Riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/06/2009, a pag. 42, gli articoli di Maurizio Crosetti e Renzo Guolo titolati " Quei veli che dividono le nostre città" e " Il sottile confine fra libertà e identità " preceduti dal nostro commento. Ecco gli articoli:
Burqa e Niqab, simboli di sottomissione
Maurizio Crosetti : " Quei veli che dividono le nostre città"
L'articolo di Crosetti riporta le dichiarazioni di una professoressa: «Le musulmane più giovani entrano in classe velate, e quando vanno in palestra o in piscina si mettono calzoncini e costume, senza drammi» racconta una professoressa. «Detto tra noi, mi sembrano più dignitose loro di certe ragazze italiane che vengono a scuola mezze nude, tipo cubiste».". Il problema del velo non è sul piano della moralità nè della dignità. Una ragazza che porta il velo non è più dignitosa di una che non lo porta. Si tratta di libertà di scelta. Le donne che vivono nei paesi musulmani più integralisti questa libertà non ce l'hanno. Costrette a nascondersi sotto a un velo scuro, non hanno nessuno dei diritti delle donne occidentali. Il velo è un simbolo di sottomissione, non di libertà culturale e religiosa. Crosetti cerca di dimostrare il contrario riportando le dichiarazioni di donne musulmane occidentali " «La globalizzazione non piace mica a tutti» spiega appunto Sumaya, diciannove anni (...)«Qualcuno ci guarda in modo strano, però la maggior parte della gente ha capito che non siamo una minaccia e neanche una stranezza, è solo che questi abiti fanno parte di noi e della nostra storia.E poi, scusate, vogliamo parlare delle suore? Mica nessuno si scandalizza se si coprono il capo». ". Il paragone con le suore e il loro velo regge poco. Le donne occidentali laiche il velo non lo mettono e non sono costrette dai mariti a farlo, contrariamente alle donne musulmane. In ogni caso manca, nell'articolo di Crosetti, il punto di vista delle donne che vivono nei paesi più integralisti, alle quali non è permesso discutere del velo e del suo significato, nè scegliere se portarlo o no. Ecco l'articolo:
Ogni tanto accade di vedere donne che portano il niqab, quella specie di tunica che lascia almeno libero lo sguardo e che i francesi vogliono cancellare insieme al suo più estremo gemello afgano, il famigerato burqa. Un caso? Un nuovo segno identitario? La rivendicazione di scelte religiose più radicali? Oppure, per dirla tutta, è una traccia integralista da non sottovalutare? E come sono accolte quelle donne, specialmente dopo le polemiche in Francia, dove Sarkozy ha definito il velo "non gradito"?
«In Italia, e anche a Torino, il burqa è un oggetto rarissimo. Non che non esista, però si vede più spesso il niqab». Abdellah Kounati è il presidente della Moschea della Pace, dietro il mercato di Porta Palazzo. Qui, un tempo i venditori parlavano la koinè dei dialetti italiani, compreso l´ormai quasi estinto piemontese. Poi sono arrivate le cadenze del sud Italia, ai tempi di Mimì Metallurgico e oltre. Da un bel po´, la lingua ufficiale è il marocchino.
Tra bancarelle di tè verde e macellerie islamiche, la Moschea della Pace è incastrata in mezzo a vecchi palazzi senza un solo nome italiano sul campanello.
«Ma qui l´integrazione è un dato acquisito» dice Kounati.
«Quando portano il velo, e per velo intendiamo quasi sempre l´hijab che lascia scoperto il viso, le nostre donne sono circondate da curiosità ma non da diffidenza. Allora spiegano cos´è, soprattutto ai bambini, e tutto finisce lì.
Io penso che la laicità italiana, assai più tollerante di quella francese, non rappresenti una minaccia per le donne islamiche. Indietro non si torna».
Eppure, un mese fa una signora torinese ha protestato per la presenza di una donna velata alla biglietteria della Reggia di Venaria. Le colleghe di Yamna Amellai si sono subito messe il foulard sul capo, per solidarietà. «Una volta un uomo mi ha detto di tornare al mio paese» racconta Yamna, «però per fortuna l´ignoranza non è così diffusa. La Reggia è un patrimonio internazionale, mi sembra ovvio che ci lavorino anche gli stranieri».
Il difficile è capire se le donne barricate dentro un abito della tradizione religiosa lo facciano per libera scelta, oppure perché costrette.
