Rubare le anime.
Diario di Anna del Monte ebrea romana, a cura di Marina Caffiero
Viella, Roma Euro 22
Il caso è presto detto. Alle cinque del pomeriggio di una domenica d’aprile, gli sbirri “colle pistole ingrillate alla mano” irrompono nella casa del ghetto. Prendono Anna così com’è, con “l’abbito di cucina” e la trascinano fuori. I familiari sono impietriti. Solo il padre cerca di reagire, ma con un’arma puntata al petto c’è poco da scherzare. La carrozza vola al rione Monti e i portoni della Pia Casa già si chiudono dietro la nuova “ospite”. Un rapimento bello e buono, ma si sa che, per difendere la vera fede, non si guardava allora tanto per il sottile. E’ il 1749 e su Roma pesa ancora la cappa della Controriforma. Il delitto di Anna era di una specie piuttosto particolare. Probabilmente la ragazza aveva la colpa di essere carina, o per lo meno così era apparsa a un certo Sabbato Coenne, un ragazzo del ghetto, che si era invaghito di lei. Uno squattrinato però, e un poco di buono che, per averla, montò l’intrigo. Andò dalle autorità ecclesiastiche e disse di volersi far cristiano. In dote alla nuova religione portava non solo la sua anima, che non doveva valere granchè, ma anche quella della promessa sposa, Anna, appunto. A quel tempo la Chiesa favoriva questo tipo di oblazioni. I neofiti potevano trascinare i loro congiunti, e soprattutto le mogli e i figli, nella giostra dell’abiura. Ma poiché anche nella Roma papalina si conservava una parvenza di legalità, le vittime venivano prima portate alla casa dei catecumeni per essere interrogate. L’esame doveva durare tredici giorni, ma si estendeva talvolta fino a quaranta. Una quarantena, insomma, da cui i poveretti tornavano, se tornavano, morti di paura. Della sua peripezia di ordinaria violenza l’ebrea romana Anna del Monte ha lasciato addirittura un diario. O meglio, a consegnare la narrazione ai posteri è stato suo fratello, di nome Tranquillo, un personaggio in vista della comunità giudaica alla fine del Settecento. Sulla storicità dell’evento non c’è alcun dubbio. Non è chiaro però quanto Tranquillo del Monte ci abbia messo di suo, limando e riscrivendo, dopo la morte di Anna, vuoi per gusto letterario, vuoi per desiderio d’imbastire una storia esemplare. Nel prologo si racconta come il manoscritto autografo, andato smarrito, sia riapparso quasi per miracolo nelle mani di un robivecchi e sia stato poi messo in bella grafia, forse per prepararne la stampa. Lo spirito rivoluzionario lambiva anche Roma, e Tranquillo pensò probabilmente di cogliere la buona occasione. Di lì a poco, però, la Restaurazione avrebbe fatto dimenticare anche il diario del rapimento. A pubblicare il testo fu, negli anni Ottanta, Giuseppe Sermoneta, in una edizioncina divenuta introvabile. Marina Caffiero riprende ora questo documento unico nel suo genere, e lo inserisce nella vicenda piuttosto ingloriosa della propaganda conversionistica cattolica del secolo XVIII. Allora gli ebrei dell’Urbe, stretti in un angolo dal potere temporale pontificio, resistettero come poterono. Con coraggio ma anche, almeno a giudicare da quanto racconta Anna, con una buona dose di ironia. Le pagine più belle sono quelle in cui la giovane ebrea descrive i maldestri tentativi fatti per convincerla ad abiurare: “E doppo tre ore e più di predica se ne andarono in Malora”.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore