Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 26/06/2009, a pag. III, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Colpo di sonno a Baghdad ".
In Iraq i soldati americani hanno finito la guerra nel 2008 con una geniale campagna di controguerriglia. Hanno cooptato la maggioranza dei ribelli sunniti e l’hanno impegnata a combattere contro chi si ostinava a restare dalla parte sbagliata: gli elementi irriducibili e più pericolosi, molti arrivati dall’estero, fedeli ad al Qaida. Mentre facevano questo, altri accordi tra gli americani e gli sciiti – che sono maggioranza nel paese e hanno tutto da guadagnare dalla spartizione democratica del potere politico – hanno finalmente sollevato il paese fuori da quella sequenza horror che era diventata la cronaca nazionale di ogni giorno: attentati, decapitazioni, esecuzioni sommarie, altri attentati. La strategia di Washington è andata avanti su una formula larga, ecumenica, inclusiva, ripetuta mille volte come la preghiera che poteva davvero portare fuori tutti dai guai: “Comprehensive approach”. Ovvero: le operazioni militari sono importanti, ma lo sono anche il lavorio e il moto perpetuo dei diplomatici per mettere d’accordo i fronti rivali, trovare compromessi, appianare le questioni, riportare l’elettricità nelle case e riparare le fogne . La ricetta era: Pentagono più dipartimento di stato. Il progresso non si misurava più con la conta dei nemici uccisi, come avveniva ancora in Vietnam, ma con “gli ettolitri di chai, di thé arabo, bevuti assieme agli iracheni”. Fra quattro giorni verrà a mancare uno dei due pilastri di questa stabilizzazione nazionale, il pilastro militare, perché il 30 giugno scade il termine dell’accordo tra Washington e Baghdad che impone di ritirare le truppe “combat” dai centri urbani. Quando decisero di fissare un termine di tempo per il ritiro, lo fecero lasciando le maglie molto larghe, per consentire ai governi e ai soldati qualche margine di manovra nel caso le cose fossero andate male: resteranno molte truppe senza più la dicitura “combat”, ma con quella ambigua di “consiglieri militari”, e le truppe da combattimento saranno spostate nelle basi appena fuori dalle città. Anche se l’America non sta per perdere subito la propria presenza militare nel cuore del medio oriente, strategicamente all’incrocio di Siria, Iran, Turchia e Arabia Saudita, i soldati hanno però perso il loro potere assoluto sul campo. Già sono limitati nelle operazioni antiterrorismo: hanno bisogno del mandato di un giudice iracheno per compiere un arresto e devono consegnare l’arrestato alle autorità locali. Con il loro ritiro dalle città, tutta la responsabilità sulla sicurezza passa nelle mani sovrane dell’Iraq. In teoria, si compie finalmente la transizione che avrebbe dovuto realizzarsi sei anni fa, dopo la cacciata di Saddam Hussein, nel 2003. In pratica, la calma relativa di cui il paese gode da circa un anno si sta guastando. Come se spezzoni degli anni più bui non fossero mai andati via e stessero facendo di nuovo irruzione nella vita del paese (ma riviste e quotidiani stranieri non se ne accorgono, e il reportage sulla gente di Baghdad che “fa picnic dove prima era l’inferno” è già diventato un grande classico esotico). Sabato un’autobomba ha fatto crollare una moschea a Kirkuk, nel nord del paese e ha ucciso 73 persone. A Baghdad sono tornati gli attentati frequenti, anche se non hanno la spaventosa magnitudo degli anni passati, quando le stragi facevano un centinaio di vittime in un colpo solo. Ieri nove persone sono morte e altre trenta sono state ferite in un quartiere sud della città. Nove soldati americani sono rimasti feriti, di nuovo a Baghdad ma nella zona est, quando due bombe sono esplose al passaggio del loro convoglio. Due giorni fa una motocicletta carica d’esplosivo è saltata in aria dentro un mercato di Sadr City, l’enorme quartiere dormitorio degli sciiti fatto costruire vicino alla capitale da Saddam, uccidendo 76 persone. Un attacco così non si vedeva da prima della campagna di counterinsurgency. Due giorni fa il New York Times raccontava il deterioramento delle condizioni di sicurezza a Fallujah, “che nel 2008 era l’area più sicura del paese”. Gli sceicchi locali hanno cacciato i terroristi e ingegneri americani stanno lavorando a un progetto modello, un depuratore da 100 milioni di dollari. L’estate scorsa gli uomini del Provincial Reconstruction Team dell’ambasciata americana cenavano esposti alla brezza serale sui terrazzi degli sceicchi, lungo le rive dell’Eufrate. “Ma ora evitiamo la strada principale della città, perché sta diventando un po’ problematico, con gli Rpg e i colpi di fucile”, dice il capo della squadra, Phil French. Gli Rpg sono le granate a razzo. Il 25 maggio scorso una bomba ha distrutto uno dei suv del convoglio degli ingegneri, uccidendo tre americani, uno era un funzionario del dipartimento di stato. Erano almeno due anni che non si verificava un attentato simile da quelle parti. Ieri a Fallujah c’è stato un altro attentato contro il colonnello Saad Abbas, comandante delle milizie volontarie. Lui è scampato all’attacco, ma quattro suoi uomini sono morti. La rimonta incompiuta L’America in Iraq ha compiuto una rimonta civile e militare che molti analisti davano per improbabile, se non impossibile. Ma quest’anno, quando era il momento di chiudere la partita, quando la faccenda si è trasformata da operazione militare in missione diplomatica, Washington si è distratta. L’Amministrazione è cambiata, e fatalmente sono cambiate anche le priorità. Sotto l’Amministrazione di George W. Bush si diceva che “in Iraq facciamo quello che dobbiamo – perché Baghdad è il fronte centrale – in Afghanistan quello che possiamo”. Ora la situazione s’è rovesciata. Baghdad è scivolata in fondo alle priorità, Kabul è salita in cima. Il problema è che la situazione sul campo in Iraq ha bisogno di “quick fix”, di soluzioni rapide a getto continuo, e non segue i ritmi della politica americana. Per due mesi dopo il giuramento la nuova Amministrazione Obama non ha inviato un nuovo ambasciatore a rimpiazzare Ryan Crocker, lasciando sguarnita la sede diplomatica più grande e fortificata al mondo. Poi ha nominato per la sostituzione Christopher Hill, ex negoziatore con la Corea del nord: un favorito di Richard Holbrooke, ma non esattamente un esperto della regione mediorientale. Hill ha un budget annuale di 500 milioni di dollari, un quarantesimo dei venti miliardi di cui disponeva il suo lontano predecessore Paul Bremer nel 2003. “Hill ha disfatto i bagagli mentre i soldati facevano i loro”, dicono gli iracheni. Intanto il premier iracheno Nouri al Maliki ne ha approfittato per tradire l’accordo con gli americani perché fossero integrate nell’esercito e nella polizia quelle milizie sunnite che hanno combattuto contro al Qaida. Maliki, sciita, vuole tenere i preziosi lavori di stato liberi per i suoi correligionari e non si fida di ammettere anche i sunniti alla spartizione. Aveva promesso di assumerne 50 mila, non ne ha presi invece più di cinquemila. Un decimo. Ma così sta venendo meno il grande patto con gli americani, che avevano sempre rassicurato i sunniti che l’Iraq sarebbe stato un paese vivibile e ricco di opportunità anche senza la protezione antisciita del dittatore Saddam e dei fanatici di al Qaida. Nel 2003 la disperazione dei sunniti – che ormai si credevano alla mercé degli sciiti, perché l’inviato speciale di Bush, Bremer, aveva interdetto tutti gli ex appartenenti al partito Baath dai posti pubblici – fu il fattore che precipitò il paese nella violenza, dopo una campagna militare d’invasione che era stata impeccabile. Urge lavoro diplomatico americano. Per ora l’ambasciata americana è finita sui giornali e ha attirato l’attenzione soltanto perché ha organizzato un gay pride party. Cambio di organigramma Thomas E. Ricks è l’esperto di Difesa di Foreign Policy, dopo essere stato inviato in Iraq di Wall Street Journal e Washington Post. Nel finale del suo primo libro sulla guerra, “Fiasco”, del 2006, delineò una serie di scenari catastrofici che poi fortunatamente la campagna militare americana ha scongiurato. Il secondo libro, uscito di recente, è “The Gamble”, “L’azzardo”, in cui descrive la nuova scommessa americana sull’Iraq. La sua tesi è che la pace di oggi finirà così in fretta da costringere il presidente Obama ad abortire il piano di ritiro, davanti all’aumentare della violenza. “Penso soprattutto che l’idea che la missione dall’agosto del prossimo anno non sarà più ‘di combattimento’ sarà abbandonata. Penso anche che l’accordo tra Washington e Baghdad sarà modificato, per consentire agli americani di restare”. L’ultimo cambiamento di ruoli dentro la diplomazia di Obama – secondo le notizie trapelate a Washington – sarebbe lo spostamento dell’inviato speciale per il Golfo (leggi: Iran) Dennis Ross dal dipartimento di stato, dove si occupava appunto di Iran, al Consiglio nazionale di sicurezza, con delega sul medio oriente e sull’Iraq. Ancora non si capisce se per Ross si tratta di una promozione o di un allontanamento dalla sua responsabilità precedente. L’effetto però non è buono per la diplomazia a Baghdad. Con il rimpasto e con il nuovo organigramma del Consiglio nazionale di sicurezza, nota Laura Rozner su Foreign Policy, non c’è più un direttore senior specificamente al lavoro sull’Iraq, e restano “soltanto due o tre direttori” a sorvegliare la vittoria fragile a Baghdad.
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