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L'Opinione Rassegna Stampa
11.06.2009 Gheddafi in visita a Roma. Commentiamo con le parole di Herbert Pagani
La cronaca di Dimitri Buffa

Testata: L'Opinione
Data: 11 giugno 2009
Pagina: 6
Autore: Dimitri Buffa
Titolo: «Un tripolitano a Roma: Gheddafi spacca l'Italia e umilia le istituzioni»

Gheddafi in visita a Roma: i quotidiani di oggi dedicano parecchie pagine all'avvenimento. Dalla sua guardia del corpo, composta di sole donne, alla spaccatura interna al PD sul fatto di permettergli o meno l'accesso al Senato, alle diverse analisi sull'importanza o meno della sua visita. Rimandiamo alle cronache dei quotidiani.
A noi interessano le dichiarazioni sul terrorismo che, a suo avviso, "andrebbe compreso". E' un'affermazione che non ci stupisce, visto che è uscita dalla bocca di un esperto al riguardo: tutti ricordiamo l'abbattimento di due aerei con centinaia di passeggeri a bordo e i due missili lanciati contro Lampedusa. Dopo la "lettera" di Herbert Pagani, dall'OPINIONE l'articolo di Dimitri Buffa.

La risposta di IC alle arroganti dichiarazioni di Gheddafi, è la lettera che  Herbert Pagani  gli dedicò nel 1987,dal titolo" lettera al colonnello " , è un peccato non sentirla leggere dalla voce di Herbert Pagani, che ricordiamo con affetto e rimpianto:

Lettera aperta al Colonnello Gheddafi letta a New York in occasione del 10' Convegno Intemazionale degli Ebrei di Libia

Ci sono paesi disamati dalla storia. Incapaci di offrire ai loro popoli, contro un misero presente, la consolazione di un glorioso passato. Incapaci perfino di trarre profitto dalle loro disgrazie, di trasformare gli oltraggi subiti in leggende esportabili. Paesi che, privi di un fiume per benedire le loro terre, di un eroe per difenderle, di un poeta per cantarle, sono affetti da anonimato cronico.

li paese in cui son nato è fra questi. Prima che il suo nome fosse propulso nel cielo dei media, dai capricci congiunti del petrolio e di un tiranno, quest'immenso territorio non è stato, per 2.000 anni, che una fabbrica di dune. Uno zero, un'amnesia, un sacco di sabbia sventrato e disperso su 1.759.000 chilometri quadrati di mancanza d'ispirazione del Creatore, una sala d'aspetto immemorabile dove non ha mai degnato fermarsi il treno di un'epopea, un vuoto, soffocante e torrido che separava, come una punizione, l'Egitto della Tunisia. Oggi ancora, benché l'afflusso di petrodollari gli abbia permesso di passare dall'oscurità all'oscurantismo, questo paese resta, agli occhi del mondo, l'anticamera delle Piramidi, il retrobottega dei gelsomini. Culturalmente parlando: il parente povero dell'IsLam.

Il Colonnello lo sa. Anzi ne è così conscio che dopo aver importato i migliori architetti d'Occidente per tracciare audaci prospettive in questo gigantesco piatto di couscous spazzato dai venti e centinaia di artigiani dall'Oriente per ornarne i volumi ancora freschi di bassorilievi, rosoni, mosaici e vetrate - ha tentato di appropriarsi della storia dei suoi vicini, con proposte di matrimonio di un'insistenza patetica, generalmente rifiutate, o seguite da immediati divorzi.

Arrenditi all'evidenza, Colonnello. Né la tua bella faccia da antagonista, né il pennacchio dei tuoi pozzi, né le scie dei tuoi "mirage" in cieli non tuoi, né il tuo vivaio di terroristi riescono a trattenere a lungo l'attenzione del nostro mondo distratto. Una forza centrifuga maledetta fa svaporare il beneficio dei tuoi misfatti, come l'acqua dei tuoi "ovadi", impedendo alla tua periferia di trasformarsi in centro. Malgrado i tuoi sforzi, questo paese resta senza viso, come i tuoi sicari, e senza voce, come in passato.

