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La Stampa Rassegna Stampa
09.06.2009 Secondo Tzipi Livni Israele va incontro alla rottura con gli Usa
Ma, contrariamente a ciò che pensa, il responsabile non è Netanyahu

Testata: La Stampa
Data: 09 giugno 2009
Pagina: 23
Autore: Rina Masliah
Titolo: «Con Netanyahu si rischia la rottura tra Usa e Israele»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 09/06/2009, a pag. 23, l'intervista di Rina Masliah a Tzipi Livni dal titolo " Con Netanyahu si rischia la rottura tra Usa e Israele ".

Le dichiarazioni di Tzipi Livni circa i rapporti fra Netanyahu e Obama contenute nel titolo dell'articolo sono al rovescio. Non è con Netanyahu che Israele rischia la rottura con gli Usa. Piuttosto è con Obama che gli Usa rischiano la rottura con Israele.
Netanyahu bada alla sicurezza e agli interessi di Israele. Per questo non accetterà il programma nucleare iraniano (pericoloso non solo per Israele, ma anche per il resto del mondo occidentale) per conformarsi alla politica della mano tesa di Obama.
Per quanto riguarda lo Stato palestinese, non sono Netanyahu e il suo governo ad opporsi, ma le condizioni oggettive all'interno della politica palestinese.

Clicca sull immagine per ingrandirlaEcco l'intervista:

Signora Livni, Israele sta forse andando a un confronto con gli Stati Uniti?
«Dipenderà dalle decisioni che il nostro governo adotterà. Le relazioni fra i nostri Paesi si fondano anche su vincoli di amicizia, di interessi e di progetti comuni, vanno oltre questo o quel governo, questa o quella amministrazione della Casa Bianca. A mio parere l’interesse comune e comunque l’interesse israeliano richiede decisioni congiunte. Purtroppo chi interpreta la formula dei “Due Stati per i due popoli” come contraria all’interesse israeliano rischia di innescare qualcosa di più grave di un confronto».
Si riferisce al premier Benyamin Netanyahu?
«Certo. Un governo che vede come una minaccia la formula dei due Stati può arrivare a quella situazione, a un confronto. Io penso che ciò sia superfluo. Ci sono questioni sulle quali Israele può discutere con il mondo, oppure chiedergli il sostegno, questioni che riguardano l’essenza, la sua sicurezza, o la sua identità. Ma tutto scaturisce da un punto di partenza diverso: io penso appunto che sostenere il processo di pace sia un interesse israeliano fondamentale».
Lei cosa avrebbe fatto di diverso?
«Con l'insediamento dell’amministrazione di Obama sarei andata a Washington per lavorare assieme sugli interessi comuni. Questa regione - avrei detto - è divisa fra moderati ed estremisti, gli Stati Uniti guidano il mondo libero, Israele condivide i principi ed i progetti del mondo libero. Fra questi, anche il principio dei «due Stati per i due popoli». In questa regione ci sono minacce, ma ci sono anche opportunità. L’Iran, per esempio, rappresenta una minaccia per il mondo intero. Un concetto che sentiamo espresso adesso anche in arabo: è chiaro anche ai Paesi arabi della regione che il mondo non può permettersi un Iran nucleare».
Lei accetta la richiesta fatta da Washington di un congelamento totale delle costruzioni nelle colonie?
«Nella leadership israeliana ci sono due approcci diversi. La questione è quale sia il traguardo da raggiungere. Io voglio giungere ad un accordo. Nel contesto di un accordo voglio assicurare al massimo le nostre zone omogenee di insediamento. Lo scopo non è costruire sempre di più, ma preservare quanto esiste oggi. Se poi c’è qualcuno che invece aspira a un congelamento del processo politico per sfruttare il tempo e costruire ancora insediamenti, io con quelle persone non ho nulla da spartire».
Domenica Netanyahu pronuncerà un discorso politico: se si avvicinasse alle sue posizioni, Kadima entrerebbe nella coalizione di governo?
«Il fatto che Kadima non sia oggi al governo è dovuto a divergenze molto profonde su questioni molto significative. Non si tratta di semplici dichiarazioni ma di contenuti, di una visione politica diversa che deve essere poi tradotta in una politica. Lo scopo è di giungere a decisioni obbligate: da un lato garantire la sicurezza di Israele, ma dall’altro anche avere finalmente confini riconosciuti, e mettere fine al conflitto».
In Libano gli Hezbollah non sono riusciti a vincere le elezioni.
«Innanzitutto, eravamo molto preoccupati all’idea che riuscissero a impadronirsi del Libano. In generale, che milizie armate e organizzazioni terroristiche come Hezbollah e Hamas siano ammesse a partecipare alle elezioni è contrario all’essenza stessa della democrazia. Dovrebbero esserne impediti. La questione è dove andrà adesso il Libano. Nemmeno l’esito del voto mette la parola fine alla vicenda. Ma non c’è dubbio che il risultato in Libano rappresenti un messaggio importante e tranquillizzante per Israele e per tutte le forze moderate nella regione, anche perché in definitiva gli Hezbollah rappresentano l’Iran. Non dimentichiamo poi che con la conclusione della Guerra in Libano dell’estate del 2006 l’Italia ha condotto l’ingresso di forze internazionali nel Libano meridionale: un comportamento che dimostra leadership, e che è degno di apprezzamento».
Quali sono le attese a Gerusalemme per le elezioni in Iran?
«Il problema dell’Iran è rappresentato dalla sua ideologia islamica estremistica, guidata da una leadership religiosa. Di fatto, la sua politica molto problematica scaturisce dalla ideologia dell’establishment religioso, dal leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei. Ed è questo che va capito: che la leadership vera in Iran è quella religiosa, piuttosto che quella politica».

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