Due articoli di disinformazione su Israele Firmati Michelangelo Cocco e Michele Giorgio
Testata: Il Manifesto Data: 01 luglio 2009 Pagina: 9 Autore: Michele Giorgio - Michelangelo Cocco Titolo: «L’immensa sete di Gaza occupata - La colata di cemento che vanifica la pace»
Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 01/07/2009, a pag. 9, gli articoli di Michele Giorgio e Michelangelo Cocco titolati " L’immensa sete di Gaza occupata " e " La colata di cemento che vanifica la pace ".
Michele Giorgio : " L’immensa sete di Gaza occupata "
Michele Giorgio
Il primo errore è nel titolo: Gaza, infatti, contrariamente a quanto c'è scritto, non è occupata dagli israeliani. Giorgio si scaglia contro Israele e il blocco imposto a Gaza scrivendo : "L’embargo infatti è durissimo. (...) è stato ulteriormente inasprito dopo che Hamas ha preso il controllo completo di Gaza due anni fa. Far entrare nella Striscia tecnologie e pezzi di ricambio resta un’impresa biblica. La spiegazione ufficiale di Israele è di voler «impedire » a Hamas di procurarsimateriali per costruire razzi, in realtà è un boicottaggio politico che colpisce tutta la popolazione palestinese. ". La spiegazione ufficiale di Israele è anche quella reale. Il continuo lancio di razzi qassam dalla Striscia di Gaza era inaccettabile. Giorgio attribuisce a Israele la volontà di fare boicottaggio politico contro gli arabi a Gaza. In realtà è l'ooposto. Sono gli arabi a sostenere il boicottaggio politico di Israele. Giorgio scrive : " Intanto la sete cresce e preoccupa in particolare la condizione delle tante famiglie palestinesi, in molti casi di origine beduina, che vivono nelle zone a ridosso del confine con Israele da dove i militanti palestinesi lanciano razzi artigianali. ". Quelli che lanciano razzi "artigianali " (se anche non lo fossero, farebbe differenza?) non sono "militanti palestinesi", ma terroristi di Hamas che, come principale obiettivo, hanno l'uccisione di ebrei israeliani. Ecco l'articolo:
«Guarda, su questo display riceviamo tutti i dati, riusciamo a controllare il funzionamento dell’impianto e possiamo intervenire subito ». Alto e robusto, l’ingegnere Ghassan Kishawi parla soddisfatto come un padre che illustri imeriti del figlio. E ha motivo di essere contento. I tre container di colore bianco con i macchinari per la desalizzazione con osmosi inversa, hanno portato nel distretto di al Burej acqua potabile a circa 22mila palestinesi. Potrebbe apparire un numero esiguo di fronte a una popolazione di 1,5 milioni e alla grande sete di Gaza. E invece è uno dei pochi progetti infrastrutturali finalmente operativo (alla fine di maggio), dopo aver superato il blocco asfissiante di Gaza e l’offensiva militare israeliana che a gennaio ha ucciso quasi 1.400 palestinesi (tra i quali centinaia di civili) e distrutto o danneggiato migliaia di case e infrastrutture civili. A realizzarlo è stata l’Ong di Bologna Gvc con un finanziamento di 1,5 milioni di euro messo a disposizione da Echo (Onu), in collaborazione con Terres des Hommes, il Palestinian Hydrology Group, la Palestinian Water Authority e la Costal Municipalities WaterUtility. Si trattava di portare acqua potabile amigliaia di civili assetati, eppure ci sono voluti oltre due anni di trattative estenuanti con le autorità israeliane per completare l’impianto di desalinizzazione. L’embargo infatti è durissimo. Il Gvc aveva cominciato a lavorare al progetto nel dicembre 2006 ma aveva dovuto congelare tutto di fronte al boicottaggio israeliano del movimento islamico Hamas, vincitore su Fatah, meno di un anno prima, delle elezioni legislative palestinesi. L’embargo è stato ulteriormente inasprito dopo che Hamas ha preso il controllo completo di Gaza due anni fa. Far entrare nella Striscia tecnologie e pezzi di ricambio resta un’impresa biblica. La spiegazione ufficiale di Israele è di voler «impedire » a Hamas di procurarsimateriali per costruire razzi, in realtà è un boicottaggio politico che colpisce tutta la popolazione palestinese. In ogni caso l’Ong bolognese non si è arresa. «Abbiamo dovuto superare ostacoli enormi ma ora guardiamo avanti – dice Daniela Riva, manager del progetto del Gvc a Gaza – a luglio dovrebbe partire un nuovo programma a Rafah e Khan Yunis per realizzare la rete idrica e quella fognaria. E stiamo scrivendo altri progetti in questo settore che consideriamo prioritario, la situazione è molto critica, va risolta con interventi immediati e strutturali». Se le autorità israeliane lo consentiranno, naturalmente, visto quanto hanno dovuto penare in questi mesi i responsabili palestinesi e delle Nazioni unite per avere il necessario per riparare i danni alle reti idriche nel nord di Gaza, una delle aree più devastate dall’offensiva israeliana «Piombo fuso», a sud di Gaza City e a Rafah sul confine con l’Egitto martellato dai bombardamenti aerei. Decine di migliaia di persone sono rimaste senz’acqua in quelle settimane, andando ad aggiungersi alle molte altre decine di migliaia che l’acqua in casa non l’hanno mai avuta e possono procurarsela solo comprandola dalle famiglie locali proprietarie di pozzi. «La sete di Gaza è immensa», spiega l’ingegnere Kishawi: «l’unica risorsa idrica disponibile è la riserva sotterranea. Un tempo avevamo anche il Wadi Gaza (un fiumiciattolo di acqua piovana, ndr) ma poi gli israeliani hanno alzato delle dighe nel loro territorio e a noi non è arrivata più acqua». Non dimentichiamo, aggiunge, «che la società israeliana Mekorot controlla anche tutta l’acqua palestinese in Cisgiordania» (un palestinese dispone di meno di 100 metri cubi di acqua contro i 400 di un israeliano, ndr). Ogni anno il consumo a Gaza è di 180 milioni di metri cubi di fronte a una possibilità di accumulazione che non supera gli 80 milioni. «C’è un deficit annuale di circa 100 milioni di metri cubi che sta provocando enormi problemi all’ecosistema e l’aumento rapido della salinità dell’acqua potabile la rende imbevibile », avverte Kishawi. La concentrazione di sale nell’acqua è espressa dai solidi dissolti totali (Tds) espressi in mg per litro. I livelli che si registrano a Gaza sono drammatici, mediamente intorno ai 2000 Tds mapiù si scende a sud e più crescono, con conseguenze per la salute delle persone costrette a bere acqua di fatto non potabile secondo gli standard internazionali. L’osmosi inversa è una delle soluzioni. Viene realizzata con una membrana che trattiene il soluto da una parte impedendone il passaggio e permette di ricavare il solvente puro dall’altra. Con una fine tecnica di filtrazione si rimuovono fosfati, calcio e metalli pesanti. Introducendo questi piccoli impianti di dissalazione dalle acque naturali di Gaza si ottengono acque potabili. Progetti e finanziamenti ci sono ma il futuro resta nelle mani delle autorità israeliane. L’impianto del Gvc, che lavora sul pozzo S72 del comune di al Burej, ha bisogno di un serbatoio in fibra di vetro che attende da mesi l’approvazione israeliana per poter essere trasportato a Gaza, insieme alle soluzioni chimiche e alle parti di ricambio. Intanto la sete cresce e preoccupa in particolare la condizione delle tante famiglie palestinesi, in molti casi di origine beduina, che vivono nelle zone a ridosso del confine con Israele da dove i militanti palestinesi lanciano razzi artigianali. «Parliamo di civili che vivono dentro o a ridosso del territorio orientale di Gaza, che Israele considera una fascia-cuscinetto e che si estende in larghezza per centinaia di metri – dice ElenaHogan, cooperante del Gvc – è una zona agricola, molto fertile nella quale imovimenti sono limitati al minimo». L’esercito, prosegue Hogan, «non esita ad aprire il fuoco e per i contadini è arduo coltivare le terre». Portare l’acqua in quel territorio è perciò pericoloso e diverse organizzazioni internazionali si tengono alla larga. Chi abita nella «zona- cuscinetto» imposta da Israele spesso rimane senz’acqua, è costretto a scavare pozzi illegali e a bere acqua non controllata.
