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La Repubblica Rassegna Stampa
14.06.2009 Ebrei in Siria
Secondo i 'dialoganti' di Repubblica vivono bene e saranno un ponte per la pace con Israele

Testata: La Repubblica
Data: 14 giugno 2009
Pagina: 44
Autore: Alix Van Buren
Titolo: «Il ritorno degli ebrei di Damasco»

Riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/06/2009, a pag. 44, l'articolo di Alix Van Buren dal titolo " Il ritorno degli ebrei di Damasco ".
La linea buonista di REPUBBLICA non viene smentita dall'articolo di Alix Van Buren, la quale rifila ai lettori una bufala colossale: quella di una comunità ebraica che vive serenamente in Siria.
Ecco l'articolo:

A ll´ombra di un pergolato nella città vecchia di Damasco, sul lato di una corte araba rinfrescata da una fontana d´acqua zampillante, si apre la sinagoga di Shaara al Amin, la Via del Giusto. È sabato mattina e c´è un gran daffare. La preghiera dello Sabbath si è appena conclusa e lo shamash, il custode Yosef, è tutto infervorato in cima a una scala nel riporre gli addobbi rimasti dallo Shavuot, la Pentecoste, la festa della mietitura.
Quest´anno non si è badato a spese: alto e smilzo come un ago, Yosef s´aggroviglia fra metri di festoni argentati, spighe di grano, drappi in velluto ricamati col Magen David, la stella di David. Dal basso il khakham Albert Qaméo, il rabbino capo della comunità ebraica siriana, gli imprime un senso d´urgenza. Infatti quest´anno, il 5769 del calendario ebraico, reca una lieta novella: il ritorno a Damasco di un buon numero di famiglie espatriate. L´antico quartiere dei musawi, i seguaci di Mosè, l´appellativo in arabo degli ebrei siriani, più o meno disertato da decenni, rinasce. Si restaurano palazzi in rovina, s´inaugurano gallerie d´arte e alberghi di charme ricavati da vecchie case.
Già si sono viste, calcola il khakham Albert, tre delegazioni di rabbini - da Brooklyn, da Parigi, dall´Italia - «in visita alle scuole talmudiche della capitale e di Aleppo». Sono rientrate casate importanti per festeggiare il Rosh HaShanàh, l´anno nuovo. E stavolta, lui si rallegra, s´è davvero cantato e ballato per la Simkhat Torah. Nella sinagoga s´è riascoltato il suono dei pizmonim, gli inni ispirati alle melodie dei maqamat, ottave composte in base alla scala araba, microtonale. Ma adesso, dice concitato il rabbino, dietro l´angolo incalzano altre feste. Già si preparano allegre tavolate di frittelle, di pasticcini ma´amul ripieni di pistacchi e datteri, di knaffeh bagnati con l´acqua di rose: «Il profumo delle radici ebraiche mediorientali», fa ispirato il khakham.
Quante cose sono successe in Shaara al Amin, da due anni a questa parte. Una vera rivoluzione per monsieur Albert (il suo nome proprio è Albir, ma le sorelle Rahil e Bella, sempre al suo fianco, lo chiamano Albert, alla francese). Dirimpetto alla sinagoga ha aperto i battenti il "Talisman", un albergo-boutique. Nella casa d´angolo sulla destra s´è insediato lo scultore Ali Mustafa, avendo conquistato discreta fama a Parigi e New York. E il sabato, nel tempio, s´affacciano genti forestiere: ebrei occidentali impiegati nei settori in espansione dell´economia, o figli di illustri famiglie che «da un po´», dice il rabbino, «vengono a studiare l´arabo, la lingua dei mizrahi, gli israeliti orientali. Altri l´ebraico, oggi insegnato all´università».
I capelli argentati, l´espressione mite e sempre assorta, il khakham Albert sospinge l´uscio risplendente in rame della sinagoga: «Osservi bene, questa è l´arte degli ebrei damasceni». Sui due battenti il cesellatore ha captato nei suoi disegni spighe di grano, tralci di vite, alberi, candele che pare fiammeggino sotto i simboli delle feste religiose: la luna di Rosh HaShanàh, la bilancia di Yom Kippur, le tavole della legge di Shavuot.
All´interno, nella navata in penombra, il colpo d´occhio è quello delle antiche comunità orientali, osservanti dell´ortodossia, anche per la contiguità storica e religiosa con Gerusalemme. I marmi in stile omayyade rosa e avorio; il minbar, la piattaforma del lettore, posta al centro della sinagoga; i sefarim torah, i rotoli manoscritti del Pentateuco, in contenitori di rame incrostati d´argento; l´uso di recitare ogni giorno la birkat kohanim, la benedizione sacerdotale dei primordi biblici: tutto, qui, racconta l´alba dell´ebraismo.
