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Il Foglio Rassegna Stampa
27.06.2009 David Rohde è fuggito dalla prigione talebana in cui era rinchiuso da sette mesi
Cronaca di Mattia Ferraresi

Testata: Il Foglio
Data: 27 giugno 2009
Pagina: 6
Autore: Mattia Ferraresi
Titolo: «Grande beffa ai talebani»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/06/2009, a pag. II, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Grande beffa ai talebani ".

 David Rohde

Nella notte fra venerdì e sabato scorso il reporter del New York Times David Rohde è fuggito dalla prigione talebana in cui era rinchiuso da sette mesi. Con lui c’era il giornalista afghano Tahir Ludin. A coprire l’evasione, soltanto la vasta notte asiatica. Rohde adesso è, come si dice, sano e salvo, finalmente fra le braccia della moglie, Kristen Mulvihill, con la quale si era sposato appena due mesi prima di cadere, il 10 novembre, nella trappola talebana tesa da un luogotenente di medio livello che Rohde stava andando a intervistare. Quella di David Rohde è una vicenda a lieto fine che passa per uno svolgimento travagliato, per fasi alterne, angosce casalinghe, territori infidi sui quali si gioca un mestiere fatto alla vecchia maniera. Una di quelle storie che il linguaggio paludato del giornalismo riporterebbe a qualche mese di distanza sotto il titolo “I sette mesi che hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso”, se soltanto fosse vero. Perché di un mondo con il fiato sospeso in questa storia non si ha notizia. Rohde non è uno qualsiasi. Non è uno stagista troppo zelante che si rende conto tardi di averla fatta grossa; non è un parvenu, un soldatino spaccone in cerca di fama né un garzone che da grande vuole fare il giornalista. Lui di premi Pulitzer ne ha vinti non uno ma due. Il primo nel 1996, quando raccontò il massacro di Srebrenica per il Christian Science Monitor. Allora aveva 29 anni e anche lì fu vittima di un sequestro. Il secondo l’ha vinto l’anno scorso assieme a un team di colleghi del New York Times. Le loro storie su Afghanistan e Pakistan sono state giudicate le migliori in circolazione. Nell’autunno scorso aveva organizzato un’intervista con Abu Tayeb, veterano della resistenza afghana contro l’Armata rossa ora a capo di un manipolo di talebani nelle zone tribali a sud di Kabul. Il cronista americano stava raccogliendo testimonianze per un libro inchiesta sull’Afghanistan. Per un professionista come Rohde si trattava di una missione con coefficiente di difficoltà medio. Abu Tayeb è considerato un pesce di piccola taglia per gli standard dell’Intelligence un signorotto che muove i 1300 uomini che dice di avere dalla sua più per i soldi che per lo sterminio degli infedeli. Diversi giornalisti hanno interrogato Tayeb nel suo compound nella provincia di Logar e un mese prima che il reporter si avventurasse, senza saperlo, verso sette mesi di prigionia, la giornalista francese Claire Billet si era infiltrata in quello stesso gruppo di talebani, realizzando un documentario di trenta minuti mandato in onda da France Tv 24 e ne era uscita infine senza che le fosse torto un capello. Oltre al giornalista-traduttore Ludin, ad accompagnare Rohde c’era anche un autista, Asadullah Mangal, che con il fratello gestisce un’impresa di trasporti. Ludin, personaggio che i giornalisti occidentali considerano ormai da molto tempo affidabile, si era occupato di organizzare l’incontro. Era stato in visita da Abu Tayeb un paio di volte per accompagnare altri giornalisti stranieri. Aveva aperto un buon contatto, un rapporto di fiducia. Ovviamente quel giorno le cose non sono andate come previsto. Rohde non ha nemmeno visto Abu Tayeb. All’arrivo dei reporter, alcune guardie di Tayeb li hanno portati via, dicendo semplicemente che il loro boss gli aveva ordinato di fare così. In quel preciso momento l’accaduto scivola sul piano inclinato dell’oblio, viene rimosso, nessuno ne parla, nessuno ne scrive, Rohde viene dimenticato dal mondo fino al 20 giugno di quest’anno. La notizia della fuga di Rohde assieme al compagno Ludin viene data dal New York Times in un racconto appassionato in cui si ripercorrono con la tipica enfasi narrativa