La memoria dei padri.
Cronaca, storia e preistoria di una famiglia ebraica tra Corfù e Venezia
Cesare Vivante
Giuntina Euro 25,00
Botti d'olio e libri ebraici in gran quantità, accanto a una sfilza di velieri, trabaccoli, brigantini, fregate, «polacche o sia brich». E che nomi poi: "Fortunata Sara", "Piccolo Aroneto", "Corriera d'Eggitto". Ma che ci fanno, lì in mezzo, le statue di Canova? Se il passato ebraico si può scrivere anche attraverso gli oggetti, il campionario che accompagna la cronaca della famiglia Vivante non teme confronti. Sembra di sfogliare uno di quei sillabari all'antica, capaci di contenere qualsiasi cosa e di offrirla al lettore nell'imprevedibile promiscuità dell'ordine alfabetico. A metterli assieme non è stato il caso, che pure ha giocato la sua parte, ma oltre quattro secoli di onorata intraprendenza mercantile. L'avvio fu nel Cinquecento, quando i Vivante, a causa delle espulsioni, furono costretti a lasciare la Puglia e raggiunsero Corfù. L'isola era dominio veneziano e, sotto l'occhio vigile della Dominante, la piccola comunità ebraica riuscì a tessere una trama di commerci che si estese a tutto il Mediterraneo. Le prime fortune si distribuirono equamente tra terra e mare, grazie ai prestiti, concessi soprattutto ai contadini in cambio di denaro e di prodotti della terra, tra cui il prezioso olio d'oliva, ma anche grazie alle assicurazioni marittime e allo smercio dei prodotti isolani sulla piazza di Venezia. E nonostante tutti i pericoli dell'epoca, compresi i pirati, nelle cui mani cadde almeno un Vivante in pieno Seicento. Vita di diaspora significa innanzitutto inquietudine e mobilità. Come c'era da aspettarsi, Corfù diventa troppo piccola e, all'inizio del XVIII secolo, Leone Vivante si decide a compiere il gran passo, parte per Venezia con un «naviglio di ventura», pensando di mettervi radici. Gli affari prosperano e nel 1752 Leone ottiene dalla Repubblica il permesso di risiedere in città per un primo periodo di cinque anni. Il commercio veneziano è in difficoltà, e comincia a farsi sentire la concorrenza di Trieste. Gl'imprenditori ebrei che portano capitale fresco sono i benvenuti. Il secondo Settecento è il periodo della grande ascesa della famiglia. Ora i Vivante sono armatori e giungono a possedere una ventina di navi. Sono questi i vascelli che fanno bella mostra di sé negli inventari e che rendono possibile, grazie ai loro profitti, il salto sociale. Nel 1793 Iseppo Vivante si converte al cristianesimo, prende il cognome Albrizzi, entra a far parte dell'aristocrazia veneziana e diviene collezionista d'arte. Nel suo palazzo sul Canal Grande alla Madoneta, si circonda di modernissime opere, tra cui la Ebe del Canova. Sono gli ultimi bagliori prima del tramonto. Perduta l'indipendenza, Venezia si avvia a un inesorabile declino economico, e trascina con sé anche le ricchezze dei Vivante. Iseppo muore quasi in povertà e anche gli altri rami della famiglia lottano tra prestiti, ipoteche e fallimenti. Del passato splendore rimangono solo frammenti. Le navi cadono in disuso o vengono vendute. La Ebe, già oggetto di ammirazione da parte di viaggiatori d'eccezione, come l'imperatore d'Austria e Ludwig di Baviera, viene acquistata nel 1830 dal re di Prussia, che la porta a Berlino. Qui si ammira ancor oggi, nel suo ardito negligé, in quel tempio costruito per l'arte che è la Alte Nationalgalerie. A guardar bene, la si può considerare una bellezza neoclassica prestata per un attimo alla storia ebraica.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore