera e a mettere dei check point. Le vittime, secondo Giorgio, non sono gli israeliani colpiti dagli attacchi suicidi degli arabi, ma il contrario.
Grazie alla barriera difensiva gli attacchi terroristici suicidi contro Israele sono diminuiti del 98%.
Ecco l'articolo:

 Michele Giorgio

Sorrideva soddisfatto lo scorso maggio ilministro dei lavori pubblici dell’Anp Kamal Hassouneh. Sorrideva e stringeva forte la mano a Howard Sumka, il direttore dell’ufficio locale di Usaid, l’agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati uniti. Alla presenza dei rappresentanti delle istituzioni locali, Hassouneh e Sumka hanno inaugurato, a qualche chilometro daNablus, la nuova strada finanziata, con un milione e 300mila dollari da Usaid, che collega il villaggio di Badhan con quelli di Taluza, Asira Al Shamaliyah, Yasid and Jaaba. Un piccolo progetto del quadro del coinvolgimento crescente degli Usa nel «miglioramento » del sistema stradale in Cisgiordania. Ma non delle arterie di collegamento tra le città palestinesi bensì di quelle secondarie, lunghe pochi chilometri, tra villaggio e villaggio. È un impegno che corre assieme all’addestramento sotto la supervisione del generale americano Keith Dayton di migliaia di truppe speciali dell’Anp incaricate di dare la caccia ai militanti veri e presunti diHamas e che di recente ha conquistato l’approvazione dei comandimilitari israeliani. È una politica che non sfida in alcun modo il « muro di separazione» che Israele ha costruito in Cisgiordania (ufficialmente per prevenire le «infiltrazioni dei terroristi »), ma al contrario si adegua all’annessione di fatto allo Stato ebraico di quelle porzioni di territorio palestinese ritagliate dal percorso della barriera, che includono le maggiori concentrazioni di colonie ebraiche. Esattamente cinque anni fa, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja diede il suo parere sul muro richiesto dall’Assemblea generale dell’Onu, sentenziando che l’edificazione della barriera «nel territorio palestinese occupato, compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, violano il diritto internazionale». A distanza di cinque anni, quella risoluzione è rimasta inascoltata e l’atteggiamento dei governi occidentali è di accettazione tacita delmuro costruito da Israele. Da questo punto di vista non ci sono differenze tra l’Amministrazione di George Bush e quella di Barack Obama, che pure fa la voce grossa con Israele allo scopo di ottenere lo stop completo delle costruzioni negli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Scorrendo i dati diffusi il mese scorso dall’«amministrazione civile» israeliana (ma gestita damilitari) in Cisgiordania, si nota che gli investimenti internazionali per lo sviluppo delle infrastrutture palestinesi hanno avuto negli ultimi mesi una improvvisa e massiccia accelerazione. Gli Stati uniti in modo particolare sono impegnati nella costruzione o riabilitazione di una ventina di strade. «In cinque anni investiremo 300 milioni di dollari per strade, fognature e altre infrastrutture necessarie per migliorare le condizioni di vita dei palestinesi», ha spiegato Howard Sumka. Ed effettivamente questi progetti daranno un aiuto immediato alle popolazioni locali ma, allo stesso tempo, verranno realizzati rispettando i disegni israeliani. Ciò è evidente, ad esempio, nel territorio cisgiordano occidentale, in particolare tra Gerusalemme Est e Ramallah, una di quelle aree centrali per le strategie che da diversi anni portano avanti i governi di Israele di qualsiasi colore. Di fronte alla decisione presa in passato delle autorità israeliane di vietare ai palestinesi l’accesso alla superstrada 443 e ad alcune delle sue diramazioni (45, 436 e 404), Washington non ha protestato e ora contribuisce all’attuazione dei progetti delle autorità di occupazione, con la costruzione o la riabilitazione di strade di collegamento tra Beitunia, Beit Ur al Fauqa e Tira; tra Beit Ur at Tahta, Karbata alMisbah, Beit Liqya e Beit Anan; tra Rafat e Bir Nabala; tra al Jib e Biddu. Strade che portano beneficio agli spostamenti degli abitanti di questi villaggi gravemente ostacolati dal completamento del muro ma che al tempo stesso si adeguano pienamente alla realtà della barriera. Nei punti dove queste vie di comunicazione entrano a contatto con il muro, la presenza di tunnel sotterranei di recente costruzione favorisce il passaggio dall’altra parte. Non senza ostacoli però, perché la presenza su queste strade dei posti di blocco militari è costante. Un’alta funzionaria delle Nazioni Unite incaricata di monitorare la libertà di movimento dei civili palestinesi, che ha chiesto di rimanere anonima, ha spiegato al manifesto che «sta procedendo senza sosta in Cisgiordania il progetto (israeliano) mai annunciato pubblicamente che prevede la realizzazione di una rete stradale per decine di migliaia di palestinesi alternativa a quella dei coloni israeliani che usano e useranno sempre di più arterie di comunicazioni esclusive, solo per loro». Tutto nel rispetto delle teorie dell’ex premier israeliano Ariel Sharon che nel 2004 parlò di «miglioramento» di trasporti e comunicazione per i palestinesi, lasciando intendere che le due popolazioni (coloni e palestinesi) si sarebbero spostate su strade diverse. In questo contesto si spiega la lieve riduzione del numero dei posti di blocco in Cisgiordania. Qualcuno ha legato questo piccolo miglioramento a pressioni dell’Amministrazione Obama ma in realtà questo sviluppo è frutto di una riorganizzazione dell’occupazione. Più i centri abitati palestinesi sono collegati tra di loro, senza contatti con le strade usate dai coloni, emeno l’esercito israeliano ha bisogno di posti di blocco. Così se da un lato Barack Obama preme su Israele per congelare le costruzioni negli insediamenti colonici, dall’altro l’Amministrazione Usa non apre bocca sul consolidamento dell’occupazione che sta avvenendo in diverse aree della Cisgiordania, specie in quelle da una parte e dall’altra del muro. In ogni caso l’eliminazione di alcuni check-point e terrapieni appare poco significativa. Ancora oggi, secondo i dati forniti da Ocha (l’ufficio che coordina le attività umanitarie dell’Onu), ci sono in Cisgiordania 613 posti di blocco e barriere di vario tipo oltre ad una settantina di punti di controllo occasionali. Di questi check-point, 68 sono permanenti e ben strutturati (38 sono a ridosso del muro di separazione) e cinque sono veri e propri terminal di confine, posti agli ingressi di Gerusalemme a conferma che Israele non ha alcuna intenzione di negoziare con i palestinesi lo status futuro della zona araba della città (che ha occupato militarmente nel 1967). L’intera Gerusalemme, ha ribadito di recente il premierNetanyahu, rimarrà parte integrante della «capitale indivisibile » dello stato ebraico. I dati di Ocha dicono inoltre che circa 200 km di strade della Cisgiordania sono vietati in parte o totalmente al traffico automobilistico arabo e i palestinesi continuano ad avere forti restrizioni all’accesso di un 20% del loro territorio, in particolare nella Valle del Giordano. In passato l’Associazione israeliana per i diritti civili (Acri) ha denunciato la chiusura ai palestinesi anche della costa nord del MarMorto, che pure è all’interno della Cisgiordania, allo scopo di «tutelare» gli investimenti turistici fatti da alcune colonie israeliane in quella zona. Lo Stato palestinese al quale fa riferimento Obama nascerà ma solo alle condizioni che Israele crea in modo permanente, anche grazie almuro. Senza dimenticare che, ha affermato Netanyahu nel suo discorso del mese scorso all’Università Bar Ilan, lo statarello di Palestina non avrà il controllo del suo spazio aereo e una politica estera indipendente.