A volte, quando il tuo sorriso gallonato mi sorprende, appeso ad un'edicola, mi congratulo con te, da lontano, per aver saputo una volta ancora risorgere dal sabbioso oblio al quale ti condanna il destino. E, forse per smussare il tuo perforante sguardo, o l'interminabile diga dei tuoi denti, mentre mi compro con 2.000 lire la tua testa da adulto, ti immagino bambino, sì, m'invento nostalgie da fratello maggiore e ti vedo, lupacchiotto di quattordici anni, disteso, la sera nella tua stanzetta, con l'orecchio al transistor, che ascolti esaltato la voce di Nasser, il cui carisma saturato ti arrivava dal Cairo, e ti sento esclamare, fra due incitazioni del Rais alla guerra santa "anch'io, un giorno, come lui!"

Il tuo sogno: aggiungere un nuovo capitolo, a tuo nome, nel Grande Libro dell'Islam. Ma Allah è grande, caro cugino, e nella sua immensa saggezza, deve aver deciso che era meglio riservare al tuo paese, che fu un tempo il mio, il ruolo esaltante di "antiporta", cioè la pagina bianca che precede il testo, e che tale resta, se una dedica non viene ad abitarla

L'unico inconveniente è che tutte le popolazioni che vi hanno vissuto, nei secoli, hanno subito lo stesso destino di "cancellazione". Cominciando dalle minoranze etniche o religiose, berbere, cristiane ed ebraiche, che chiamaste "dhimmi", cioè cittadini "protetti". Delicato eufemismo per dire ostaggi in attesa di conversione Essere l'oppresso di un potente offre a volte vantaggi culturali: catene d'oro, tempo per piangere, ecc Essere l'oppresso di un oppresso, nessuno. Ebrei di un paese senza luce, fummo gli ebrei più spenti del Mediterraneo.

Privi di quel prestigio di riflesso di cui godono, di solito, i domestici dei grandi Principi, e di cui godettero, almeno una volta durante il loro esilio, tutte le altre comunità. La nostra storia fu così negata, sepolta, per tanti secoli, che senza il libro dello storico Renzo De Felice, Ebrei in un paese arabo, un libro splendido, voluto con tenacia quasi mistica da un fratello della nostra comunità, di questa non resterebbe più, oggi, traccia, né, domani, ricordo. Infatti, dopo aver assaggiato come tutte le consorelle un menù di umiliazioni di una varietà squisita: massacro alla romana, alla mussulmana, alla spagnola, segregazione alla maltese, all'ottomana, leggi raziali nazi-fasciste, e per finire, pogrom post-bellici, compiuti dai nostri fratelli arabi sotto l'occhio dei nostri tanto attesi liberatori britannici, la mia comunità fu pregata di lasciare il paese l'indomani della Guerra dei sei giorni, meno i suoi morti, trattenuti per portare il loro contributo alla Rivoluzione, mediante ossa e lapidi le quali, debitamente frantumate dai bulldozer, sono servite da base a un'importantissima autostrada costruita d'urgenza per collegare il nulla al nulla, e a due giganteschi alberghi per un turismo tuttora inesistente. Così, io, Ebreo senza più radici né memoria, ho aperto il libro ed ho scoperto

che la nostra presenza in Libia risaliva a più di 2.170 anni;
che precedeva quindi non solo l'invasione araba, ma anche quella romana;
che, bellicosi e fedeli al nostro Dio, contro l'esercito romano ci eravamo sollevati, appena avuta notizia della caduta del tempio di Gerusalemme;
che quella sommossa ci era valsa decine di migliaia di vittime, ma anche una lapide in latino che riferisce il fatto, e senza la quale non sapremmo che fummo una così antica e coraggiosa comunità
Ma questa è storia, dicevo girando le pagine, storia che fonda la mia legittimità, ma non basta, io voglio di più, io... io non sapevo cosa volessi, ma lo trovai. A pagina 41.

Un censimento della popolazione ebraica di Tripoli.

Il primo della nostra storia. Effettuato da Giuseppe

Toledano, capo della comunità, nel 1861, e

miracolosamente scampato ai falò del Colonnello.

