Lucia Annunziata non cura più la pagina delle lettere dei lettori sulla STAMPA, al suo posto c'è il nuovo direttore Mario Calabresi. Altra novità, l'introduzione di una nuova rubrica, chiamata " L'editoriale dei lettori ", inaugurata stamattina. Di chi è il primo editoriale ? Chi è la prima lettrice che apre la nuova rubrica ? é Paola Caridi, che la STAMPA presenta come " 48 anni, scrittrice, Gerusalemme ". Ben nota, aggiungiamo noi, per essere una che non perde occasione di attaccare Israele con i suoi pezzi, ospitati con generosità su molti giornali. Con una difesa del velo, naturalmente. Non ne siamo stupiti, vista la latitanza a casa nostra delle femministe, rientrate tutte nei ranghi in nome del multiculturalismo. La parola < sottomissione> non desta più indignazione. Infine, le nostre ipocrisie. In un sistema liberale, occidentale, siamo liberi di riconoscerle e criticarle. Nei regimi che piacciono alle varie Caridi, no. Invitiamo chi legge IC a scrivere alla nuova rubrica della STAMPA, che rischia di diventare una appendice del Manifesto.
Loro non hanno problemi col foulard. Noi sì. Loro solidarizzano e noi ci indigniamo. Loro sono i colleghi di lavoro, le persone della strada. Noi, è implicito, siamo noi intellettuali, giornalisti. Loro dicono: «Non possiamo non dirci velate». E per noi il velo è simbolo della sottomissione all’uomo. Sottomesse? Per un pezzo di stoffa in più, sulla testa? O per un pezzo di stoffa in meno, sul sedere di noi italiane? In Medio Oriente ho incontrato centinaia di donne per niente sottomesse, a testa alta. E con tanto di velo. Intellettuali, contadine, studentesse, impiegate, madri di famiglia. Il velo non è al centro dei loro pensieri. I problemi sono altri nel mondo arabo-musulmano: l’eredità, i trattamenti salariali, l’accesso al mondo del lavoro.
Ecco, il mio sogno è che in Italia ci occupassimo di quei problemi e - semmai - provassimo a pensare a loro, le velate, nello stesso modo in cui pensiamo a noi, donne italiane. Come sono i nostri salari, il nostro lavoro? E quei centimetri di stoffa in meno che indossiamo magari per strappare uno straccio di contrattino da precaria? E le labbra al silicone, le cicatrici invisibili da «bellezza in scatola», i tanti veli di cui ci copriamo? Una palestinese, dentro un matrimonio poligamico, mi ha chiesto come mai noi non fossimo solidali con le nostre «sorelle», e le lasciassimo in strada a prostituirsi, o accettassimo un marito con l’amante, e l’amante senza alcun diritto. Da allora, ho pensato parecchio alla nostra ipocrisia.
Qui, a Gerusalemme, sono circondata da donne velate. Nel mio palazzo, popolato da ebrei ortodossi, le donne hanno tutte il capo coperto da un velo. A poche centinaia di metri ci sono le donne palestinesi di fede musulmana, in maggioranza velate. Le palestinesi cristiane non sono velate, ma lo sono le suore. E basta andare a 10 chilometri, a Betlemme, appena oltre il Muro, per trovare ancora le contadine cristiane alla vecchia maniera, vestito ricamato e velo bianco in testa. Come mia nonna Maria, vecchia contadina, che a Roma non usciva di casa senza foulard. Donna d’acciaio, rughe e sorriso mite, era quella che in famiglia portava non solo un fazzoletto in testa. Con un’espressione - questa sì, maschilista - potrei dire che portava anche i pantaloni.
48 anni, scrittrice, Gerusalemme
velo islamico = sottomissione della donna
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