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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Amos Oz, Storia di amore e di tenebra 23/06/2009

Un racconto autobiografico tra l'infanzia, il sionismo la letteratura e la tragica fine della madre
Susanna Nirenstein, su La Repubblica 17 settembre 2003

Intervista tratta da l'Espresso
Si ride. E si piange. Poi, di nuovo, a tratti, sorrisi e sentimenti forti. E qualche volta, anche, ci stanchiamo un po'. Ma si rimane spesso estasiati mentre Amos Oz apre col suo linguaggio sublime le infinite black box - come recitava il titolo di un precedente romanzo - che per la prima volta raccontano la sua vita: davanti alla scatola nera, Oz manda avanti il nastro, ascolta, ricorda, riascolta, riannoda un discorso spezzato, cambia registro, va avanti, alza il volume su un brusio dell'ultima fila, pensa a cosa voglia dire quel certo suono sulla scena del disastro o della meraviglia, canta una canzone liberatoria, si accende una sigaretta, fa ripartire il nastro. Ci ripensa. Ricomincia da capo.

Niente a che fare con una confessione spontanea, né con un logorroico fiume in piena: Una storia di amore e di tenebra (pagg. 627, euro 19) è quanto di più sapientemente costruito si possa leggere. E se il filo rosso è il drammatico suicidio della madre di Oz nel '52, quando Amos ha 13 anni, che viene annunciato fin dall'inizio e si conclude solo nell'ultima pagina, ("di mia madre non ho parlato quasi mai, per tutta la mia vita fino a ora, che scrivo queste pagine. Né con mio padre né con mia moglie né con i miei figli né con nessun altro. Dopo la morte di mio padre, nemmeno di lui ho quasi mai parlato"), la "storia" si dipana tra continui salti avanti e indietro, tra passato remoto e passato prossimo e presente, riflessioni, aneddoti, rivelazioni sulle sue tecniche di scrittore, di narratore (come ha utilizzato quel personaggio nel romanzo Michael mio, o quell'altro in Conoscere una donna, o in Fima), di lettore onnivoro, squarci sul fidanzamento con parole e libri da lui stesso consapevolmente contratto in tenerissima età.

E poi, c'è il sionismo, e Israele, Gerusalemme. Una miscela di circostanze enormi - la madre ucraina Fania Mussman, il padre Yehudah Arieh Klausner in parte lituano, gli amici, le emozioni, i lutti, gli innamoramenti - e infinitesimali, su cui Oz usa la sua "visione" e quella speciale capacità di mettere a fuoco l'invisibile: come il modo di camminare che si poteva captare negli anni Quaranta (e forse ancor'oggi) a Tel Aviv, "piena di ebrei abbronzati che sapevano nuotare. A Gerusalemme chi mai sapeva nuotare? S'era mai sentito di ebrei nuotatori?", a Tel Aviv dove "si camminava in modo diverso: si flottava, saltellando, un po' come Neil Armstrong sulla luna"; mentre a Gerusalemme la gente si muoveva "come quando si arriva in ritardo a un concerto: prima si metteva un po' avanti una scarpa, e si tastava prudentemente il terreno. Poi, con la gamba ormai posata per terra, non si aveva troppo fretta di muoverla: dopo duemila anni calpestiamo nuovamente il suolo di Gerusalemme, e non siamo disposti ad abbandonarlo così precipitosamente".

Cuore del racconto, nonostante la varietà di toni con quel trillare continuo di una capinera che insiste con le prime cinque note di Per Elisa: Ti da da da da, è la tenebra. E il dolore. Come altro potrebbe essere per un uomo scrivere del suicidio della propria madre? Quella morte ha molto a che fare con la sofferenza di Israele. A Oz preme svelare il travaglio che diede la luce alla patria degli ebrei e al rapporto di questa con l'Europa: è suo padre a dargliene la chiave quando gli racconta che da bambino vedeva scritto su ogni muro d'Europa "giudei, andatevene a casa, in Palestina" e che, passati 50 anni, tornato per un viaggio in Europa, i muri gli urlavano addosso "ebrei, uscite dalla Palestina".

