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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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André Aciman, Ultima notte ad Alessandria - Elena Loewenthal ,Tel Aviv. La città che non vuole invecchiare - Filip David, Il principe del fuoco. Racconti dell’occulto 01/06/2009

Ultima notte ad Alessandria André Aciman
Traduzione di Valeria Bastia
Guanda Euro 16,50

Nato in una famiglia ebraico-sefardita di origini turche, André Aciman è cresciuto nell’atmosfera cosmopolita di Alessandria d’Egitto e solo dopo il 1956 quando le nazionalizzazioni di Nasser decretarono la fine di una società pluralista e multietnica, fu costretto insieme alla sua famiglia ad abbandonare il paese. Dopo tre anni trascorsi nel quartiere dell’Alberone a Roma, nel 1969 la famiglia Aciman si trasferisce di nuovo, e questa volta a New York dove André frequenta il Lehman College laureandosi nel 1973. Attualmente insegna letteratura comparata alla City University di New York e vive con la famiglia a Manhattan. “Call me by your name” è il titolo originale del suo primo romanzo pubblicato in Italia da Guanda lo scorso anno. “Chiamami col tuo nome” è un libro di straordinaria sensualità, il racconto struggente del rapporto di amicizia e amore che nasce fra due giovani, Elio diciassettenne italiano e Oliver americano di qualche anno più grande di Elio, ambientato in una torrida estate della metà degli anni Ottanta sullo sfondo del paesaggio incantato della riviera ligure. La sensualità prorompente, il desiderio fisico e l’intensità dei sentimenti di gelosia e passione formano un groviglio di emozioni la cui forza e intensità renderanno quell’esperienza autentica e insuperata negli anni a venire, finchè Elio e Oliver si ritroveranno un giorno per confessare prima di tutto a se stessi, che “questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta”. Al salone del Libro di Torino André Aciman ha presentato il suo nuovo romanzo che, pubblicato in America nel 1995, è uscito nelle librerie italiane per le edizioni Guanda con il titolo, “Ultima notte ad Alessandria”. “Mi ero scoperto a struggermi per una città che non mi ero mai reso conto d’amare”. E la città di Alessandria si trasforma nel racconto di Aciman da luogo amato, nel quale ha trascorso i primi anni della sua vita, nella protagonista di questo intenso memoir. L’Egitto della prima metà del Novecento è un paese colorato e cangiante come può esserlo un caleidoscopio, che all’epoca vantava quarantaquattro comunità nazionali, cinquantacinque etnie e ventuno confessioni religiose; un rifugio per la famiglia ebrea dell’autore che vi giunse durante il secolo scorso da varie parti dell’Asia Minore e dell’Europa. Alessandria d’Egitto è una città ricca di profumi, colori e voci dove una pluralità di anime convivono pacificamente scambiandosi parole, cibi e pensieri. Il giovane narratore che cresce in un ambiente pluralista di incroci culturali e religiosi ripercorre con un sottile filo di ironia le vicissitudini di una famiglia caotica e turbolenta, caratterizzata da figure indimenticabili, come lo zio Vili soldato coraggioso e mercante che ha viaggiato per mezzo mondo; fin dalle prime pagine ci appare come un vecchio ebreo arzillo che conosce fin troppo bene la vita e racchiude dentro di se un groviglio di culture, lingue e tradizioni le più diverse. E ancora nonne che parlano e litigano in sei lingue, zii allegri o attaccati alle tradizioni come zio Nessim che pur malato di cancro è l’unico che legge le preghiere dello Shabbat perché “….né io né mio padre sapevamo l’ebraico ed entrambi ci rifiutavamo di essere coinvolti in qualsivoglia orazione, fosse anche stata in francese”. La guerra di Suez, scoppiata nel 1956, impone una drastica fine a più di un secolo di pacifica convivenza in una città a tutti gli effetti cosmopolita: gli abitanti non considerati egiziani vengono espulsi e anche la famiglia Aciman quasi da un giorno all’altro è costretta a fuggire e il giovane narratore ricorda che “adesso anch’io avrei pensato alla nostra partenza e alle persone che non avrei mai più rivisto e a questa città, totalmente inseparabile da ciò che ero in quel preciso istante, al fatto che sarebbe scivolata via nel tempo e diventata più remota del mondo dei sogni”. Sono pagine intrise di struggente nostalgia quelle che descrive Aciman capace di rievocare con straordinaria abilità narrativa un mondo scomparso che non tornerà più, dove lo sguardo si posa ora fra le mura domestiche e gli affetti familiari, ora nei negozietti e nei quartieri carichi di folklore della città in un caleidoscopio di voci e colori che si incontrano e si mescolano. “Nell’odore di cuoio delle valigie” è racchiuso il dolore per l’abbandono della città della propria infanzia, un luogo unico al mondo, aperto al futuro e alla vita che non potrà mai essere eguagliato perché nessuna città “avrà mai la luce delle mattine terse sul lungomare della Corniche”.

