La doppia epurazione. L'Università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguerra Ilaria Pavan e Francesca Pelini
Il Mulino Euro 21
Con l’estromissione degli ebrei a seguito delle leggi razziali del ’38, l’università italiana ha conosciuto una doppia vergogna. Una, quella più nota anche se con attenzione tardiva, è l’espulsione nell’Italia fascista (ma il bilancio della «dispensa di servizio» è ancora impreciso) di «96 professori ebrei ordinari e straordinari, 141 professori incaricati, 207 liberi docenti e 4 lettori allontanati dalle università, cui si andavano ad affiancare i 727 studiosi ebrei espulsi dalle accademie e dalle numerose istituzioni culturali del Paese». L’altra, ancora coperta da un velo di reticenza o addirittura di imbarazzata omertà, riguarda non l’Italia fascista ma quella democratica che ostacolò il rientro nei ranghi accademici degli ebrei perseguitati. È la «doppia epurazione » di cui scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pavan. «La lacerazione prodotta dalla persecuzione antisemita nel dopoguerra non si rimarginò », si legge nel loro libro. Oggi questa doppia lacerazione viene finalmente affrontata senza remore, suscitando molti interrogativi sulla nostra capacità di fare finalmente i conti con il passato.
Il libro è firmato da due autrici che però non ne sono le coautrici in senso stretto. La prima è Francesca Pelini, una giovane e valente studiosa di Pisa che ha perso la vita nel 2005 (lo racconta nella commossa prefazione Paolo Pezzino). L’altra è Ilaria Pavan, che ha ripreso la tesi di laurea dell’amica scomparsa, l’ha ritoccata per darne una veste adatta alla pubblicazione e ha aggiunto una postfazione in cui riassume il senso non solo storiografico del lavoro della Pelini.
Ambedue prendono però le mosse dall’epurazione antiebraica nell’ateneo pisano. Ricostruiscono i profili dei docenti di Pisa costretti ad emigrare, o ad adattarsi a lavori dequalificati, o a cadere nella disperazione della disoccupazione. Storie terribili eppure tragicamente simili a quelle dei tanti professori italiani (conosciute soprattutto grazie ai lavori di Roberto Finzi) che persero cattedre, lavoro, paternità di libri, «sebbene l’esatta dimensione della ferita inferta all’accademia italiana dalle leggi razziali appare ancora oggi lontana». Meno nota è la dimensione dell’acquiescenza e del «complessivo silenzio indifferente con cui fu accolta e vissuta l’espulsione di professori e studenti ebrei dall’accademia». Meno noto è che ci fu «un unico dignitoso diniego a succedere al professore ebreo cacciato», quello dello scrittore Massimo Bontempelli, «sino a quel momento fascista convinto e perfettamente integrato, che, chiamato per chiara fama presso l’ateneo fiorentino, rifiutò di coprire l’insegnamento di letteratura italiana che era stato sino a quel momento di Attilio Momigliano». Meno noto è che a Pisa, nel novembre del ’44, il nuovo prorettore Luigi Russo nel suo discorso d’inaugurazione dell’anno accademico «non menzionò neppure per inciso, in quella prima simbolica occasione, la cancellazione dalla turris eburnea dell’accademia dei colleghi e degli alunni ebrei»: proprio l’«antifascista» Russo che nel ’42, scrivendo di Attilio Momigliano, sottolineava ambiguamente in un momento storico delicatissimo «le sue particolari origini semitiche» che «ci possono aiutare a intendere certe attitudini ascetico-contemplatrici della sua mente, la solitudine fisica del suo stile e però anche qualche tiepidezza e distanza storica dalla sua opera letteraria ».
Meno noto ancora è che nel dopoguerra molti docenti che erano subentrati nelle cattedre lasciate vacanti dagli ebrei espulsi non solo non le restituirono ai loro legittimi titolari, ma si impegnarono allo stremo per evitare il reintegro dei colleghi vittime della legislazione razzista. «Nessun docente pisano», ha scritto la Pelini, «risultò in qualche modo sanzionato». E soprattutto «dei venti professori ebrei che a Pisa nell’autunno 1938 erano stati sospesi dall’insegnamento, a guerra finita solo cinque poterono tornare — nominalmente e temporaneamente — a occupare la cattedra forzatamente abbandonata». A quasi dieci anni di distanza il rientro conobbe difficoltà psicologiche e pratiche. La reintegrazione dei docenti ebrei veniva registrata con estrema freddezza dalle autorità accademiche pisane, che affrontarono la questione con il distaccato stile burocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza. Inoltre si trattava di risarcire i docenti con gli stipendi non corrisposti negli anni dell’allontanamento forzato. Per di più la distanza fisica aveva impedito ai docenti ebrei di avanzare nei gradini della scala accademica proficuamente percorsi dai colleghi che ne avevano usurpato il posto.
Rientrò il giurista Renzo Bolaffi, che poi però decise di abbandonare definitivamente la carriera universitaria dopo che gli era stato negato il ruolo di professore ordinario. Rientrò dal Venezuela, dove aveva lavorato presso una impresa di olii minerali, Bruno Paggi, che però conobbe talmente tanti ostacoli burocratici da consigliarne il trasferimento presso l’ospedale Santa Chiara di Pisa: dove morì, appena cinquantenne, nel 1951.
Conobbe una seconda persecuzione burocratica l’otorinolaringoiatra Aldo Lopez, cui venne negato persino il dovuto pagamento degli stipendi arretrati. E analoghi soprusi vennero inflitti al chirurgo Giorgio Millul e al medico legale Emdin Naftul. Il fisico Giulio Racah e Renzo Toaff scelsero alla fine Israele come loro nuova e definitiva patria. Non ebbero possibilità di scegliere altri docenti ebrei espulsi nel 1938: Enrica Calabresi, arrestata dai nazisti e morta suicida nel 1944; Raffaello Menasci, arrestato a Roma nella retata del 16 ottobre del 1943 e deportato ad Auschwitz; Ciro Ravenna, ordinario di Chimica agraria, condotto nel campo di Fossoli e poi ucciso ad Auschwitz.
Ma la lacerazione non fu sanata con la riconquista della democrazia. I professori ebrei trovarono spesso la strada sbarrata. Gli usurpatori non rinunciarono alle loro carriere abusive. Scrive la Pavan che la «comunità accademica italiana non ha avvertito l’urgenza di pronunciare autocritiche, neppure autocritiche di rito» e solo nel 1998, primo in Italia, l’ateneo bolognese «sentì il bisogno di ricordare con una lapide» l’ignominia delle leggi razziali attuate «nel silenzio acquiescente della comunità scientifica».
La seconda epurazione, quella intollerabile perché messa in atto nell’Italia democratica, suscita ancora reazioni autodifensive. Da Pisa parte la ricerca di una verità troppo a lungo taciuta.
Pierluigi Battista - Corriere della Sera