Michelangelo Cocco : " La colata di cemento che vanifica la pace "
Michelangelo Cocco
L'intero articolo si scaglia contro gli insediamenti israeliani. Il titolo, tutto un programma, fa intendere al lettore che la pace fra Israele e palestinesi non sia possibile per via dell'ampliamento delle città Israeliane. Cocco non menziona le cause reali: il terrorismo palestinese, il mancato riconoscimento di Israele come Stato ebraico. Non è Israele a rifiutare la pace con gli arabi, ma il contrario. E questo accade da quando Israele è stato fondato. Ecco l'articolo:
Uno scavo recintato e controllato da guardie e telecamere, a fianco la tenda eretta dai palestinesi per protestare e, poche centinaia di metri a nord, le mura della città vecchia di Gerusalemme di cui, secondo i progetti dei coloni, l’area di Silwan dovrebbe diventare un’appendice della parte ebraica. In poche centinaia di metri si concentra una delle questioni più esplosive del conflitto israelo-palestinese, una di quelle che in queste ore gli americani stanno cercando di disinnescare. «Lo hanno chiamato “Progetto 2020”, ma in realtà è un transfer, perché mira a far diventare a maggioranza ebraica quest’area di Gerusalemme est», denuncia Jawad Siam, 39 anni, capo dell’Assemblea degli abitanti di Silwan. Il governo ha stanziato 400milioni di sequel (72milioni di euro) per «rafforzare Gerusalemme come capitale d’Israele». E lo stato ha concesso all’associazione Elad la gestione di terre demaniali che i coloni e il sindaco Nir Barkat ora vogliono trasformare nel «Parco archeologico della Città di David ». Per completare il lavoro sono pronti a demolire decine di case costruite «illegalmente» dai palestinesi. Sono carta straccia dunque la risoluzione 242 del 22 novembre 1967, in base alla quale le Nazioni Unite chiedono da anni a Israele di ritirarsi dai Territori occupati dopo la Guerra dei sei giorni, e le Convenzioni diGinevra che vietano trasferimenti di popolazione nei territori occupati nella parte orientale di Gerusalemme. La situazione è più tesa nella Città santa (dove i coloni sono oltre 200mila), ma tutta la Cisgiordania è ridotta a una groviera da 121 colonie che ospitano 280mila israeliani. Tanto che il moderato Sari Nusseibeh, negoziatore all’inizio degli anni ’90 della prima fase degli accordi di Oslo, parla di «ultimo appello per la soluzione dei due stati, fallita la quale i palestinesi inizieranno a chiedere uguali diritti all’interno di uno stessa entità». «Siamo ormai in un regime di apartheid», sostiene il rettore dell’Università Al-Quds: «presto smetteremo di credere nella possibilità di diventare indipendenti». Ma la prospettiva di collasso del piano sostenuto fin dal 1947 dalla comunità internazionale per risolvere il conflitto non sembra preoccupare il governo di estrema destra che il 31 marzo scorso ha preso il timone d’Israele. Le colonie avanzano. Dall’avamposto di Derech Ha’avot – 40 famiglie e una sessantina di ordini di demolizione, finora tutti ignorati – la vista si apre sui dieci insediamenti di Gush Etzion (46mila «settler»), uno dei sei blocchi (questo isola i palestinesi di Betlemme da Gerusalemme) di cui nessun governo ha fermato l’espansione, con l’obiettivo d’inglobarli nello Stato ebraico in qualsiasi ipotesi di accordo finale. Il Muro, completato lungo il 60% del tracciato, li annette già di fatto. E i villaggi arabi che, come quello di Hussan, sono rimasti isolati dal lato israeliano del «nuovo confine»? Una via sotterranea, in costruzione e dotata di checkpoint, collegherà Hussan a Betlemme. I coloni passeranno sopra, sotto i palestinesi, che dalla loro collina potranno andare in città ma non avranno strade verso Israele. «Nel 1996 il governo, guidato anche allora da Netanyahu, dichiarò che non avrebbe più costruito nuove colonie» ricorda Hagit Ofran, a capo del settore insediamenti di Peace now, l’organizzazione della sinistra sionista che più si batte per uno stato palestinese. «Subito dopo però – prosegue la ricercatrice – iniziò a costruire gli avamposti, illegali anche per la legge israeliana». Oggi i cosiddetti «outpost» sono un centinaio, ospitano circa 4mila settler e l’esecutivo si dice pronto a smantellarli. Ofran è rientrata da pochi giorni dagli Stati Uniti, dove ha tastato il polso all’Amministrazione democratica: «Obama – afferma decisa - vuole un piano per i due stati che preveda come primi passi il blocco degli insediamenti e il coinvolgimento dei paesi arabi». Il 4 giugno scorso, in occasione del suo discorso al mondo musulmano pronunciato dal Cairo, il presidente è stato chiaro: «Gli Stati Uniti non accettano la legittimità dei continui insediamenti israeliani.Questa costruzione viola gli accordi precedenti e danneggia gli sforzi per raggiungere la pace. È ora che questi insediamenti si fermino». Il ministro degli esteri Ehud Barak ieri sera ha incontrato aNew York l’inviato Usa per il MedioOriente George Mitchell, dopo che la settimana scorsa era saltato un incontro tra quest’ultimo e Netanyahu per divergenze troppo ampie tra i due governi. Barack, secondo le indiscrezioni circolate in tarda serata, avrebbe proposto di fermare l’espansione delle colonie solo per tre mesi e di continuare comunque tutte le costruzioni già avviate. Tel Aviv non intende rinunciare alle colonie anche perché i settler sono parte integrante dell’esecutivo: il premier Netanyahu (Likud) è considerato un campione delle colonie, il ministro degli esteri Lieberman (Israel Beitenu) risiede nell’insediamento di Nokdim e quello dell’interno Elyhau Yishai (Shas) è attivissimo nella colonizzazione di Gerusalemme. Shlomo Riskin è rabbino capo e fondatore di Efrat (nel blocco di Gush Etzion), insediamento borghese una dozzina di chilometri a sud di Gerusalemme: 10mila coloni, per lo più ebrei ortodossi venuti dagli Stati Uniti,come il loro leader spirituale. Riskin è immigrato da New York nel 1983 e sostiene di parlare «in nome del 70-80% dei settler ». «A differenza di quanto detto da a Obama nel suo discorso – scandisce le sillabe con un forte accento americano – non è stata la sofferenza dell’Olocausto ad averci consentito di venire in Israele: abbiamo un diritto storico, che comincia dalla Bibbia e dal nostro insediamento qui, durato circa 4mila anni». È la linea sostenuta da Netanyahu nella risposta data a Obama il 15 giugno scorso dall’Università di Bar Ilan. Per Riskin «il problema non sono gli insediamenti, ma la nostra presenza qui: gli arabi ci vogliono cacciare». Se al contribuente israeliano - secondo un’inchiesta del quotidiano Ha’aretz - costano 556 milioni di dollari all’anno, per alcuni le colonie rappresentano un business. Nei vigneti di Efrat hanno investito la Gush Etzion wines e la Tishbi estate winery,mentre la Anglo Saxon Israel vende ai nuovi arrivati ville monofamiliari con pannelli solari e facciate rivestite di «pietra di Gerusalemme». Ayal vive da 16 anni a Efrat, dove lavora nel locale centro sociale. Ricorda che «quando sono venuta qui, c’erano meno di 700 famiglie, oggi abbiamo superato le 800». «Le pressioni statunitensi – ammette - un po’ mi preoccupano, ma il nostro governo non è Barack Obama». Se circa 1/3 del totale dei coloni rivendica un diritto religioso su Giudea e Samaria (sud e nord della Cisgiordania, secondo la tradizione biblica), i militari oppongono altre ragioni per non mollare la presa. «La parte più vicina di quelli che un domani dovrebbero diventare i territori amministrati dall’Autorità palestinese dista da Tel Aviv 12 chilometri – spiega il generale Yaacov Amidror -. L’80% della nostra popolazione, delle industrie e dei centri finanziari si concentra in un’area compresa tra 20 chilometri a nord e altrettanti a sud di Tel Aviv. Non abbiamo la profondità strategica degli altri paesi». Ex paracadutista, Amidror ha servito nell’esercito per 36 anni, ricomprendo ruoli di primo piano nell’intelligence. «Devono accettarci in quanto Stato ebraico. Per questo è così importante che il premier (Netanyahu) abbia dichiarato che non sottoscriverà alcun accordo che non includa il riconoscimento d’Israele in quanto Stato ebraico da parte dei palestinesi ». Amidror sottolinea la «funzione di sicurezza» di alcuni insediamenti. E rilancia su un’altra area della Palestina di cui poco si parla, la Valle del Giordano: «Anche (l’ex premier) Rabin, pochi giorni prima di essere assassinato, dichiarò in parlamento che aveva bisogno di tutta quell’area, perché è una zona cuscinetto tra la Giordania e un futuro stato palestinese».
Per inviare la propria opinione al Manifesto, cliccare sull'e-mail sottostante