Giorgia Greco

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Tel Aviv. La città che non vuole invecchiare,  Elena Loewenthal
Feltrinelli Euro 12,00

C’è una città di sabbia e poi ce n’è un’altra fatta solo di parole. Qualcuno aveva immaginato un giardino ai bordi del deserto, e qualcun altro ne avrebbe voluto fare un grande porto. Per alcuni è una città bianca ma c’è chi pensa che le si addica il rosso, sebbene l’unica cosa certa sia che, di quando in quando, il cielo è proprio di fuliggine. Vantaggi della gioventù, perché Tel Aviv ha solo cento anni. Una sciocchezza, soprattutto per l’insediamento di un popolo antichissimo. 11 aprile 1909, una foto ne immortala addirittura la nascita, con un gruppo di uomini in giacca e cappello, e signore con scialli e gonne lunghe. Tutto attorno, il vuoto di una spiaggia e nemmeno un edificio, la città inesistente si disegna nelle menti, come una scommessa e uno schiaffo alla storia. Elena Loewenthal porta al lettore italiano questa metropoli atipica, ancora così poco frequentata dalla nostra cultura, e lo fa nel modo che meglio si addice al genio del luogo, ovvero con metodico disordine. Del resto non c’è da stupirsi che la città appaia tanto disordinata, perché interpreta, forse più di ogni altra, le contraddizioni del Novecento ebraico. Nata come inno urbanistico al sionismo, Tel Aviv si è adeguata alle capriole della storia. E’ stata città coloniale, scandita dal piano regolatore studiato da Sir Patrick Geffen, secondo i principi di un razionalismo impastato d’oriente. Disegnata poi da architetti venuti d’Europa, e in particolare dalla Germania, può vantare la più alta concentrazione di edifici in stile Bauhaus quasi intatti, tanto che l’Unesco l’ha proclamata patrimonio dell’umanità. Ma è anche metropoli di superfetazioni, palazzi dissonanti e sciatterie levantine. Tutto l’opposto, insomma, della madre-sorella millenaria che la guarda dall’alto, Gerusalemme. Non-santa, non-immobile, non-eterna, Tel Aviv trae energia da quello che non è, e vanta forse un solo primato: è stata la prima città interamente ebraica dopo migliaia di anni. E per di più una città di mare, nonostante l’atavica diffidenza d’Israele per il Mediterraneo dei conquistatori. Per una generazione d’israeliani il mare è però anche la memoria, poiché è da qui che sono giunti gli immigrati. Forse per questo Tel Aviv è la più europea delle città del Vicino Oriente. Dissonanza per dissonanza, meglio allora cercare tra le casette dei vecchi sobborghi la moschea Hassan Bek, che si staglia “davanti alla spiaggia e al mare in una specie di schizofrenia” visiva, psicologica e simbolica. Tel Aviv è nata “per un impulso rivoluzionario”, per smentire duemila anni di diaspora. Ma la diaspora esiste ancora, ed è solo un poco più vecchia. In compenso, la città ribelle ha mantenuto molta della sua giovanile irruenza.