Questo senso dell'offesa di fronte al rifiuto dell'Europa è presente lungo tutta l'autobiografia. È un'accusa. Il concerto delle voci presenti, tante, innumerevoli, vecchi intellettuali nazionalisti, kibbutznik vigorosi, nonni galanti, intellettuali e accomodatori di bambole, zie amorose, maestre poetesse, ognuno con la propria circostanziata memoria o con le proprie novelle degne di Singer, raccontano una sola storia, che "il tempo in Europa era scaduto" e "c'era una terra cui presto saremmo dovuti andare", perché l'antisemitismo aveva schiacciato e umiliato gli ebrei per poi prepararsi a ucciderli, tutti.

Eppure questi ebrei l'amavano l'Europa. I genitori di Amos Oz, ad esempio, erano poliglotti, superpoliglotti: sua madre conosceva 7 lingue, il padre ne leggeva 16 e ne parlava 11; nella casa del quartiere Kerem Abraham, due stanze, un cucinino e un corridoio buio sommersi di libri, leggevano per lo più in tedesco ed inglese, e "certamente era l'yiddish ad abitare i loro sogni, la notte"; nella loro scala di valori "tutto ciò che era occidentale, stava culturalmente più in alto: Tolstoj e Dostoevskij erano in sintonia con la loro anima russa, tuttavia credo che - malgrado Hitler - considerassero la Germania più civile della Russia e della Polonia, e la Francia ancor più della Germania. L'Inghilterra era persino più su della Germania", "l'Europa era la loro terra promessa proibita".

I Klausner (questo il cognome originario di Oz che Amos, appena padrone del suo destino, cambiò - ma questo lo vedremo dopo) vivevano in mezzo a tolstojani di ogni tipo, i tolstojani d'aspetto, quelli vegetariani fanatici di cambiare il mondo pieni di fervore pacifista, quegli altri simili a personaggi dostoevskiani, "disgraziati, verbosi, soffocati dagli istinti, rovinati dagli ideali", cacciati da un mondo ormai lontano; per vestirsi eleganti, se potevano, tiravano fuori giacca e cravatta e un fazzoletto odoroso nel taschino.

Anche "la terra d'Israele" però era lontana, "da qualche parte, oltre le montagne, stava maturando una nuova razza di ebrei-eroi, di una specie abbronzata e robusta, taciturna e operosa, affatto diversa dall'ebreo diasporico, dagli abitanti di Kerem Abraham. Ragazzi e ragazze, pionieri, determinati e scuri di pelle, silenziosi, in confidenza col buio della notte. Che anche nelle faccende fra uomini e donne avevano spezzato ogni freno".

Nonno Alexander, zio Bezalel, zia Zipporah ne discutono con disappunto nei sabati passati insieme: ma a volte questi ragazzi e ragazze arrivavano "da oltre i monti di tenebra" sopra un autocarro di prodotti agricoli "vestiti di terra e di armi, scarponi ai piedi" come recitava una canzone, e Amos pensava che laggiù, tra i kibbutz, "si stava costruendo un paese e riformando il mondo", che "laggiù si aravano i campi" "laggiù stava fiorendo una società nuova" "laggiù si cavalcava i carri armati, si rispondeva col fuoco al fuoco arabo" e sognava "segretamente che un giorno o l'altro mi portassero via con loro. Che trasformassero anche me in un popolo combattente. Che anche la mia vita diventasse un canto nuovo, una vita pura, onesta e semplice come un bicchiere d'acqua fresca in una giornata afosa".

Niente paura. Non c'è retorica in Amos Oz. Quel che è detto è smontato mille volte e rimontato secondo nuovi incastri, magari dopo una battuta e un sorriso. Una società pura, nuova, non era solo il sogno di Amos. Era la certezza, la mèta degli ebrei in Palestina, racconta Oz: qualcuno la concepiva nei kibbutz, nel socialismo; altri in un unione di "Giudaismo e Umanesimo", come recitava un libro dello zio Yosef Klausner, gran "intellettuale nazionalista liberale illuminato", e inventore di moltissime parole nel nuovo ebraico moderno necessario al sionismo; lo zio, quel motto se l'era fatto scolpire in una targhetta sopra la porta di casa, una porta davanti a cui viveva il famoso scrittore Shemuel Joseph Agnon, incontrato da Amos Oz in varie occasioni (ma ci descrive anche certi momenti con Ben Gurion... o con Isaiah Berlin ed altri, piccoli e grandi). Le due visioni, socialista e nazionalista, insieme ad altre innumerevoli sfumature, erano in urto perenne, e Oz le mette in scena, vivaci, vitali, convincenti, oppure deliranti. Chi non ne sa, leggendolo avrà modo di farsene un'idea.

Accanto a tutto, la sconfitta della Shoah, i morti, e i sopravvissuti, parte di un passato a cui nessuno aveva voglia di guardare ma che tuttavia feriva, dilaniava la carne viva. (E gli arabi? gli arabi - sognavano ancora gli ebrei - avrebbero partecipato e goduto della modernità, dell'avanzamento sociale, della libertà che avrebbe toccato tutti, tutti).

Oz dipana questa realtà filo a filo. Siamo in Lituania e in Russia tra storie complicatissime e variopinte di nonni e bisnonni, tra i vicoli arabi di Gerusalemme a provar vestiti con zia Greta, a cercare bottiglie di vetro per fare molotov durante la guerra d'Indipendenza, allibiti e decisi e impauriti di fronte alle notizie degli ebrei uccisi dal rifiuto arabo; a mettere in fila le parole che hanno la stessa radice o gli scrittori che hanno qualcosa in comune; o mentre, bambino, Amos giuoca a fare lo stratega con qualsiasi cosa trovi a disposizione, forcine, scatolette, fagioli, oppure in mezzo alle discussioni dei grandi, tra letteratura e politica. Siamo lì, nel giorno della dichiarazione dello Stato di Israele, durante l'assedio a Gerusalemme.

Siamo nel suo letto quando l'adolescenza si fa viva, e quando la prima donna l'accoglierà. Siamo davanti al padre, uomo coltissimo ma modesto, arguto e generoso. Siamo soprattutto nella stanza con la madre, con lei e la sua bellezza, la sua cultura, le emicranie, le insonnie, i lievi motti di spirito, l'inappetenza. Le carezze.

La disperazione. Ma è inutile aspettarci una chiave chiara del suicidio: tutto concorre, la quotidianità, la povertà, il ricordo di un'infanzia "felice", sì ecco, forse la memoria dell'Europa e del suo tradimento, e il senso di spiazzamento rispetto ai desideri perfetti del primo sionismo. E poi la comunicazione, anche questa imperfetta, seppure affettuosa, con il marito.

Di chiaro c'è, subito dopo, il rifiuto di Oz, il suo disfarsi determinato, lui quattordicenne, della lugubre prosopopea degli ebrei carichi ancora di diaspora, così intrisi di nostalgia per l'Europa, di falsa e vana eleganza, di dolore. "Volevo che tutto smettesse. O quanto meno desideravo abbandonare per sempre casa e Gerusalemme e andare a vivere in kibbutz: lasciarmi alle spalle i libri e i sentimenti e avere una vita semplice, una vita di campagna, di fraternità e fatica fisica".

"Dopo la morte di mia madre, uccisi papà e uccisi tutta Gerusalemme, cambiai nome e andai da solo al kibbutz Hulda, a vivere lassù". Hulda fu la sua casa dal '54 all'85 e qui si è sposato con Nilli che "cantava sempre tra sé e sé": un matrimonio all'aperto, sotto una kuppah tenuta su dai forconi (come nella foto in alto, ma senza fucili).

Quando arrivò al kibbutz, a 15 anni, scrisse su un foglietto alcune decisioni cruciali che si impose come una sorta di esame in cui non poteva fallire, tra cui abbronzarsi entro due settimane, piantarla di blaterare tutto il giorno, di raccontare a tutti i fatti suoi e apparire invece come una persona molto taciturna. L'abbronzatura riuscì benissimo.
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Intervista tratta da l'Espresso 6 marzo 2003                      torna su

Sipur al Abava ve al Hoshekh  è la storia di un amore deluso, frustrato. I miei genitori, cosi come i miei nonni erano europei. Così si definivano. Erano fedeli all'Europa. Sfortunatamente a quei tempi nessuno definiva se stesso europeo. C'erano i patrioti italiani, o quelli ungheresi, il patriota pangermanico o panslavico. Gli unici europei in Europa, 75 anni fa, erano gli ebrei, come la mia famiglia.

Cosa intende dire?
Entrambi i miei genitori erano poliglotti. Mia madre conosceva sette lingue, mio padre ne leggeva l6 e ne parlava 11. Tutte con l'accento russo. Amavano l'Europa, la sua storia, il paesaggio, la cultura, l'architettura, la tradizione, l'arte e persino il clima. Ma l'Europa li ha definiti e bollati come cosmopoliti e parassiti. Questa era la terminologia usata sia dai nazisti sia dai comunisti. L'antisemitismo è una malattia mentale molto diffusa. L'Europa cacciò via i miei genitori. Per fortuna, devo dire. Altrimenti li avrebbe uccisi. Quando mio padre era un giovane ragazzo l'intera Europa era coperta da scritte che dicevano: "Ebrei andate in Palestina". Oggi l’Europa e coperta di scritte che dicono: "Ebrei fuori dalla Palestina".

La storia della sua famiglia è strettamente intrecciata con quella del sionismo...
Sì, semplicemente credevano che se gli ebrei non erano desiderati in nessun luogo, era tempo di andare a casa. E la casa era qui, nella terra d'Israele. Erano nazionalisti liberali. Pensavano di poter costruire la loro casa in armonia con la parte araba della popolazione. Era un'illusione completamente naif e ottimistica, ma essenzialmente, ripeto, era la storia di gente che amava l'Europa e fu costretta ad abbandonarla. Cercarono così di costruire una piccola copia dell'Europa nel cuore del Medio Oriente. È tragico e comico che una popolazione viva in una parte del mondo tentando di riprodurne un'altra.

In uno scambio di lettere con il premio Nobel giapponese Kenzaburo Oe lei ha scritto: "Un modo per superare la nostra pazzia è la capacità di ridere, l'umorismo."
È anche il leit-motiv del mio libro. L'humour è relativismo, la possibilità di vedere gli altri, e non solo se stessi. È la capacità di adottate altri punti di vista e assumere le due parti del conflitto. L'umorismo è il vaccino per il fanatismo, per il fondamentalismo. L'uomo che può ridere di se stesso non è fanatico. Non ho ai visto un fanatico con il senso dell'umorismo. E non ho mai visto una persona con senso dell'umorismo diventare fanatico. Il mio libro è una tragicommedia, perché ogni evento, ogni personaggio, è rappresentato da molti punti di vista, così da renderlo tragico e divertente.

A proposito di fondamentalismo, fenomeno che si sta diffondendo. Come siamo arrivati fino a questo punto?
"Perché i punti nodali del conflitto israelo-palestinese sono diventati sempre più complessi e molta gente cerca risposte semplificatorie. Risposte di cinque parole, slogan. Il fondamentalismo propone sempre una risposta sola a tutti i problemi del mondo. Una piccola formula e ogni cosa è sistemata. Ma, attenzione, il fanatismo non è solo fuori di noi, è dentro ognuno di noi. È utile quindi riconoscere il piccolo fanatico dentro di noi e confrontarcisi con l'umorismo. Vede, io non credo in un Messia o in una redenzione. Ma se ci credessi, direi che il Messia verrebbe ridendo e raccontando storielle divertenti.

In molti suoi scritti accusa gli intellettuali europei di semplificazione...
Sono critico verso chi pensa che ogni cosa sia un melodramma hollywoodiano con i buoni e i cattivi. La vita non è così semplice. Molto raramente il mondo è in bianco e nero. Certo può capitare. Spesso in Europa la gente è critica verso la cultura americana, e la sua semplificazione vede il mondo con gli stessi codici hollywoodiani, ma alla rovescia. Pensano che tutto quello che ha a che fare con il Terzo mondo sia buono, mentre l’Occidente è corrotto e diabolico. Ho alcuni amici in Europa che sostengono che Saddam Hussein è un caro amico di Muammar Gheddafi e lui è un buon amico di Fidel Castro. Fidel, a sua volta, era innamorato del Che. E il Che era Gesù. Gesù è amore. Ecco perché, in conclusione, noi amiamo Saddam. Io critico tutto ciò, anche se sono contrario alla guerra in Iraq. Ma essere contro la guerra non significa amare Saddam.