E cominciarono a sfilare sotto i miei occhi, debitamente

numerati:

I Rabbino capo
17 Rabbini
11 Studenti, e poi tornitori, droghieri, tavernieri,
sterratori, sarti, macellai, scrivani, chiromanti, levatrici,

facchini, donne e bambine, malati e mendicanti, in tutto:

4.500 abitanti.

Che il professar De Felice sia ringraziato per questo documento. Avevo finalmente sotto gli occhi la prova, inconfutabile che gente del mio sangue era effettivamente vissuta, lì, fra le dune e il mare, colmando, di generazione in generazione, la mitica voragine che separava nostro padre Abramo da mio nonno, Abramo anche lui. Certo non erano i poeti matematici filosofi e medici che fiorivano i giardini della Spagna mussulmana, e curavano i mal di testa dei califfi illuminati, ma era pur sempre la mia famiglia, o perlomeno il perimetro sociale entro il quale senza dubbio alcuno, si era mossa. Mi misi dunque a trascrivere questa lista a mano, sicuro che uno dei miei sarebbe passato, presto o tardi, sotto la mia penna. E questo modesto rito bastò a far si che il vapore dei ricordi si condensasse dietro ai miei occhiali, che si mettesse a piovere, a distanza, su quella striscia di asfalto dove i miei morti giacevano prigionieri, che questa scoppiasse, che un albero ne uscisse, coronato di foglie, popolato di uccelli.

Il mio albero genealogico, per approssimazione.

Chi potrà più dire l'odore delle pelli e la loro lucentezza, ai tempi in cui il sapone si chiamava olio di mandorle? La magrezza indiana dei bambini, il carbone dei loro sguardi, quel modo così arabo di essere ebrei che avevano gli ebrei di Trablous Donne prosperose o gracili, vestite di sete rigate, cangianti, la vita cinta in quadroni d'argento, le teste avvolte nei foulards i quali, scivolando cento volte al giorno sulle loro spalle, scoprivano capigliature corvine o rosso hanna, e ondulate come il mare visto dai terrazzi Odore di cammun, di felfel, di atar e gelsomino, fiori e febbri, spezie e sudori, correnti d'aria fritta o di orina nei cortiletti di quel dedalo scalcinato che era la Hara, il nostro ghetto E i turbini di mosche intorno agli occhi degli asini fatalisti, la polvere di loukhoum sul naso dei bambini buoni, e i capretti appesi nei giorni di mercato, le montagne di cipolle viola, di datteri lucenti, di peperoni dai colori fluorescenti; e i polli che venivano comprati vivi, e portati via tenuti dalle zampe, come mazzi di fiori, per essere uccisi in casa, secondo le regole, in fondo ai giardinetti miseri, - due gerani, un ramoscello di menta, un oleandro, la cui acida linfa, ad ogni fiore colto, vi si attaccava alle dita

Chi potrà più raccontare la severità, la misericordia, dei nostri vecchi barbuti, in turbante, Fez, Bertila o Arrakyia, secondo l'epoca, dottori della legge dalle mani nodose, dalle unghie di corno, dalla pelle scavata dal tempo, ceppi della fede giudaica ancorati, loro malgrado, in questa terra tanto più amata e tanto più esiliante che somigliava troppo alla patria perduta: come una lacrima a una goccia di pioggia

Divina monotonia del cielo azzurro; stesse palme trionfali cariche di munizioni d'oro, stessi tramonti rapidi, che insanguinavano di sole morente i talleth dei nostri padri, riuniti a dieci per la preghiera della sera, sui balconi; stesse notti crivellate di stelle, stelle cosi vicine che il canto dei grilli sembrava la loro voce; notti di rugiada, che facevano gonfiare i cocomeri a scatti, imitando il gracidare dei ranocchi; albe di madreperla che li vedevano già in piedi, i nostri vecchi, con gli occhi di uva passa, a volte di uva verde, volti a Gerusalemme, per rendere grazie al Signore di questo nuovo giorno, che autorizzava loro a sperarne un altro e un altro ancora fino al giorno tanto atteso del ritorno alla Terra promessa; sposando, giudicando, benedicendo e morendo in quell'attesa, - mai completamente però, perché i loro figli, messi al mondo in quantità prodigiose (se non sono io, saranno loro, se sono tanti, uno vivrà, se sopravvive avrà dei figli e dagli occhi di uno di loro, finalmente, vedrò il muro Paradossalmente, questa razza di individualisti non si considera come alberi di una foresta, ma come foglie di un medesimo albero, e, precisamente, la palma: ogni foglia è figlia e madre del tronco, ed è grazie a quelle che muoiono che l'albero cresce) perché i loro figli, dicevo, messi al mondo in quantità prodigiose, davano loro il cambio, prendevano cioè lo scialle e il Libro e si mettevano a vivere, pregare, procreare e morire a loro volta in attesa della partenza. Ma di cosa si lamenta? Dirà il Colonnello sotto la sua tenda. Voleva partire, l'abbiamo lasciato partire. Certo, ci hai perfino incoraggiati a farlo, spogliando i pochi pazzi, ancora attaccati alla loro terra, dei loro beni e dei loro diritti. Ma stai tranquillo, non è per nostalgia che ti scrivo. Non faccio parte di quei poveri infelici che per rivivere la loro infanzia tripolina vanno a passare le vacanze a Tunisi. Perché se c@è qualcosa che rifiuto di assumere, è proprio la catastrofica illusione della somiglianza, cioè, quella distanza, infima eppur vertiginosa, che separa la lacrima dalla goccia di pioggia, esattamente come, quando, perduto in un souk, cerchi tua madre, la vedi, urli il suo nome, si gira e non è lei. lo, quando la chiamo, si gira ed è sempre lei: Gerusalemme, e quando voglio, ci vado.

Se ti scrivo, è per dirti che la nostra comunità è viva, che cresce e prospera, che si è rifatta, hamdullah. Perché avendo perso tutto non aveva altra scelta se non avanzare. Noi siamo come le api, Colonnello, se il padrone del campo ci ruba il miele a Settembre, lo rifacciamo in fretta, prima dell'inverno, e se continuiamo a punzecchiarti con le nostre richieste di risarcimenti è meno per interesse che per dignità, per ricordarti il tuo debito ma soprattutto la tua perdita. Siamo produttori di beni, materiali e morali, lo siamo sempre stati e tu lo sai, perché il lavoro non ci fa paura, perché il lavoro per noi non è mai stato punizione, bensì espressione, anzi, benedizione. La prova, dopo un mese nei campi-profughi di Latina e Capua, i nostri hanno abbandonato le baracche e sono partiti in cerca di lavoro, e l'Italia, che dandoci rifugio e cittadinanza ha creduto di farci la carità, si è ben presto accorta di aver fatto un investimento. Tu invece, come tutti i governanti del nuovo mondo arabo, hai voluto lavar via gli ebrei dal tuo tessuto sociale. Ne hai corroso le fibre: commercio, artigianato, agricoltura, professioni liberali, tutto si è dissolto, è volato via come sabbia nel Ghibli e tutta l'esperienza che comprate all'Occidente non potrà sostituire l'esperienza antica che avevamo noi di voi, noi, la cui vocazione è stata, da sempre, la comunicazione: fra gli esseri, i gruppi, le etnie, le discipline, i principi, gli stati, le civiltà. Vocazione che fu indispensabile alla grandezza dell'islam, dell'impero russo, di quello ottomano, della Germania prenazista, e che avrebbe potuto fare la tua, se tu l'avessi voluto. Pensa, cugino, era nato perfino un trovatore su questo pezzo d'inferno che governi. Con l'amore inspiegabile, quasi perverso degli ebrei per le terre matrigne che li hanno adottati, avrebbe potuto fabbricare ali ai tuoi re, ai tuoi eroi, ai tuoi santi e martiri per mandarli a dire al mondo che il tuo paese esiste. Avrebbe potuto cantarlo, il tuo deserto, con parole che avrebbero fatto cadere in petali questa rosa delle sabbie che hai al posto del cuore.

Ma Allah, che è grande e vede lontano, ha voluto, per tua mano, farci partire, affinché io andassi a cantare i miei canti sotto altri cieli, e che la tua nazione potesse proseguire, come in passato, il suo esaltante compito: essere la pagina vuota del Grande Libro dell'Islam.

