Il mio amato Yehoshua Bar-Yosef Traduzione di Antonio Di Gesù Giuntina Euro 12,00
“Per tutta la vita ho scritto per guadagnarmi da vivere. Faccio lo scriba da trentadue anni, cioè dall’età di quindici. Con la mia penna veloce ricopio mezuzot e pergamene da inserire nei tefillin e le vendo agli esportatori che mandano i miei prodotti negli Stati Uniti. Mi mantengo dignitosamente e con buoni guadagni…” Con queste parole si apre il bellissimo romanzo di Yehoshua Bar-Yosef e il protagonista e voce narrante si presenta al lettore italiano che viene subito introdotto nell’universo claustrofobico di Meah Shearim, il quartiere ortodosso di Gerusalemme. Yehoshua Bar-Yosef che è nato a Safed e cresciuto in una famiglia ultra-ortodossa conosce molto bene l’ambiente socio culturale che descrive nel suo romanzo. Come Asher Harper, il protagonista de “il mio amato”, Bar-Yosef ha studiato in una yeshivà, prendendo successivamente le distanze dallo stile di vita religioso, una rottura che si riflette anche nella sua scrittura. Ha lavorato come giornalista free lance fino al 1980, ha scritto numerosi racconti e romanzi oltre ad una storia di Safed, ricevendo nel 1984 il prestigioso premio Bialik. “Il mio amato” è in realtà un lungo monologo tramite il quale la storia si delinea in un contesto familiare e culturale caratterizzato da una rigida ortodossia alla quale “Asherke” contrappone la sua sensibilità e intelligenza di uomo colto e introverso oltre ad una libertà di giudizio che lo porta negli anni ad abbandonare la fede in Dio. Consapevole di questo, Asher non fugge perché non saprebbe dove andare e ritiene che valga “la pena di rimanere al mio posto e vincere la ripugnanza per la menzogna”. Attraverso il racconto del protagonista il lettore entra in un mondo chiuso e afasico e fa conoscenza con personaggi la cui religiosità a volte confina con il fanatismo, uomini e donne che paiono vivere fuori del tempo nel modo di vestirsi, di parlare e di affrontare una quotidianità i cui confini sono dettati in modo rigido dalla religione:Feyvish Sofer, il suocero, “considerato uno dei notabili della Gerusalemme religiosa, sia per ascendenza sia per le proprie virtù” che non approva ma tollera le uscite del genero a teatro o al cinema, Reyzel, la moglie, una bella donna che somiglia alla madre Zirel nella devozione e nella purezza, pur non avendo messo al mondo tanti figli per volere dello stesso Asher (“Reyzel mi si è sottomessa con tutto il cuore e io gliene sono grato”), Rivkah e Aharon David i figli, giovani devoti e religiosi nei confronti dei quali Asher avverte solo estraneità e indifferenza sebbene abbia permesso loro di costruirsi una vita dignitosa e feconda. Attorno alla famiglia ruotano personaggi minori come i cognati e i nipoti e gli amici, il professor Nechilay e il professor Bitan con i quali gioca saltuariamente a scacchi, un’attività considerata un’eresia dall’ambiente ortodosso in cui vive. Asher è però un uomo inquieto, la cui anima è costantemente pervasa da un desiderio di fuga, un anelito alla libertà che lo fa sentire come un “lebbroso che cela la sua malattia”. Uno stato d’animo che lo scrittore riesce a delineare con grande maestria forse perché lui stesso ha vissuto una realtà di profonda costrizione nel suo ambiente sebbene abbia trovato la forza di allontanarsene. E’ nel prosieguo del racconto che si svela al lettore la ragione dell’ infelicità che si annida nel cuore del protagonista; pagina dopo pagina Asher prende coscienza con profonda sofferenza della sua attrazione per il corpo del giovane cognato Channa che il suocero gli affida affinché lo educhi nell’arte della scrittura. Asher è consapevole che l’omosessualità rappresenta un abominio per l’ebraismo (“una delle più gravi trasgressioni della Torah”) e che se questa attrazione per il proprio sesso venisse allo scoperto sarebbe isolato dal suo ambiente familiare e sociale. Eppure alberga nel suo animo una sorta di esaltazione, di gioia intensa, “un piacere sfrenato per aver scoperto simili sorgenti segrete” che lo porta da un lato a sublimare i sentimenti che prova nei confronti del giovane parente e dall’altro a cercare uno sbocco al suo desiderio guardando e seguendo i giovanetti per le strade di Gerusalemme, senza mai consentire all’istinto di prendere il sopravvento. L’incontro lungo la spiaggia di Tel Aviv con un vecchio professore che cerca la compagnia di ragazzi e per questo subisce ogni sorta di umiliazione lo mette a contatto con un mondo brutale e spregevole dove non esiste l’ombra di un sentimento umano e la solitudine annienta gli animi. Una solitudine tremenda che pervade anche il suo spirito mentre si allontana dalla spiaggia e da quel “mondo estraneo, da cui ero attratto involontariamente e che mi riempiva totalmente di ribrezzo” per tornare alla sua comunità della quale è parte integrante, nonostante le ipocrisie e le menzogne. L’unico privilegio che lo differenzia e lo eleva dal suo ambiente claustrofobico è “il frutto dell’immaginario albero della conoscenza”, il sapere che ha acquisito tramite quei libri che ora maledice perché gli impediscono di credere nel Dio che potrebbe salvarlo, ma che gli hanno consentito di aggirare i divieti e superare le barriere che una concezione rigida della religione gli aveva costruito attorno. “Il mio amato” è un romanzo bellissimo che si legge d’un fiato e che si desidera ricominciare per assaporarne ancora la poesia e la suggestione di uno stile narrativo che rivela la straordinaria capacità dello scrittore di sondare con grande lucidità le pieghe più recondite dell’animo umano. “Leggerlo, è come entrare in un roseto per sentirne il profumo. Ne esci pieno di graffi ma con il piacere di averlo odorato” (I.G.)