E in Israele dopo la vittoria elettorale di Sharon?
Il futuro dipende in larga misura da cosa accadrà nel mondo arabo e tra i palestinesi. Se imboccano una direzione più fondamentalista, allora sarà conflitto. Se prevarranno atteggiamenti pragmatici crescerà la possibilità del compromesso e del processo di pace. C'è un detto arabo che dice: non puoi applaudire con una mano sola. Quando mi chiedono se sostengo palestinesi la risposta è: sostenerli in cosa, in quale delle due guerre che stanno portando avanti, nella rivendicazione ad avere uno Stato o negare lo stesso diritto agli israeliani? Qualunque persona decente deve sostenere la prima, ma allo stesso modo una persona decente deve negare la seconda.

Perché, secondo lei, il conflitto israelo-palestinese occupa le prime pagine dei giornali che spesso ignorano altri conflitti altrettanto drammatici e dolorosi?
Questa è una domanda fondamentale per la coscienza dell'Europa e che l'Europa deve porre a se stessa. C’è una fascinazione particolare e oscura con qualsiasi cosa abbia a che fare con il popolo e il destino ebraico. C’è bisogno di una spiegazione socio-psichiatrica. Ne parlo nel mio libro.

E cosa dice?
Che c'è un cliché molto comune legato al sotterraneo odio di colpa europeo verso gli ebrei. Molte critiche che vengono fatte a Israele sono legittime. Ma l'argomentazione spesso ha un odore strano: tu che hai sofferto così tanto, tu che sei passato attraverso l’Olocausto, ora ti devi comportare come un angelo. Strano soprattutto se la stessa gente dice: "Siccome i palestinesi hanno sofferto tanto, non possono certamente comportarsi da angeli, la violenza è l’unica risposta". È un affronto al buon senso, ed è ipocrisia."

Dice che c'è dell'antisemitismo nel morboso interesse per ebrei e Israele?
Non sto parlando di antisemitismo, termine abusato, ma direi che spesso ci sono delle attese non realistiche nei confronti degli ebrei. Se non vogliono essere considerati come diavoli devono comportarsi come angeli. Questa è una posizione emotiva e non razionale.

Dopo l'11 settembre c'è stato un lungo dibattito che dura ancora sulla possibilità di coabitazione tra Islam e democrazia.
Non sono un esperto di Islam, ma credo che non ci sia contraddizione tra Islam e democrazia. C'è tensione non contraddizione. Ma poi, c'è anche una tensione tra cristianesimo e democrazia, o tra giudaismo e democrazia. Credo quindi che ci possa essere una combinazione di Islam e democrazia.

Insomma, un Islam pluralista?
Credo profondamente nella varietà delle risposte. Le diverse interpretazioni sono una benedizione per la religione, per la cultura, persino per la vita famigliare, una buona formula per vivere, Questo porta a quello di cui parlavo prima, sul senso dell’umorismo. Nel momento in cui impari a vivere con una varietà di interpretazioni puoi sorridere invece di arrabbiarti.

Torniamo al libro e alla sua famiglia. Racconta che sua nonna diceva sul silenzio: "Non sono in silenzio, semplicemente non parlo". Cos'è per lei il silenzio?
Vivo nel deserto, ad Arad, una piccola cittadina. Mi basta fare pochi passi e sono circondato dal deserto. Il silenzio per me è molto importante. Mi ricorda ogni giorno da dove provengo, e dove vado. Mi ricorda che tutta la mia esistenza è un breve intervallo, tra un silenzio e il successivo. Mi ricorda quanto prezioso sia ogni suono e mi ricorda di non sciuparli con i rumori che faccio. Mi ricorda che essere consapevole di un suono, di un pezzo di musica è un gran piacere perché è circondato non solo dal deserto, ma da un universo di silenzio. Il silenzio è prima e dopo la vita umana. Persino quando sussurriamo, rompiamo il silenzio. Nella lingua ebraica si distingue tra due parole "sheket" e "shtikah". Tra parlare piano e tenere la bocca chiusa. E poi una terza parola indica il silenzio profondo.


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