Shalom ve Salam

Herbert Avraham Haggiag Pagani

Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 11/06/2009, l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Un tripolitano a Roma: Gheddafi spacca l'Italia e umilia le istituzioni":

Un tripolitano a Roma. Muhammar Al Qatafy. Per gi amici Gheddafi. Quello che ci sparava contro i missili su Lampedusa. Quello che non ha ancora pagato i 1000 miliardi di debiti con le aziende consorziate nell’Airil di Leone Massa che negli anni ’70 hanno avuto l’imprudenza di fare affari con contro parti libiche, spesso istigate a ciò dal governo italiano. Quello che ha cacciato anche le ossa degli italiani dai cimiteri libici, oltre che i cittadini veri e prorpi. Quello che tuttora celebra ogni ottobre “la giornata della vendetta” contro di noi. Eccolo finalmente nella capitale, con le body guard al femminile, come una rock star “a la mode”, di cui condivide il carattere capriccioso e violento. In tenda a ricevere questuanti nel parco di villa Doria Pamphilj, al Quirinale con attaccata sul petto la foto di un capo tribù ribelle fucilato dal maresciallo Graziani oltre sessanta anni fa, e, oggi, addirittura nell’aula del Senato a pontificare chissà su cosa in un posto dove finora avevano avuto accesso solo l’ex segretario dell’ Onu Kofi Annan, il re borbone di Spagna Juan Carlos e dove neanche un Papa per ora ha mai messo piede. E in Italia è tutto dire. A parte tutte le altre critiche che verranno fatte da tantissime personalità politiche e non nei prossimi giorni, cominciando da quelle dei radicali italiani (ma stavolta persino i no global sembrano stare dalla parte giusta), viene da chiedersi: ma chi glielo ha fatto fare? Al governo di farsi carico di questa storica visita di Stato, di cui è opportuno chiedersi se se ne fosse sentito un bisogno così impellente, e al capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, di giocarsi in una sola volta la propria fama di occidentale intransigente per prendersi il cerino di avere convocato l’ufficio di presidenza del Senato, profittando proprio dei giorni in cui la vice presidente Emma Bonino era assente in quanto in missione a Kinshasa nel Congo, per mettere tutti davanti al fatto compiuto di una mozione bipartisan votata senza il numero legale al solo scopo di fare parlare Gheddafi nella camera alta della democrazia italiana. E questo due settimane dopo che analogo tentativo era stato stoppato proprio dalla Bonino che allora era presente quando il Pdl ci aveva provato per la prima volta a fare questa drittata. Per chi volesse vedere con i propri occhi che personaggio sia Gheddafi, ammesso che ci sia qualcuno che non ne conosca il pregresso curriculum criminale, non ha che da andarsi a guardare l’imbarazzantissimo video presente sulla home page di radioradicale.it in cui si vede la telecronaca del ricevimento ufficiale al Quirinale. Con un Napolitano visibilmente fuori posto nel pronunciare espressioni ridicole come “ saluto il leader della rivoluzione Muhammar al Gheddafi” o nel citare enti immaginari come la “jamahiria”, anzi la “grande jamahiria”, che per chi non lo sapesse anche in arabo è un gioco di parole con il termine “giuhumuria”, che vuol dire semplicemnte repubblica, mentre il termine coniato per quella di Gheddafi andrebbe tradotto come una “repubblica delle repubbliche”. Ed è oggetto di lazzi e motti di spirito in tutto il Maghreb dove ben conoscono la megalomania e il narcisismo del personaggio. Nel video sul sito di radioradicale si vede poi quest’uomo con la faccia di chi ha appena assunto abbondanti dosi di qualche stupefacente, possibilmente mischiandolo con ampi libagioni di super alcolici, che aprla strascicato e che è vestito da generale in grande uniforme e bardato con le medaglie nonché con la foto del beduino guerrigliero fatto fucilare da Mussolini e dal maresciallo Graziani nel 1943. L’eroe della ressitenza libica Omar al Mukhtar, che è uno che se fosse stato vivo oggi a uno come Gheddafi neanche