Michelangelo Cocco : " Gli oltranzisti di Tel Aviv che sparano su Obama "

Cocco riporta le dichiarazioni di Begin circa la nascita dello Stato palestinese : " Begin boccia senza mezzi termini il piano dell’Amministrazione Usa: «Nessun accordo in due-tre anni, come sento dire da alcune parti. La mia strategia prevede, nelle migliori condizioni, uno stato limitato che, certamente, non verrebbe accettato dagli stati arabi e da altri paesi, ma l’alternativa sarebbe una maggiore possibilità di cancellare lo stato d’Israele». Secondo il Likud l’Unione europea dovrebbe fare pressione sui paesi arabi affinché qualsiasi accordo futuro «includa un articolo specifico che stabilisca la fine della questione dei profughi, di ogni rivendicazione» del loro diritto al ritorno sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu. ".
Il commento di Cocco è : "
Con l’esecutivo israeliano attestato su queste posizioni, non c’è da stupirsi che anche l’incontro di lunedì a Londra tra il ministro della difesa Ehud Barak e l’inviato Usa per il Medio Oriente George Mitchell si sia concluso con un nulla di fatto ". Insomma, secondo Cocco, se le trattative stanno fallendo, la colpa non è dei palestinesi che rifiutano qualunque offerta da parte israeliana, ma il contrario.
L'arroganza delle richieste dei palestinesi e il loro rifiuto di riconoscere Israele come Stato ebraico non sono menzionati.
Ecco l'articolo:

 Michelangelo Cocco

Lungo l’autostrada che da Tel Aviv conduce a Gerusalemme dei manifesti ritraggono Barack Obama col capo avvolto in una kefiah. L’ultimo sondaggio del Jerusalem post indica che solo il 6% dei cittadini dello Stato ebraico considera «pro-israeliane » le vedute del presidente Usa. Rafi Smith, a capo dell’agenzia che ha condotto l’indagine, ha spiegato al quotidiano Forward che Obama è considerato «il contrario di George W. Bush, che era percepito come il miglior amico d’Israele». Mentre il giudizio sulla Casa Bianca divide gli ebrei israeliani da quelli americani (79% proObama, secondo la Gallup), trascorsi i primi cento giorni a capo del governo, continua la luna di miele tra BenjaminNetanyahu e gli elettori, col 61% (War & peace index) che lo appoggia nel braccio di ferro con Washington sulle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati, di cui l’Amministrazione democratica chiede di fermare la crescita, in cambio della normalizzazione dei rapporti del mondo arabo con Israele. Dopo dieci anni di esilio volontario, Benny Begin è stato convinto dal premier a rientrare nell’agone politico. Figlio di Menachem (il leader che nel 1977 portò per la prima volta il Likud al governo) Begin junior è molto stimato negli ambienti della destra, dove gode della fama di uomo dalle «mani pulite». Oggi il 66enne deputato è uno degli uomini più ascoltati da Netanyahu e nei riguardi dei palestinesi è intransigente. Secondo Begin già due volte negli ultimi anni gli arabi hanno rifiutato «un’offerta generosa da parte di Israele», a Camp David nel 2000 e nel 2008. «Quando i palestinesi moderati chiedono una soluzione per i due stati, ciò che in realtà intendono è una "soluzione in due fasi"». «L’unico ingrediente che mancava nel 2000 e nel 2008 – chiarisce Begin che abbiamo incontrato alla Knesset - era il diritto al ritorno per i profughi e i loro discendenti nello Stato d’Israele, nelle loro case originarie. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con gli insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndr)». E le pressioni americane per evitare il naufragio della soluzione dei due stati, quella partizione sostenuta dalle Nazioni unite fin dal 1947? «Uno stato indipendente e sovrano in Giudea, Samaria e Gaza – dice Begin - non sarà possibile per molti anni, perché i palestinesi hanno rifiutato le nostre offerte, perché il loro sistema scolastico li educa a non accettare la presenza degli ebrei in Palestina e perché al momento ci sono due entità palestinesi differenti e quindi non sapremmo con chi trattare». Begin boccia senza mezzi termini il piano dell’Amministrazione Usa: «Nessun accordo in due-tre anni, come sento dire da alcune parti. La mia strategia prevede, nelle migliori condizioni, uno stato limitato che, certamente, non verrebbe accettato dagli stati arabi e da altri paesi, ma l’alternativa sarebbe una maggiore possibilità di cancellare lo stato d’Israele». Secondo il Likud l’Unione europea dovrebbe fare pressione sui paesi arabi affinché qualsiasi accordo futuro «includa un articolo specifico che stabilisca la fine della questione dei profughi, di ogni rivendicazione» del loro diritto al ritorno sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu. Con l’esecutivo israeliano attestato su queste posizioni, non c’è da stupirsi che anche l’incontro di lunedì a Londra tra il ministro della difesa Ehud Barak e l’inviato Usa per il Medio Oriente George Mitchell si sia concluso con un nulla di fatto. Orli Levy è originaria del Marocco, ed anche lei figlia d’arte: suo padre, David Levy, è un ex leader del Likud che è stato ministro degli esteri. Eletta per la prima volta alla Knesset, la 35enne messa dal giornale spagnolo 20 minutos al 14° posto tra le politiche più belle del mondo racconta come il suo Israel Beitenu sia riuscito a superare i confini di «partito dei russi» e diventare unamoderna formazione populista che alle ultime elezioni si è aggiudicata 15 seggi: «Vogliamo investire nelle periferie, riqualificare le areemarginali del paese, ottenere aiuti economici per i soldati – che danno allo stato tre anni della loro vita – e i giovani delle fasce sociali più a rischio». Secondo Levy le accuse di estremismo e razzismo anti-arabi rivolte al partito del ministro degli esteri Lieberman sono infondate: «Quello che per noi conta di più è la fedeltà allo Stato, Hamas edHezbollah minacciano la nostra esistenza. In questa situazione non è possibile che, nelle università e negli uffici pubblici, venga data preferenza a un arabo-israeliano piuttosto che a un soldato. Gli arabi d’Israele (il 20% della popolazione, ndr) non devono appoggiare i nostri nemici omanifestargli sostegno ». Levy ricorda la strage del 2002 nella sua Beit She’an: «Durante le primarie del Likud terroristi arabi-israeliani, a cui lo stato dava lavoro, uccisero sette persone.Durante il loro lavoro raccolsero le informazioni per compiere la strage ». «La questione delle colonie - sostiene Levy -, per un partito di destra come il nostro, èmolto difficile da affrontare, stiamo facendo un grande sforzo. Non vediamo la stessa flessibilità da parte di Washington. Lo stop alla "crescita naturale" è inaccettabile: è immorale dire a una coppia che ha appena cominciato una vita in comune che non può più fare figli, o a marito emoglie che hanno cominciato con due stanze e ora hanno sei figli di rimanere nel bilocale, o fermare lo sviluppo di infrastrutture e scuole negli insediamenti». Il suo messaggio fa presa sull’israeliano medio: «Il problema è che ci stiamo scusando del nostro diritto di essere qui, da 60 anni uno stato ebraico e democratico in continua espansione. Abbiamo già evacuato intere comunità da Gaza, nella speranza che i lanci di missili contro le città israeliane cessassero. Tutto ciò non è accaduto e gran parte della società israeliana si è sentita tradita perché continua a vivere nel terrore dei missili dei terroristi di Hamas che vogliono distruggere lo Stato d’Israele».

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