Sul FOGLIO di oggi, 04/06/2009, a pag.III, Giulio Meotti racconta il libro di Joshua Muravchik, sette storie di dissidenti arabo-islamici. Che finiscono in galera, mentre l'Occidente tesse le lodi del dialogo.
Nathan Sharansky, che guidò la resistenza dei refusniks ebrei in Unione Sovietica, spiega così la differenza tra la battaglia dei dissidenti di allora e quelli di oggi: “Trent’anni fa sapevo che il mondo libero sarebbe stato dalla mia parte, oggi i dissidenti non godono del beneficio di sapere che qualcuno avrà a cuore la loro sorte in carcere, che la comunità internazionale richiederà il loro rilascio, che il popolo marcerà per la loro libertà”. Sono nomi marchiati dall’accusa di sedizione, in arabo “fitna”. Sono storie capaci di penetrare il muro d’odio e di oppressione che regna nel mondo arabo. Il diritto alla vita, alla libertà d’espressione e alla dignità personale i dissidenti islamici se lo sono conquistato al prezzo dell’esilio, della tortura, dell’ostracismo, del pubblico ludibrio, dell’intolleranza totalitaria, spesso della vita. Li racconta in un libro straordinario il saggista americano Joshua Muravchik, fellow alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies. Si intitola “The Next Founders. Voices of Democracy in the Middle East” ed è in uscita per le edizioni newyorchesi Encounter Books. Sette storie di dissidenza arabo-islamica, icone di dissidio, combattenti per la libertà che, secondo Michael Gerson del Washington Post, il presidente Obama dovrebbe ascoltare nel suo tour in medio oriente. Il messaggio di Gerson è semplice: non possiamo sacrificarli sull’altare della realpolitik, sono la nostra unica speranza. Muravchik nel libro spezza il cliché multiculturale per cui il dissidente è il “disturbatore”, colui che “esagera”,che incrina la pace sociale, il “provocatore”. I dissidenti dell’islam non hanno armi a disposizione, non incendiano bandiere, non attaccano ambasciate. I samizdat dei russi sono stati sostituiti dai blog islamici, ma quasi nessuno li legge. E quando i dissidenti muoiono nelle carceri iraniane, i loro nomi non finiscono sulla grande stampa. Come è appena successo a Fathi Eljahmi, deceduto in un ospedale giordano. Era il più importante dissidente libico sotto il regime di Gheddafi. Si era gravemente ammalato dopo gli anni trascorsi in galera. Per questi ribelli e apostati del mondo arabo Muravchik invoca “consistente sostegno morale” e “aiuto materiale”, chiede all’America di farsi carico della voce rarissima di democrazia che proviene da questi reietti. Muravchik spiega come gli utopisti non siano questi dissidenti, portabandiera di semplici riforme politiche e di diritti umani inalienabili. Gli utopisti sono coloro che pensano che la stabilità, quasi sempre costruita su masse di popolazioni islamiche decapitate, mutilate, smembrate e incenerite, possa essere il preludio alla libertà politica. Chi ricorda il nome di Haidar Ghanem, il celebre 46enne palestinese attivista dei diritti umani che lavorava per l’organizzazione israeliana B’Tselem? Durante la recente guerra a Gaza, Ghanem è stato brutalmente assassinato da Hamas. Era uno dei massimi attivisti dei diritti umani a Gaza, credeva nella coesistenza con gli ebrei, credeva nei diritti umani. Per molti israeliani era il “Sacharov palestinese”. Per gli islamisti, un lurido “collaborazionista” di Israele. Gente che è vietato persino seppellire nei cimiteri palestinesi. Quelli di Hamas dicono che “rendono impuri gli altri corpi”. Tanti altri hanno pagato con la propria vita, meriterebbero un libro a sé. Come il blogger Omidreza Mirsayafi, 29 anni “suicidatosi” in un carcere in Iran. Dalla cella vedeva l’area dove ancora, nel 2009, uomini e donne vengono seppelliti fino al collo e presi a sassate finché non muoiono. Come lo scrittore egiziano Farag Foda, assassinato da un commando della Gamaat Islamiya. In cima alla lista di eroi di Muravchik c’è Wajeha Al-Huwaider, la giornalista saudita che un giorno, l’8 marzo 2008, ha abbandonato la penna per mettersi al volante della sua automobile. Sprezzante del divieto assoluto che l’Arabia Saudita ha posto a tutte le donne che vorrebbero guidare – in base all’interpretazione restrittiva del principio coranico per cui le donne non possono uscire in pubblico se non sono accompagnate da un maschio loro parente – Wajeha fece un giro in auto, si fece filmare, scatenò il panico. Nel video, mentre Wajeha dice “sto guidando in campagna”, passa un’auto guidata da un uomo. Si volta basito come se avesse visto un fantasma. In occasione del primo anniversario della monarchia di re Abdallah, Al-Huwaider organizzò una protesta pubblica. Scese per strada con