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Il Manifesto Rassegna Stampa
02.07.2009 Un film da non guardare
Se si vuole conoscere la verità su Rachel Corrie

Testata: Il Manifesto
Data: 02 luglio 2009
Pagina: 12
Autore: Cristina Piccino
Titolo: «Filmare a Gaza, il tabù dell'occhio»

Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 02/07/2009, a pag. 12, l'intervista di Cristina Piccino a Simone Bitton, regista del film 'Rachel' su Rachel Corrie, dal titolo " Filmare a Gaza, il tabù dell'occhio ".

 Simone Bitton

Simone Bitton, dopo aver girato il film "Muro" nel quale sosteneva che la barriera difensiva eretta dagli israeliani come protezione contro gli attentati terroristici palestinesi era un modo per ghettizzare i palestinesi, ha firmato un nuovo film, "Rachel", su Rachael Corrie.
Come scrive Cristina Piccino, "
Gli americani non aprirono un’inchiesta, gli israeliani decretarono che fu un incidente. Gli amici e i compagni di Rachel dissero che il soldato israeliano l’aveva travolta intenzionalmente. ". La morte di Rachel Corrie fu un incidente e non intenzionale.
Secondo Piccino, Simone Bitton è una " 
documentarista che predilige l’inchiesta, che usa la macchina da presa come strumento di indagine preferendo il confronto a tutto campo all’autoritarismo dell’ideologia. ". Confrontarsi a tutto campo significa negare la realtà (e cioè che la morte di Rachel Corrie fu del tutto accidentale) e girare un film di propaganda antiisraeliana? Ecco l'intervista:

Rachel Corrie era una ragazza americana di ventitre anni. Pacifista,militante in una Ong, era arrivata a Rafah, sulla striscia di Gaza, a difendere le case dei palestinesi dai bulldozer israeliani. Anche Rachel mentre faceva da scudo finì col suo corpo di ragazza sotto uno di quei bulldozer stritolata amorte. Era il 16 marzo del 2003. Gli americani non aprirono un’inchiesta, gli israeliani decretarono che fu un incidente. Gli amici e i compagni di Rachel dissero che il soldato israeliano l’aveva travolta intenzionalmente. Le molte mail che la ragazza scriveva ai genitori, a qualche amico, raccontano il sogno di cambiare il mondo. E non importa se è solo un sogno un po’ ingenuo e troppo spericolato, Rachel nelle sue parole si diceva felice di essere a Rafah, diceva che aveva imparato e capito molto lì nella durezza crudele dell’occupazione, di una violenza quotidiana che opprime le persone privandole di qualsiasi orizzonte, anche il più semplice, il più immediato. La storia di Rachel nonostante l’aspetto mediatico del conflitto mediorientale è passata in tono minore, ma non è solo per questo che Simone Bitton ha voluto farci un film. Marocchina di nascita, con passaporto di Israele dove si è trasferita da ragazzina, nel ’66, Simone Bitton è una cineasta che ama le sfide come dimostra il suo precedente Il Muro, costruzione, ragioni e paradossi della barriera voluta dagli israeliani per chiudere nei ghetti dei territori occupati i palestinesi. Soprattutto Simone Bitton è documentarista che predilige l’inchiesta, che usa la macchina da presa come strumento di indagine preferendo il confronto a tutto campo all’autoritarismo dell’ideologia. E Rachel, il nuovo film che la Mostra di Pesaro ha proiettato nella sezione Bande à part (si può vedere nella ripresa romana del festival, a Piazza Vittorio, venerdì 4 alle 21.15) è un’inchiesta che lavorando sulla morte della ragazza si interroga sulla relazione del cinema con la realtà. Lamorte di Rachel è racchiusa in un vuoto, l’assenza di immagini. La vediamo prima e dopo, a terra, i compagni non ce la fanno a fotografarla mentre viene traascinata via, le telecamere di sorveglianza che sovrastano l’area dichiareranno lo stesso vuoto. Intorno a cui la regista costruisce le sue domande, senza risposte nonostante l’implacabile evidenza. «La storia di Rachel è stata trattata come un piccolo episodio nella guerra tra Palestina e Israele. Così ho deciso di strutturare il film come un’inchiesta cinematografica » ci dice Simone Bitton. «Rachel» cerca una verità sulla morte della ragazza contro la versione delle istituzioni israeliane e in polemica col silenzio complice americano. Al tempo stesso indaga su cosa significa fare cinema documentario oggi. Credo che il cinema documentario sia un po’ obbligato a inventare un linguaggio nuovo proprio perché si hanno più mezzi a disposizione. Siamo pieni di immagini che arrivano dai telefonini, dalle telecamere di sorveglianza, dalle mail, sul web e via dicendo. Mentre giravo ho sentito l’esigenza di indagare anche su questa abbondanza di immagini dove però è sempre possibile un vuoto. Il sistema nel caso di Rachel è riuscito a cancellare ciò che non doveva essere visto, del resto le immagini prodotte dalle telecamere di sorveglianza sono istituzionali, controllano ciò che possiamo guardare o no. I compagni di Rachel avevano vissuto un’emozione molto dolorosa, in quei momenti non si riesce a scattare una fotografia, forse è possibile farlo in tribunale ma è un’altra cosa ... Ci sono anche motivazioni personali che mi hanno portata a questo film, se si dedicano tre o quattro anni della propria vita a qualcosa non è mai per caso. La vicenda di Rachel Corrie mi permetteva di fare un film suGaza, anche se inmodo indiretto, che è un luogo nel quale gli israeliani non vogliono si girino documentari. È un luogo nascosto, un tabù a dispetto dell’attenzione dei media. Perché a Gaza viene messa in atto una distruzione sistematica, non si tratta solo di Rachel ma della vita di moltissime persone, in questo senso lei è stata una vittima collaterale. Mi aveva colpita anche la sua sfida, era una ragazza di ventitre anni e la sua storia rappresenta in qualchemodo il sentimento di rivolta e il coraggio della giovinezza. È una cosa chemi fa riflettere sulla mia generazione, sul significato dell’impegno politico. Si ha l’impressione che alcuni degli intervistati, specie tra i compagni di Rachel, esprimano una distanza dagli avvenimenti che è anche una sorta di riconsiderazione della loro attività, a proposito di impegno. Non sono una regista che arriva in un posto pretendendo di trovare subito qualcosa. É molto importante per me ottenere una confidenza con le persone e i luoghi in cui giro, e in questo caso è stato un lavoro lungo perché c’erano molte reticenze; le autorità israeliane non volevano che filmassi a Gaza, per chi comeme ha un passaporto israeliano avere un permesso è impossibile. Ho fatto sforzi enormi. La famiglia e gli amici di Rachel avevano molti sospetti, temevano che volessi fare un film su di lei perché era l’americana bionda emilitante, che la sua storia cancellasse le altre vittime. Ho mostrato loro imiei lavoro precedenti, è nata una collaborazione molto bella. Lo stesso è stato coi palestinesi che vivono lì, anche se come dicevo, arrivarci è praticamente una missione impossibile. Tornando ai compagni di Rachel non bisogna dimenticare che sono passati cinque anni, e sono molti nella vita di chi è così giovane. Al tempo stesso questo stacco mi ha permesso un rapporto con i fatti più rigoroso, non mi interessava l’emozione bruta e facile del trauma. Le immagini possono indurre all’errore. Per questo c’è bisogno di tempo, si deve sempre sapere chi ha filmato, cosa è stato tagliato ... Quando vediamo le riprese della sorveglianza, imilitari addetti al controllo sono lì a guardarle insieme a noi. Diceva del legame tra i ragazzi come Rachel e la sua generazione sulla questione dell’impegno. In che senso? La mia generazione ha lottato e ha fallito in Palestina e altrove. I giovani come Rachel e i suoi compagni lottano per un’idea concreta come può essere proteggere le case palestinesi dalla distruzione, pure se sanno che la casa sarà abbattuta ugualmente. Uno dei ragazzi dice oggi che forse erano ingenui ma comunque era importante farlo. Perché? Perché ci si impegna in una battaglia, per essere vicini ai prossimi vincitori o al di là di tutto, che si vinca o meno, che si conquistino dei risultati o no? Spesso si accusano gli attivisti di essere naif, di battersi per nulla. Sono alcune contraddizioni dell’impegno. Nel film come già nel «Muro», da spazio anche alla parola del potere, i militari israeliani. Penso che dobbiamo guardare sempre il potere, in Israele specie quello militare è molto forte, ha qualcosa di terrificante e di spaventosoma il film sarebbe stato impossibile senza. Perché la politica in medioriente non è che il riflesso della parola militare. Lo stesso vale per l’economia, sono i militari che ne determinano i corsi, nessun civile prende una posizione che non sia stata approvata dai militari. Sono loro a dirigere la vita in Israele. 

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