Ha ragione Magdi Cristiano Allam, l'occidente è pronto per il suicidio, anche quello femminile, che ha dimenticato le battaglie femministe. Maschilismo, disuguaglianza, tutto sepolto grazie al nuovo idolo del politicamente corretto. Per fortuna, accanto alla cronaca di Marco Bardesono, sul CORRIERE della SERA di oggi, 31/05/2009, a pag,24, c'è una colonna di commento di Maria Laura Rodotà che ci ricorda come il velo non sia un simbolo religioso ma significhi invece sottomissione, nemmeno a Dio, ma al maschio di casa. E' questo che voglione le donne oggi ? Se è così, possono stare tranquille, lo avranno, anche nel nostro paese. Fra un paio di decenni il numero dei musulmani sarà così alto da poter dettare legge. Ecco gli articoli:
Marco Bardesono: " Via la bigliettaia con il velo, e a Venaria lo indossano tutte"
TORINO — Ieri i ragazzi della biglietteria, le guide, gli addetti alla sicurezza — insomma tutto il personale della Reggia di Venaria — si sono presentati al lavoro indossando veli e kefiah. Una protesta e, allo stesso tempo, una manifestazione di solidarietà per una loro collega marocchina, Yamna Amellal, di 35 anni.
Il perché dell’iniziativa lo spiega Michele Francabandiera, 29 anni e da cinque uno di responsabili alla reception del castello sabaudo: «Yamna è con noi dal 2007, sempre dietro lo sportello, e fa bene il suo lavoro. Ma il fatto che sia musulmana e indossi il velo ha provocato delle proteste da parte dei turisti». Un susseguirsi di episodi imbarazzanti e, venerdì scorso, una lettera anonima pubblicata sulla Stampa: «Mi sono presentata alla biglietteria della Reggia di Venaria, storica residenza di Casa Savoia e mi ha colpito non poco notare — ha scritto una visitatrice torinese — che fosse presidiata da due donne islamiche, una addirittura con il velo in testa. Non sarebbe più corretto che il personale indossasse abiti d’epoca dei Savoia? Quella presenza, invece, era decontestualizzata, fuori posto».
La risposta del direttore della Reggia, Alberto Vanelli, è stata decisa ma articolata: «Io non ci trovo nulla di male, l’integrazione passa anche attraverso queste cose. Però confesso che, la prima volta che l’ho vista, ho avuto un attimo di perplessità. Già in passato ci è stato fatto notare che sarebbe stato più opportuno avere personale con profonde conoscenze della storia sabauda, ma l’assunzione è avvenuta tramite il Collocamento e una cooperativa di servizi». Una guida, Sabrina Soccol, 28 anni, aggiunge: «La donna che ha scritto la lettera non si è neppure accorta che l’altra ragazza da lei indicata come islamica è invece italiana, calabrese... ».
A gettare acqua sul fuoco, il presidente del consorzio che amministra la Reggia, l’ex direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce: «L’opinione della signora, espressa in toni pacati e non oltranzisti, è da rispettare. Allo stesso modo la manifestazione dei colleghi della ragazza marocchina è stata altrettanto legittima e civile. Insomma, non siamo di fronte a un episodio di razzismo come quando l’intera curva di uno stadio insulta Balotelli».
A storcere il naso, però, non è stata solo l’anonima lettrice. I colleghi della ragazza marocchina raccontano di episodi di razzismo («Torna a casa tua»; «Quel velo è una provocazione, sono tutti terroristi ») e proteste quotidiane: «Spesso capita che qualcuno, per non acquistare il biglietto da Yamna, cambi fila — confida Sabrina Soccol —. E io, che accompagno i gruppi in visita, lo sento: c’è sempre chi commenta negativamente».
Ieri, dunque, la protesta. In biglietteria, le colleghe di Yamna si sono presentate con un velo sul capo, i colleghi hanno indossato la kefiah. Ma i gesti di solidarietà hanno contagiato anche agli altri dipendenti (70 persone) delle due cooperative (la Copat e la Rear) che gestiscono i servizi turistici nel castello. «Noi hostess — dice Michela — abbiamo una divisa che prevede un foulard al collo: ce lo siamo messo tutte in testa». Alla Reggia si è visto il vicesindaco della città, Salvino Ippolito: «Non possiamo discriminare nessuno per motivi religiosi e inoltre la ragazza fa bene il suo lavoro».
Lei, Yamna Amellal, sposata con un pakistano, originaria di Khenifra in Marocco, vive a Torino da 5 anni e, per tutta la giornata, è sempre rimasta seduta al suo posto, a staccare biglietti: «A queste cose io quasi non ci faccio più caso, ci sono i miei colleghi a difendermi, è quasi come stare in famiglia. Lavoriamo in un bellissimo luogo e crediamo nella libertà e nella tolleranza. Togliermi il velo? Non ci penso proprio, rappresenta la mia fede. E io sono islamica qui come in qualunque altro posto».
Maria Laura Rodotà: " Ma quello è un segno di sottomissione "
Se fosse un film americano, per chi tifereste? Per le impiegate e le guide della reggia di Venaria che sono andate a lavorare col velo per solidarietà con la collega marocchina Amellal? O per la signora piemontese seccata per aver visto donne velate a contatto col pubblico, che ha scritto alla Stampa «non sarebbe più corretto impiegarle in attività di ufficio? O utilizzare persone vestite con abiti d’epoca?». Solo la trovatona delle poverette in abito d’epoca fa antipatizzare con la signora e simpatizzare con le lavoratrici di Venaria; che non hanno paura di essere (non è cosa alla moda) solidali.
Ma la questione è molto, molto più complicata. Perché mettere il velo non è un’espressione della propria religione come tante altre, come portare la croce o la stella di Davide (o la mezzaluna). È un segno di sottomissione femminile, non tanto ad Allah quanto ai maschi di casa. Alcune lo portano per scelta; la maggioranza per costrizione. È una condizione che non si risolve come propone il signore piemontese, nascondendo le impiegate velate per dimenticare che a Torino gli islamici sono ormai tanti. Si risolve — al momento pare utopico, ma meglio essere utopisti che pilateschi, che ignorare i problemi di tanta parte dell’umanità femminile — pensando che tutte le donne dovrebbero essere libere di scegliere cosa fare con la propria testa. E cercando di garantire loro dei diritti. In Francia, nella Francia dell’allora presidente Chirac, è stata fatta una legge che vieta di ostentare simboli religiosi nei luoghi pubblici. Legge discussa; ma lì si può applicare perché li proibisce tutti, di qualunque culto. In Italia, nelle nostre scuole e nei nostri uffici dove sono appesi i crocefissi, seguire l’esempio sarebbe molto, molto più complicato (sarebbe bello se le colleghe italiane fossero così solidali da dare a qualche islamica che non vorrebbe il velo la forza di toglierlo, casomai; senza sistemare tutte mettendole in costume, d’epoca o da bagno, come si tende a fare da noi).
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