avrebbe stretto la mano. E pensare che l’Italietta della prima repubblica ha anche censurato, cadendo nel ridicolo, il bel film finanziato da Gheddafi, titolo “Omar al Mukhtar”, con Antony Quinn nel ruolo del protagonista, pensando che la storia avrebbe turbato l’ordine pubblico e depresso il sentimento nazionale. Certo Gheddafi ci da il petrolio e ha anche ricapitalizzato Unicredit quando tutti avevano voltato le spalle a Profumo, dopo le sòle prese nell’est europeo che hanno rischiato di fare fallire la ex Banca di Roma. Certo Gheddafi ci serve, economicamente parlando. Ma da qui ad accoglierlo come una rock star, a dargli una laurea “horroris causa”, più che “honoris”, sia pure alla Università di Sassari, ce ne corre. Ma se non si spiega perché proprio il povero Gasparri si sia dovuto sorbire questo amaro calice di passare da sponsor di Gheddafi per il discorso al Senato, si capisce invece benissimo quale sarà la tattica vigliacca del Pd a Palazzo Madama: dopo avere firmato la stessa mozione voluta da Gasparri e dopo averla votata, domani la Finocchiaro, la capagruppo, ha annunciato che il Pd che non sarà in aula. Un capolavoro di ipocrisia che da proprio ragione a Pannella qundo sostiene che Pd e Pdl siano rispettivamente la gamba sinistra e quella destra di un sistema. Un sistema che non ha neanche la fatidica “terza gamba”. Per tre giorni, la durata del suo soggiorno a Roma, il leader libico Muammar Gheddafi, dormirà nel 'Casino del Bel Respiro', capolavoro rinascimentale all'interno di Villa Doria Pamphili, sulla via Aurelia. Nel parco che circonda la costruzione, costruito per il principe Camillo Pamphilj, e nipote ribelle di papa Innocenzo X, è stata montata la gigantesca tenda beduina dove avrà alcuni incontri. Ma se il Pd non avrà oggi il coraggio di presentarsi in aula al Senato per paura di essere sommerso dalle pernacchie di tutti quelli che nonostante tutto ancora lo votano, le donne democratiche sono invece iperattive fin da adesso per la serata mondana di sabato all’Auditorium dove il colonnello, vero e proprio “papi di Libia”, riceverà 700 veline di destra e di sinistra sotto l’amabile direzione del ministro Mara Carfagna. Contro tutto questo miserabile spettacolo da basso impero, con le nostre istituzioni balbettanti e ipocrite nel dovere trattare, anzi prostituirsi, sia pure per bisogno economico, con un dittatore che ci sta idealmente colonizzando (dopo avere preteso da noi italiani il pagamento reiterato dei danni di una colonizzazione che lui non ha neanche anagraficamente conosciuto). solo i Radicali di Marco Pannella. Che ieri pomeriggio a Piazza Farnese, assieme ai dirigenti e militanti del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, Radicali Italiani, Nessuno Tocchi Caino, Non c'è Pace senza Giustizia e Era, oltre ai parlamentari Radicali nei gruppi del Pd di Camera e Senato, hanno fatto una manifestazione di contestazione contro tutta questa malintesa ragion di stato. Anche Daniele Nahum, leader dei giovani ebrei dell’Ugei, ha mandato un comunicato di fuoco in cui si legge che “risulta inopportuna la presenza e il discorso del leader libico Gheddafi, accolto come un premier democratico ed illuminato dal Senato della Repubblica”. Nahum suggerisce piuttosto di “ascoltare le voci mai ascoltate dalla politica e dalla società dei tanti dissidenti e dei tanti esuli che nel corso dei decenni sono stati costretti a fuggire da una dittatura feroce e sanguinaria”. Se solo Nahum sapesse che i servizi di sicurezza italiani dell’ex Sismi nei primi anni ’80 addirittura individuavano i dissidenti per poi fornire gli indirizzi ai killer libici che operavano indisturbati in Italia, e che puntualmente li mandavano al campo santo, capirebbe perché questa possibilità non c’è neanche in un film di fantascienza. Ieri e oggi piuttosto, sono due giorni buoni , da cogliere al volo, per chiunque voglia presentare le proprie dimissioni da cittadino italiano.

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