Obama sta per partire per il Cairo, le interpretazioni si sprecano, sembra che in Egitto scatenerà uno tsunami democratico, riporta il titolo della STAMPA di oggi, 31/05/2009, a pag.14 con l'articolo di Maurizio Molinari. Staremo a vedere, certo, se crede veramente che con la "vittoria" dei "moderati", in Iran cambierà qualcosa... Segue l'articolo di Mario Vargas Llosa, recentemente strattonato da Chavez, la prima occasione nella quale il dittatore ci è apparso meno antipatico del solito. Vargas Llosa è una vecchia conoscenza fra gli odiatori di Israele. In questo pezzo che la STAMPA pubblica oggi arriva a chiamare " psicosi" l'atteggiamento di Israele nei confronti della minaccia di essere cancellato dalle carte geografiche promesso da Ahmadinejad ! Avanziamo anche forte dubbi sulla fotografia che illustra l'articolo, una enorme stella di Davide che la STAMPA descrive " sulla facciata di una casa in una colonia israeliana". A noi sembra più che altro una stella di Davide davanti a un obiettivo che ritrae la facciata di una casa. E poi, prima di scrivere "colonia" perchè il giornale non specifica dov'è ? Giriamo la domanda al sito "malainformazione" di Marco Reis perchè indaghi.
Maurizio Molinari: " Obama, farò vincere i riformisti di Teheran "
Barack Obama scommette sul discorso del 4 giugno in Egitto per innescare una nuova dinamica in Medio Oriente, puntando a favorire i candidati riformisti in Libano e Iran, dove si voterà pochi giorni dopo.
La coincidenza fra la tappa del Presidente americano al Cairo e le elezioni a Beirut, il 7 giugno, e a Teheran, il 12 giugno con un eventuale ballottaggio il 19, è stata studiata dalla Casa Bianca al fine di innescare quello che fonti diplomatiche a Washington descrivono come uno «tsunami di cambiamento». «Il discorso del Cairo sarà un momento di svolta nell’approccio degli Stati Uniti al Medio Oriente - osserva Scott Carpenter, analista di affari musulmani del Washington Institute - e potrà avere ripercussioni immediate in Libano e Iran perché in entrambi i Paesi i rapporti con l’America sono al centro degli scontri elettorali».
A Beirut è stato il vicepresidente Joe Biden, durante la recente visita, a far sapere che «gli aiuti americani sono condizionati all’esito del voto», paventando il rischio di una riduzione delle forniture economiche e militari se a prevalere dovessero essere gli Hezbollah, sostenuti da Iran e Siria, contro le forze moderate dell’Alleanza 14 maggio. In Iran il duello vede il presidente uscente Mahmud Amadinejad contestato dagli sfidanti Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi per le «posizioni controproducenti» prese sul programma nucleare, sulla distruzione di Israele e sulla negazione dell’Olocausto.
«La gara fra Ahmadinejad e Mousavi è molto stretta - osserva Farided Farhi, analista di affari iraniani del Council on Foreign Relations - e a fare la differenza potrebbe essere l’opinione degli iraniani nei confronti degli Stati Uniti perché per la prima volta la politica estera è un fattore importante» e forse non a caso Ahmadinejad ha accusato gli Stati Uniti di aver ordinato l’attentato contro una moschea nel Beluchistan. Ad avvalorare l’ipotesi che il discorso del Cairo possa fare la differenza nell’orientamento delle piazze musulmane è un sondaggio Ipsos condotto in sei Paesi arabi secondo il quale la popolarità di Obama è insolitamente alta trattandosi di un presidente americano: in Giordania è al 58 per cento, in Arabia Saudita al 53, negli Emirati Arabi al 52, in Kuwait al 47, in Libano al 43 e in Egitto al 35.
L’interrogativo dunque è quale carta giocherà Obama per avere il massimo impatto su un pubblico di un miliardo di musulmani, arabi e non arabi. A tale riguardo il riserbo della Casa Bianca è molto stretto ma poiché Obama, incontrando Abu Mazen, ha detto che «sarebbe inappropriato» non affrontare il conflitto israelo-palestinese, è attorno a come farlo che si sviluppa a Washington il dibattito fra i veterani del Medio Oriente. «Obama deve dire con chiarezza che le richieste palestinesi di giustizia e indipendenza sono legittime e coincidono con gli interessi americani», dice Steven Cook, del Council on Foreign Relations. «È la Palestina il test della politica estera Usa» concorda Daoud Kuttab, docente all’ateneo di Princeton. «Ma essere sinceri significa dire anche che gli Stati arabi hanno sfruttato il conflitto con Israele e i palestinesi per non affrontare i loro gravi problemi interni», sottolinea David Makovsky, del Washington Institute, mentre secondo Martyn Indyk della Brookings Institution per fare la differenza «Obama dovrà essere convincente nell’assicurare il proprio impegno per la soluzione dei due Stati». «Un discorso di belle frasi senza strategia servirà a ben poco», conclude Aaron David Miller del centro Woodrow Wilson, secondo il quale Obama disegnerà «due percorsi di azione diplomatica» al fine di ottenere «da Israele il blocco degli insediamenti in Cisgiordania» e «dagli Stati arabi la normalizzazione dei rapporti con Israele».
E a ben vedere sono proprio questi i temi dei quali Obama ha discusso nello Studio Ovale ricevendo il re giordano Abdallah, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen. Al Cairo c’è però anche chi si aspetta di più. È il caso di Ayman Nour, fondatore del partito di opposizione El Ghad e imprigionato a più riprese dal presidente Hosni Mubarak: «Obama può influenzare il futuro se dirà che dobbiamo lasciare ai nostri figli democrazia, giustizia e pace al posto delle attuali oppressione, ingiustizia e sofferenza».
Mario Vargas Llosa: " La nuova America sconfiggerà le psicosi di Israele "
La più considerevole e coraggiosa riforma introdotta dal presidente Obama nella politica degli Stati Uniti non riguarda né l'Iraq, né le torture di Guantanamo, né Cuba, né l’Unione Europea: riguarda Israele. Per la prima volta un governo americano abbandona la linea seguita sino a ora dai suoi predecessori - compreso il presidente Carter che solo dopo aver lasciato la Casa Bianca cambiò idea su quest’orientamento - di schierarsi sistematicamente a fianco d’Israele. Una condotta, questa, che sino a ora ha costituito il maggiore ostacolo per raggiungere un accordo di pace capace di disinnescare quella polveriera che può incendiare in qualsiasi momento il Medio Oriente e consentire un avvicinamento e una collaborazione tra i Paesi arabi e il mondo occidentale.
Appena al potere, la nuova amministrazione, prima per bocca della segretaria di Stato Hillary Clinton, poi attraverso il vicepresidente Joe Biden, infine per intervento dello stesso Obama, ha ricordato a Israele l’impegno assunto con l’accordo di Annapolis del 2007 che stabilisce la creazione di due Stati - uno israeliano, l’altro palestinese - come elemento fondamentale per la pace e l’obbligo di evitare nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania. Il nuovo governo israeliano, presieduto da Benjamin Netanyahu, non accetta l’idea della creazione d’uno Stato palestinese e, con una pretesa che in pratica chiude le porte a qualsiasi nuovo negoziato, esige ora, come condizione per riprendere il dialogo, che i palestinesi riconoscano a Israele la condizione di «Stato ebraico». Il recente incontro a Washington tra Obama e Netanyahu ha mostrato al mondo, per la prima volta nella storia, una radicale divergenza di vedute tra i due Paesi e, per questo, è stato sommariamente considerato un clamoroso fallimento.
Io non sono così pessimista. Gli Usa sono l’unico Paese che goda di credibilità nell’opinione pubblica di Israele e sia in grado di esercitare un’influenza sulla sua classe dirigente visto che entrambe, per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare, soffrono, nei confronti di tutti gli altri Stati - in particolare quelli dell’Europa occidentale - d’una vera paranoia che li porta a vedere nemici ovunque. Questa psicosi spiega, del resto, l’accelerazione del processo di radicalizzazione estremista di Israele, reso evidente dai risultati delle ultime elezioni che hanno portato al potere, con l’ultranazionalista del Likud Netanyahu, un fanatico razzista e xenofobo come il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
L’alleanza con gli Stati Uniti è necessaria per Israele: in termini economici, certo - visto che riceve aiuti per circa tre miliardi di dollari all’anno - ma soprattutto in termini politici considerando la sua posizione geografica di Paese accerchiato da avversari, alcuni dei quali, come l’Iran, ne reclamano a gran voce la cancellazione. Se gli Stati Uniti continuano a esigere con fermezza che Israele rispetti i propri impegni, smetta di costruire insediamenti di coloni in Cisgiordania e intavoli negoziati che consentano la creazione d’uno Stato palestinese, daranno una scossa alla sonnolenta e demoralizzata comunità progressista di Israele. Le difficoltà sono davvero enormi e, certo, non solo a causa degli estremisti del governo israeliano che, con una provocatoria dimostrazione di forza, hanno annunciato la creazione d’un nuovo insediamento di coloni in Cisgiordania - Maskiot, sulle rive del Giordano - proprio durante i colloqui tra Obama e Netanyahu, ma anche a causa dei palestinesi la cui divisione, tra i fanatici terroristi di Hamas e i moderati di Al Fatah, nonostante gli sforzi di Egitto e Giordania, sembra aggravarsi invece che diminuire.
Tra le grandi difficoltà ancora da risolvere, la più grave è rappresentata dall’Iran. La minaccia di sterminare Israele pronunciata dall’apocalittico Ahmadinejad non può essere considerata solo la sparata provocatoria di un demagogo, soprattutto se si considera che il governo iraniano ha appena sperimentato, con successo, il Sayil 2, un missile capace di colpire un bersaglio a duemila chilometri di distanza: una gittata sufficiente per colpire Israele. Anche se mancano conferme ufficiali, ci sono registrate voci secondo cui, negli ultimi mesi, gli Stati Uniti hanno impedito per due volte al governo israeliano di bombardare le installazioni atomiche iraniane: un’azione militare che, nelle considerazioni di Netanyahu, potrebbe ritardare di parecchi anni la fabbricazione della bomba atomica da parte del regime degli ayatollah, ma che potrebbe causare un conflitto armato dalle conseguenze incalcolabili in tutto il Medio Oriente. Nella sua recente visita alla Casa Bianca, Netanyahu ha chiesto con insistenza che l’Iran fosse messo in cima alla lista delle priorità e il negoziato con i palestinesi assoggettato alla fine della minaccia iraniana. Obama pensa che l’inizio di negoziati seri e correttamente impostati tra Israele e Palestina creerebbe immediatamente un clima in grado di disinnescare la smania di violenze degli integralisti di Teheran.
Se Hamas rifiuta il dialogo, Israele negozi con l’Autorità Palestinese che, in fin dei conti, è legittima. Se i palestinesi si renderanno conto che questo negoziato incomincerà a dare frutti, di sicuro l’appoggeranno e Hamas perderà, a poco a poco, il consenso guadagnato negli ultimi tempi grazie alla delusione vissuta dai palestinesi di fronte all’inefficienza e alla corruzione di Al Fatah. Allo stesso modo, se questo dialogo mostrerà di poter giungere in porto, di sicuro in Israele le forze estremistiche si indeboliranno e i settori che credono nella moderazione e nella pace torneranno, come un tempo, a essere protagonisti. Non esiste altra strada per realizzare questa «quadratura del cerchio» in cui i fanatici di entrambe le parti hanno trasformato il conflitto palestino-israeliano.
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