Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/06/2009, a pag. 17, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Restituisce allo Yad Vashem il tesoro nascosto per 60 anni ".
La parola "tesoro" usata nel titolo è esagerata...che tesoro possono essere un paio di orologi e qualche spilla? Gli ebrei, prima di venire smistati nei lager, furono spogliati di tutti i loro averi. Questi pochi oggetti ritrovati non potevano di certo costituire un tesoro. Il pezzo di Battistini è degno di lode. Ecco l'articolo:
I gioielli conservati per 60 anni da Meyer Hack, che nel titolo diventa "tesoro"
GERUSALEMME — Dimentica, Meyer. Dimentica d’essere entrato nelle camere del Zyklon B e d’aver visto «anche una bambina nuda, una volta, ed era attaccata al seno di sua mamma nuda: erano gassate tutt’e due, avevano gli occhi vuoti ». No, Meyer, non dimenticare nulla: il tuo giorno della memoria è una nottata che non passa mai, conserva tutto perché non c’è photoshop che possa sbiadire quelle immagini stampate in testa. «Ho vissuto più di sessant’anni senza sapere se fosse meglio ricordare o resettare tutto» dice Meyer Hack. E non sapendo bene che cosa fare, lui che aveva visto prima Auschwitz e poi Dachau, ha sempre creduto che il sistema migliore fosse quello della scatola di ferro: «Ho preso il piccolo tesoro che ero riuscito a salvare, da quei poveracci, e non l’ho mai più voluto vedere né toccare. L’ho chiuso in questa cassetta. E la cassetta l’ho nascosta in un posto che sapevo solo io. È rimasto tutto lì. Ho aspettato che arrivasse il momento giusto per tirare fuori la scatola. E donarla al Museo dell’Olocausto. Questo è il momento ».
È il piccolo tesoro dei morti di Auschwitz. Diamanti, orologi, catenine, anelli, orecchini, portasoldi. L’oro dell’Olocausto. Pezzi di vita strappati al camino e che nemmeno Ahmadinejad potrebbe negare, guardandoli. Non valgono granché, al fixing. Però Meyer Hack s’è messo la cravatta, per mostrarli al direttore dello Yad Vashem di Gerusalemme e li ha poggiati su portagioie di velluto rosso. Come si fa per le cose d’un prezzo inestimabile. D’un costo immenso.
Meyer oggi vive a Boston ed è un lucido signore di 95 anni, cardiologo in pensione, ebreo polacco. Quando finì ad Auschwitz e perse mamma e tre fratelli, se la cavò perché s’era inventato d’essere un sarto. Assegnato al più fortunato e tremendo dei lavori possibili, là dentro: spogliare i morituri, dividere le stoffe, farne coperte o chissà che altro. «Molti nascondevano nelle fodere i gioielli, le cose preziose. Ma quelle non volevo consegnarle ai nazisti: le nascondevo nei calzini, sotto i mattoni. Magari un giorno avrei potuto ridarle ai parenti». Meyer accumulò. Nascose. E riuscì a portare il piccolo tesoro anche nel secondo lager, Dachau, dove fu deportato prima che arrivassero i sovietici. Salvato, riemerso, per qualche anno ci ha provato: «Volevo trovare qualcuno cui ridare quella roba. Ma era impossibile. E ogni volta che l’avevo per le mani, stavo male per giorni». Meglio chiudere, allora, chiave e mettere via: «Anna Frank ha scritto un diario. Io mi sono tenuto tutto nel cuore. Per sessant’anni non ho voluto vedere più nulla».
A Yad Vashem ci sono più di ventimila oggetti della Shoah, recuperati dai campi di tutt’Europa. Ma l’oro, le pietre, i preziosi sono una rarità. «Ogni tanto ci segnalano qualche gioiello 'sospetto' battuto alle aste internazionali — dice Yehudit Shenhav, curatore del museo — ma senza foto o solide testimonianze è difficile provare la provenienza. Questo vale per le cose rubate nei rastrellamenti. È un caso unico, che ricordi del genere siano usciti addirittura da Auschwitz ». Tre anni fa, Meyer ha visto il sito del museo. Ha pensato all’età, ripensato a quella scatola di ferro che stava là. E ne ha parlato con gli amici migliori. Un rabbino che ha la metà dei suoi anni e l’ha accompagnato a Gerusalemme. E poi Steven Spielberg, il regista: «Esci e racconta al mondo questa storia» gli ha suggerito l’uomo della Schindler’s List. Il vecchio cardiologo l’ha fatto: «Avevo bisogno di dare un posto definitivo a questi ricordi. Prima di darne uno al mio corpo».
Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, cliccare sull'e-mail sottostante