Giulio Busi
Il Sole 24 Ore

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Il principe del fuoco. Racconti dell’occulto,  Filip David
Traduzione di Alice Parmeggiani Zandonai,
Rovereto Euro 11,50

Gli amanti de Le botteghe color cannella di Bruno Schulz, coloro che con rimpianto hanno pensato a quante altre meravigliose storie avremmo potuto leggere se lo scrittore ebreo-polacco non fosse stato ucciso nel 1942, possono oggi consolarsi e gustare gli straordinari racconti dello scrittore ebreo-serbo Filip David (1940), noto anche come sceneggiatore del poetico regista Goran Paskaljevic (La polveriera). In italiano non si conoscevano i suoi lucidi e coraggiosi scritti di opposizione e resistenza civile (Frammenti di tempi tenebrosi, Edizioni e, Trieste 1996) e Il riscatto, un racconto-apologo nella migliore tradizione della narrativa Yiddish (pubblicato nella meritoria antologia di Nicole Janigro: Dizionario di un paese che scompare, Narrativa della ex Jugoslavia (manifestolibri, Roma 1994). Quel racconto apre il bellissimo libro, Princ vatre (Il principe del fuoco, 1987) che ora viene pubblicato dalla casa editrice Zandonai di Rovereto, che si sta segnalando, tra l’altro, per l’interessante proposta di autori dell’area balcanica (Pahor, Keleza, Albahari, Velikic, Steger). Filip David, che durante la Seconda guerra mondiale persa una cinquantina di membri della propria famiglia, fu salvato dalla madre che, durante una marcia interminabile di ostaggi, per infondergli coraggio ed energie, gli raccontava di un favoloso albero di ciliegie, il suo frutto preferito, che li attendeva alla fine del cammino. Le sue storie di metamorfosi e di prodigi, popolate di spettri, taumaturghi, cabalisti, ebrei erranti e lunatici, ci prospettano la possibilità di una salvifica fuga dalla realtà, e fanno intravedere porte attraverso le quali passare dal nostro cammino quotidiano in altri mondi. David definisce i suoi racconti “quadri incorniciati di sogni e di nebbie”. La lettura di queste storie, come sostiene Bozidar Stanisic nell’utile postfazione, presuppone l’entrata in un cinematografo senza schermo: “Ognuno di questi racconti è una sfida alla logica, alle sue immagini pronte e perfettamente compiute. Il futuro si fonde con il passato, il certo indietreggia, batte in ritirata e si trasforma in incerto, il tutto nella consapevolezza dell’incommensurabilità del tempo, che si ripete costantemente e per cui la Qabbalah è solo una culla metaforica. Uno dei racconti più significativi della raccolta è “Una notte a Varsavia” che inizia con una dotta disquisizione sul teatro della memoria (1550) di Giulio Camillo e il suo rapporto con il numero sette (sette porte come i sette pilastri della Casa della saggezza di Salomone) e finisce in un misterioso teatro Yiddish, con sette nicchie e sette uscite, alla periferia della capitale polacca, dove viene rappresentato il famoso dramma di spettri “Il dibbuk” di Shloyme An-ski. In quel luogo, dove danza un brulichio di fantasmi, l’io narrante vede, o intuisce, una piccola parte del Mistero: “Nessuno conosce l’ordine originario della Torah, poiché le parti della Torah non sono disposte nella loro vera sequenza. Se lo fossero, chiunque le leggesse potrebbe creare il mondo, resuscitare, i morti e fare miracoli. Per questo il vero ordine della Torah lo conosce soltanto Dio”. I racconti di Filip David, del suo amico Danilo Kis, o del loro maestro Bruno Schulz, rappresentano poeticamente il caos degli impossibili tentativi della letteratura di ricostruire la trama originaria. Il grande scrittore bosniaco Ivo Andric (1892-1975), premio Nobel per la letteratura (1961), aveva visto giusto quando, poco prima di morire, sostenne: “Amo Kis, Kovac e David, ma soprattutto David”.

Francesco M. Cataluccio
Il Sole 24 Ore


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