«Una comunità vecchia quanto Damasco», sostiene il rabbino, il che vuol dire millenni di storia. «Dai tempi di Mosè», interviene la sorella Rahil, occhi celesti dentro una faccia luminosa alla Leah Rabin. Certo è che la sinagoga del profeta Elia, fuori città, risale al Settimo secolo avanti Cristo. E san Paolo era in viaggio verso queste sinagoghe già duemila anni fa.
Seguendo il respiro della storia, il microcosmo dei musawi s´è di volta in volta dilatato e contratto. Fu centro di grande sapere, fra il Cinque e il Seicento, col rabbino mistico Hayim Vital. Custodiva il Codice di Aleppo, il più antico manoscritto della Bibbia completo di punteggiatura e vocali. S´ingrossò con l´arrivo dei sefarditi dall´Andalusia. E sotto i califfi e gli Ottomani tutto sommato, dice Albert, «la comunità prosperava».
Per avere un saggio di tanta ricchezza basta affacciarsi alla soglia di Beit Farhi: seimila metri quadrati di meraviglie rinascono sotto il tocco esperto dei restauratori. Era il palazzo di Haim Farhi, ministro delle finanze ottomano. «Una famiglia ricchissima, più dello Stato», s´impettisce Rahil. Emigrati a Londra, hanno venduto la casa a un mercante musulmano. Entro un anno, dicono gli attuali proprietari, l´architetto Roukbi e l´arredatrice olandese Dyksmo, «questo sarà un grand hotel, il "Pasha Palace"». Fra impalcature e detriti riprendono colore i paesaggi in miniatura disegnati sulle imposte, i giardini di arabeschi su pareti e soffitti, i pannelli con scritte benedicenti in ebraico.
A mezz´ora di cammino, l´anziano Abu Mahmud custodisce il cimitero ebraico. Giungono echi di leggende sopravvissute all´ombra di fichi e di mimose. File di tombe linde e ordinate conservano incisi i nomi in ebraico e in arabo del sarto Azra Gada; del professore Yatche, che introdusse il sistema metrico; del cesellatore Nasswa, col simbolo dello scalpello. Una colonna liberty sembra applaudire "Madame", la diva-ballerina Maryam Maknou. Sopra tutti, troneggia il sepolcro del «mago rabbino» Vital: «Chieda una grazia», ripete Rahil mentre posa sassolini sul tumulo del santo. Quanti fossero i musawi in passato, è difficile stabilirlo: c´è chi parla di centomila, chi di sessantamila. «Non sono molti, ma hanno grande influenza e enormi ricchezze», scriveva nel 1855 il pastore presbiteriano Josias Porter.
Le ondate migratorie, a volte fughe, Albert le fa iniziare da lontano: dalla rivoluzione industriale venuta a spodestare i signori della seta; dalla leva militare introdotta dai Giovani Turchi; dalle tasse del mandato francese. I più ricchi scelsero le Americhe. Poi le scosse del 1947, la partizione della Palestina, il rogo della sinagoga di Aleppo nei tumulti anti-sionisti. Altri salparono. Con Nasser e l´infausta unione fra Siria e Egitto comparvero le brutte stigmate del musawi sui documenti, il divieto di commerciare, il coprifuoco. Finalmente, le prime aperture di Hafez al-Assad nel 1974, e nel 1992 il via libera per intercessione americana. «Si sparsero fra Brooklyn, America Latina, Londra, Israele». Oggi si calcolano appena 150-200 anime rimaste a presidiare i beni della comunità. «L´ultimo bar mitzvah è stato nel 2000».
Se si domanda ai Qaméo perché siano rimasti, Rahil non si fa pregare. L´idea che la contentezza, il quieto vivere e la nazione coincidano è una convinzione, dice, rafforzatasi alla vista degli espatriati. Non rimpiangono forse, racconta, la dolce vita di Damasco? Gli orari comodi, i giochi la sera con gli amici? La maggioranza «va e viene: chi per vendere, chi per restaurare e affittare, altri per rimanere. Con la notevole eccezione di chi è in Israele: le loro proprietà sono conservate dallo Stato». I più aspettano la pace: «Da cinquant´anni», conclude Albert. Nel congedarsi il rabbino confida una speranza: che gli ebrei siriani possano far da ponte con Israele nei colloqui di pace, «quando avverrà il tanto atteso primo incontro. Ma quando avverrà?», sospira. «Chissà...».

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