le fasi della liberazione: Ludin che sfida un secondino a un tipico gioco locale per tenerlo sveglio più a lungo possibile, Rohde che approfitta della distrazione per accovacciarsi in un luogo strategico. Infine, il sonno del nemico, e i cospiratori che dormono con un occhio solo, come achei nel ventre del cavallo mentre Troia si ubriaca. All’una di notte Rohde sveglia il collega, insieme valicano il muro del compound con una corda rubata ai carcerieri due settimane prima e si calano dall’altra parte. Fuori i cani si mettono ad abbaiare e al posto della scena cinematografica in cui o si viene ribeccati e la trama s’infittisce o arriva un elicottero dei servizi segreti che salva la situazione, succede una cosa sorprendente: niente. Nessun talebano all’orizzonte, nessuna figura umana. Quindici minuti di cammino e i due arrivano a un posto di blocco controllato dall’esercito pakistano. Vengono scambiati per attentatori suicidi, le urla coprono la scena, ci vuole un quarto d’ora di nervi tesi per convincere i poliziotti che stanno dalla loro parte – le barbe lunghe non aiutano –, che sono fuggiti miracolosamente dalle mani dei talebani. Fine della storia, tutti a casa; a parte l’autista, che probabilmente si è trovato a meraviglia con i bravi di Abu Tayeb e ha deciso di rimanere in loro compagnia, o forse, secondo altre fonti, sapeva tutto dall’inizio. Il racconto del NYT è basato sulla testimonianza di Ludin, mentre Rohde non ha parlato, limitandosi a confermare la versione del compagno di prigionia. Nel frattempo il direttore del NYT, Bill Keller, racconta i retroscena della vicenda al programma “This Week” di George Stephanopoulos. Il giornale, spiega Keller, ha deciso di adottare la strategia del “media blackout” per proteggere David Rohde, ha preferito non parlarne per non fare salire le quotazioni della sua vita presso i rapitori. Lo staff del NYT si è speso in questi mesi per convincere i colleghi di mezzo mondo a bucare la notizia, a occultarla, ad anteporre le ragioni di sicurezza a quelle professionali, a proteggere tutti i giornalisti che sarebbero finiti in pericolo se il rapimento di un collega avesse tenuto “il mondo con il fiato sospeso”, appunto. E per la liberazione di Rohde, dice Keller, “non è stato pagato nessun riscatto”. La storia, raccontata così, è bella e avventurosa ma forse leggermente troppo patinata. La versione del NYT ha dei buchi, parti oscure e lascia l’impressione di avere un finale di partita in cui vincono tutti. E alla liberazione di Rohde i reporter americani si sono scatenati per unire i puntini. In novembre, oltre ai canali dell’intelligence americani, il NYT si è affidato per i negoziati ad un’agenzia privata specializzata in rapimenti e riscatti, la Clayton Consultants, contattata da Aig, il colosso assicurativo che gestisce le polizze del NYT. Secondo diverse fonti, il gruppo editoriale aveva messo insieme una cifra attorno ai due milioni di dollari per la liberazione di Rohde. Quando gli uomini della Clayton hanno preso contatti con i rapitori, è stato immediatamente chiaro che la cifra proposta dagli americani (780mila dollari, somma congrua secondo le stime dell’agenzia) era nettamente inferiore alla richiesta dei rapitori, che volevano 25 milioni di dollari e il rilascio di quindici sodali detenuti a Guantanamo. Qualcosa era andato storto. Le guardie corrotte di Abu Tayeb avevano subito fiutato l’affare e avevano venduto i prigionieri a un boss talebano di primo rango, Siraj Haqqani, negoziatore ampiamente più potente di Tayeb. La “gallina dalle uova d’oro” – così i negoziatori dicono fosse soprannominato Rohde dai carcerieri – era in una trappola estremamente costosa da disinnescare. A quel punto i rapporti fra la Clayton Consultants e il NYT si sono raffreddati, mentre la moglie di Rohde premeva perché ogni strada fosse intrapresa. Diverse fonti interne ai contractors rivelano ora che è stata pagata la cifra di un milione di dollari, non come riscatto, ma per creare quella minima rete di corruzione necessaria alle operazioni di fuga. E per fare in modo che molte paia di orecchie non sentissero quei cani abbaiare.

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