un manifesto: “Date i diritti alle donne”. Fu arrestata lo stesso giorno. Nonostante le sia proibito scrivere, Wajeha continua a battersi per le donne e la minoranza sciita contro gli estremisti islamici. Doppiamente dissidente è l’iracheno Mithal al Alusi. Prima sotto Saddam Hussein, che lo costrinse a un esilio ventennale dopo averlo condannato a morte, poi nell’Iraq infestato da squadracce di decapitatori. E’ sopravvissuto a un attentato, nel febbraio del 2005, in cui hanno perso la vita i due figli. Alusi è il primo iracheno a visitare Israele. “E’ un avvertimento per tutti quelli che pensano di avere a che fare con il regime sionista”, recitava la rivendicazione. La stampa araba lo chiamò “traditore”, “agente sionista”, in Europa nessun giornale pubblicò due righe sul suo conto. “Io voglio che i bambini tornino a giocare per le strade dell’Iraq”, aveva detto prima che gli assassini mascherati gli facessero visita. Alusi, uno dei più coraggiosi politici iracheni, aveva appena dichiarato guerra ai “fantasmi della morte che uccidono la vittoria degli iracheni e il loro diritti alla vita. L’Iraq non morirà”. Non si pente di aver parlato in Israele, presso l’Interdisciplinary Center di Herzliya, il più prestigioso al mondo che si occupa di studiare il terrorismo. Alusi è il primo parlamentare iracheno a mettere piede nello stato ebraico. “Prima di recarmi in Israele mi sono fermato a pensare. Sono rimasto da solo per tre quattro giorni. Sapevo quanto fosse pericoloso quel viaggio. Sapevo che significava la rottura di un tabù. Ma sapevo anche che era giusto farlo. E ne sono orgoglioso”. Muravchik racconta dell’iraniano Mohsen Sazegara, oggi docente ad Harvard, ieri leader del movimento studentesco contro lo Scià, poi fondatore delle terribili Guardie della rivoluzione. Le sue idee hanno finito per scontrarsi con quelle della Guida suprema Ali Khamenei e Mohsen finì in prigione. Vorrebbe riscrivere l’attuale costituzione iraniana. C’è anche l’eroe della libertà di stampa egiziana Hisham Kassem, che ha contribuito a fondare il primo quotidiano indipendente del paese. Agli europei Kassem ha detto: “Voi non riuscite a capire che l’unico vero modo per combattere il terrorismo fondamentalista è promuovere la democrazia nel mondo arabo; invece vi ostinate a stringere accordi con i dittatori”. Quando nel 2003 ha fondato Al Masri Al Youm, nessuno avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza. Kassem accettò persino un contratto pubblicitario con una ditta produttrice di birra, affronto intollerabile per gli islamisti (uno dei suoi giornalisti si dimise). Al suo fianco c’è il palestinese Bassem Eid, che nel 1996, a Ramallah, ha fondato il Palestinian Human Rights Monitoring Group, che dirige insieme a una dozzina di collaboratori. E’ stato Bassem il primo al mondo a denunciare la sorte dei palestinesi accusati di “collaborazionismo”. Spesso la “collaborazione” era di essere omosessuale, altri accusati di collaborazionismo erano colpevoli molto più banalmente del “reato” di infedeltà coniugale. Altri ancora di credere nell’umanità degli ebrei. Fra le donne, Muravchik racconta anche l’economista kuwaitiana Rola Dashti, che non esita a usare il termine “terrorismo” per descrivere l’opposizione a qualsiasi miglioramento della condizione femminile. Dashti è la prima parlamentare donna del Kuwait. Il quarantunenne Ammar Abdulhamid era un anonimo blogger siriano fino a due anni fa, quando ha iniziato a scrivere commenti polemici sulla politica del suo regime, fino a descrivere il presidente Assad come un dittatore e chiederne la destituzione. Vive a Washington, costretto all’esilio. Tanti altri meritavano di essere menzionati da Muravchik. Come l’egiziano Saad Eddine Ibrahim, come la psicologa siriana Wafa Sultan, come il tunisino Lafif Al Akhdar, come l’indiano Ibn Warraq, come il siriano Mamoun Homsi, come l’egiziano Ayman Nour, come la marocchina Amina Lemrini e Ghada Jamsheer nel Bahrain. La dissidenza nell’islam, ben lungi dall’essere reazionaria, è l’unico movimento progressista nel momento in cui milioni di musulmani aspirano a praticare la fede senza subire i diktat odiosi di fondamentalisti dottrinari e fanatici. Raccontando il medio oriente attraverso queste sette storie, Muravchik ci chiede di adottare il grande contributo di questi uomini e donne alla causa della libertà. L’Europa è muta di fronte a quest’epopea di illuminismo arabo. E, quel che è peggio, imbavaglia e ignora gli scismatici inginocchiandosi di fronte alla paura.
Mithal al Alusi, primo parlamentare iracheno a visitare Israele. nella foto con Fiamma Nirenstein
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