«La scuola islamica più integralista, quella salafita, ritiene che il niqab sia l´unico velo islamico, però non è una posizione così diffusa» spiega Kounati. La signora Fatma, che vende (velata) frutta e verdura a Porta Palazzo non si sente un´attrazione del carnevale: «Il velo è una mia scelta, e comunque una donna coperta o un uomo barbuto non sono mica per forza terroristi o fondamentalisti. In giro vedo tanta ignoranza, ma anche tanta voglia di capire».
Non è stato facile arrivarci. Nella Torino dell´Islam che avanza e dei santi sociali, dove don Bosco sta vicino a Mustafà, nel 2002 migliaia di musulmani scesero in piazza, si inginocchiarono verso La Mecca e pretesero libertà di velo. L´oggetto del contendere erano le fotografie sui documenti delle donne islamiche. «Oggi la situazione è molto più tranquilla» dice Rosanna Lavezzaro, dirigente dell´ufficio immigrazione della Questura. «Negli ultimi anni, mi vengono in mente solo tre casi estremi di burqa: due donne somale e un´italiana». La quale si chiamava Barbara Farina, diventata Aisha dopo la conversione all´Islam e il matrimonio con Abdulkair Fall Mamour, l´imam di Carmagnola espulso dall´Italia per una serie di frasi sconsiderate su Bin Laden e i kamikaze. Costei si rifiutò di togliere il burqa e di farsi riconoscere. Invece le due somale erano state costrette dai mariti a infagottarsi. «Ma oggi possiamo dire che Torino ha raggiunto un ottimo livello di integrazione tra le diverse comunità etniche e religiose». Fatto salvo, ovviamente, l´obbligo di scoprire l´attaccatura dei capelli e le orecchie nelle foto dei documenti, come da circolare (un po´ datata) del ministero dell´Interno.
Comunque, la realtà è più variegata e complessa. Moschea di piazza Bengasi, periferia sud, un edificio moderno tra negozi di vestiti e chioschi del kebab.
Qui, sempre più donne italiane decidono di passare all´Islam. «Perché dà risposte religiose più profonde, con maggiore coerenza e fede» racconta Chiara, ma ora bisogna chiamarla Amal. «Mio marito è marocchino, però non sono diventata musulmana solo per questo: è che ci credo. Il velo? Una scelta».
Per qualcuno, il problema non è un problema. Per esempio per gli studenti e gli insegnanti dell´istituto "Giulio", nel cuore del quartiere nero di San Salvario, dietro la stazione. Arabi, arabe, marocchini, somali e somale. «Le musulmane più giovani entrano in classe velate, e quando vanno in palestra o in piscina si mettono calzoncini e costume, senza drammi» racconta una professoressa. «Detto tra noi, mi sembrano più dignitose loro di certe ragazze italiane che vengono a scuola mezze nude, tipo cubiste».
Tra i 40 mila musulmani di Torino, oltre la metà sono donne. Conseguenza dei ricongiungimenti familiari e delle nascite, perché ormai siamo alla quarta generazione. «Per molte ragazze, il velo è quasi un costume tradizionale» dice il presidente della Moschea della Pace (e tra un anno sorgerà quella nuova di zecca in via Urbino, dopo tante discussioni: a giorni l´inizio dei lavori).
«Certo, esistono anche donne obbligate a coprirsi dai padri, dai fratelli e dai mariti, però non sono la maggioranza». Molte di loro hanno foto occidentali nei passaporti, con trucco e rossetto, ma poi si velano quando arrivano in Occidente: è il loro modo di sentirsi musulmane, di difendere un´identità più culturale che religiosa. «La globalizzazione non piace mica a tutti» spiega appunto Sumaya, diciannove anni, il chador legato dietro la nuca come una bandana, un po´ alla pirata. «Qualcuno ci guarda in modo strano, però la maggior parte della gente ha capito che non siamo una minaccia e neanche una stranezza, è solo che questi abiti fanno parte di noi e della nostra storia.
E poi, scusate, vogliamo parlare delle suore? Mica nessuno si scandalizza se si coprono il capo». Sono sempre i più giovani ad andare al cuore delle cose, senza veli.
Renzo Guolo : " Il sottile confine fra libertà e identità"
Riferendosi alla comunità musulmana francese, Guolo scrive : "vi sono anche osservanti e islamisti. E tra le donne che vivono nelle famiglie di questi ultimi, molte portano il niqab come adempimento di un obbligo religioso e rinforzo identitario.". Quello del niqab non è un " obbligo religioso e rinforzo identitario", ma un marchio di sottomissione all'uomo.
" In Gran Bretagna, dove il multiculturalismo è ancora ideologia dominante, il problema non si è nemmeno posto " . Citare la Gran Bretagna come esempio di democrazia e multiculturalismo è una scelta infelice. Ricordiamo che, in Gran Bretagna non è stato permesso a Geert Wilders il visto di ingresso per evitare problemi con le comunità islamiche. Il Regno Unito ha troppa paura dei suoi cittadini islamici per condannare il velo.
Ecco l'articolo:
Ciclicamente, la Francia discute del velo. Questa volta di quel particolare tipo di velo integrale che è il burqa, simbolo nell´immaginario collettivo occidentale della dittatura sui corpi imposta alle donne dai Taliban. O meglio, del niqab, che, contrariamente al manto con la grata indossato dalle afgane, poco diffuso in Europa, lascia scoperti gli occhi. Abbigliamento diffuso tra i seguaci dell´islam salafita. Anche nella laica Republique, che nel 2004 ha ribadito il divieto di ostentare l´hijab a scuola. Un pilastro della laicità alla francese, quello della neutralizzazione dei simboli religiosi nella sfera pubblica. Principio che sostanzia un modello di integrazione fondato, oltre che sull´assimilazione, su una cittadinanza universalista di matrice contrattuale. Citoyen non è, tanto chi è nato in suolo francese ma chi condivide i valori repubblicani.
Un divieto, quello che riguarda l´hijab che non si estende al di là dello spazio scolastico o all´esercizio di talune funzioni pubbliche. Del resto, nell´Esagono vivono cinque milioni di musulmani e tra essi, oltre che secolarizzati e culturalisti, ovvero quanti hanno abbandonato la religione o guardano all´islam come civilizzazione, vi sono anche osservanti e islamisti. E tra le donne che vivono nelle famiglie di questi ultimi, molte portano il niqab come adempimento di un obbligo religioso e rinforzo identitario.
Nell´intento della Francia, non c´è una forzatura "kemalista" sul velo in generale. Nel mirino è il velo integrale, divenuto bersaglio trasversale di un gruppo di deputati che chiede l´istituzione di una commissione parlamentare di studio sul problema. Proposta sostenuta anche da Sarkozy. Il presidente francese ha definito il velo integrale «segno di asservimento e di avvilimento» non benvenuto nella Repubblica; ma, da fautore di una laicità «positiva» che sia garante del pluralismo religioso anziché ostile alla religione, ha trattato il tema come un problema di libertà anziché religioso. Un approccio che, pur cogliendo una dimensione non secondaria, lascia irrisolta la questione di cosa sia oggi l´identità e quale relazione essa abbia con la sfera della libertà.
La questione sollevata dall´Eliseo non riguarda, dunque, solo la Francia. Tutte le società occidentali sono società in cui diverse culture condividono il medesimo spazio sociale. Situazione che i singoli paesi affrontano in maniera diversa, spesso mediante una sorta di dipendenza dal passato e dalle urgenze, anche ideologiche, del presente. Così in Italia, che ha costituzionalizzato nel dettaglio lo spazio della religione, la vicenda deve necessariamente essere affrontata in termini diversi dalla Francia. La via imboccata è quella dell´ordine pubblico. Contro burqa e niqab è stata invocata la legge Reale, in quella parte che vieta il travisamento in pubblico. Norma, eredità degli anni ‘70, che non aveva certo una simile finalità e che può essere aggirata attraverso l´appello alla motivazione religiosa. In Gran Bretagna, dove il multiculturalismo è ancora ideologia dominante, il problema non si è nemmeno posto.
Da qualunque parte lo si affronti, il tema rinvia alla tensione, che a volte pare irriducibile, tra libertà e identità, tra l´imperativo ad assicurare l´eguaglianza di diritti e tutela della differenza., tra universalismo e particolarismo. Per i teorici dell´identità, questa non si può costruire senza la libertà di riferirsi anche a particolari interpretazioni della simbologia religiosa; per i fautori della libertà, questa esprime, invece, una palese coercizione. Polarizzazione che dimostra come, nelle società multiculturali, il conflitto è, essenzialmente, conflitto di, e sui, valori, E che le guerre dei simboli ne sono solo l´aspetto più eclatante.
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