Sulla STAMPA di oggi, 30/05/2009, a pag.14, con il titolo "La sfida di Obama, Cyberguerra contro i terroristi" la corrispondenza di Maurizio Molinari sul piano di Obama per fronteggiare le nuove sfide del terrorismo. Segue l'analisi di Vittorio Emanuele Parsi sulla guerra al terrorismo in Afghanistan a pag.35, dal titolo " Afghanistan, vietato perdere ".
Maurizio Molinari-" La sfida di Obama, Cyberguerra contro i terroristi "
Gli eserciti invisibili di hackers minacciano gli Stati Uniti e Barack Obama corre ai ripari varando un piano di sicurezza cibernetica in grande stile.
La Casa Bianca avrà un proprio «coordinatore per la cybersicurezza» che affiancherà il presidente nel gestire dalla West Wing tutte le iniziative utili «a proteggere le nostre attività online senza violare la privacy di nessuno» come ha spiegato Obama parlando nella East Room. E il Pentagono avrà una propria «war room cibernetica» che farà capo ad un generale a quattro stelle, insediato nel quartier generale della National Security Agency, la più segreta delle agenzie di intelligence. Lo «Zar» cibernetico della Casa Bianca e la «war room» digitale del Pentagono hanno il compito di proteggere l’America da tre tipi di intrusioni sempre più frequenti: gli attacchi da parte di entità ostili, lo spionaggio e le incursioni di hackers.
In aprile fu il «Wall Street Journal» a svelare il blitz con il quale «elementi ostili» erano riusciti a penetrare le rete elettrica, lasciandosi dietro programmi-killer pronti ad «esplodere» in qualsiasi momento accecando la nazione, e ieri Obama ha svelato che nel corso del 2008 avvenne anche di peggio quando dei «nemici invisibili» riuscirono a penetrare le difese del Pentagono «avvelenando» migliaia di computer militari ed obbligando i comandi a ridisegnare l’uso dei pc. «Anche la mia campagna elettorale è stata vittima degli hackers - ha aggiunto il presidente - ed abbiamo dovuto lavorare duro assieme a Cia, Fbi e agenzie di sicurezza per proteggere le nostre banche dati».
Il presidente indica tre esempi di pericoli per la cybersicurezza: Al Qaeda che ha più volte detto di voler mettere fuori uso i centri vitali degli Stati Uniti, cellule di terroristi come quelle che attaccarono Mumbai «scambiandosi messaggi vocali attraverso il web» potrebbero colpire e poi c’è il precedente della Georgia, che in coincidenza con l’invasione russa di questa estate fu vittima di un attacco talmente potente da obbligare la Nato a coniare il neologismo di «iWar». Se nei primi due casi di tratta di nuove versioni della minaccia terroristica il terzo apre una finestra su quanto attestano i documenti militari sulle più recenti aggressioni via-Internet contro gli Usa: gli indizi abbondano nei confronti di Russia e Cina perché sono loro siti a servire da trampolino per gli hacker più aggressivi e le spie più abili.
Il 28 marzo scorso partì da un server basato in Cina il blitz contro governi e società private in 103 Paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, e negli anni precedenti da network cinesi e russi arrivarono ondate di attacchi classificate come «Titan Rain» e «Moonlight Maze». Ad aumentare i sospetti sulla Russia c’è anche l’aggressione cibernetica lanciata nel maggio 2007 contro governo, Parlamento, banche e giornali della repubblica baltica dell’Estonia con una metodologia tale da farlo oggi considerare una prova generale della «iWar» contro la Georgia. Pechino e Mosca hanno sempre respinto al mittente tali accuse, forti dell’impossibilità di rintracciare con assoluta sicurezza da dove parte un attacco lanciato attraverso il web e proprio questa caratteristica di invisibilità è stata la ragione che ha portato Obama a decidere di «proteggere la nazione che ha inventato Internet per affrontare una rivoluzione informatica che è solo iniziata». Come dire, le guerre del futuro potrebbero essere online ed è bene prepararsi a combatterle.
Vittorio Emanuele Parsi- " Afghanistan, vietato perdere"
Questa volta è andata bene. Le truppe italiane impegnate in Afghanistan non hanno subito perdite, e i tre parà feriti hanno riportato danni lievi. Ma, nel corrente e corrivo «dibattito politico», questi fatti riportano in primo piano quello scenario internazionale che meriterebbe qualche attenzione in più, almeno in prossimità del voto europeo. I nostri soldati, rischiando ogni giorno la loro vita in Afghanistan, ci ricordano che il mondo con i suoi problemi non si fermerà nella spasmodica attesa di sapere chi vincerà il trofeo della volgarità tra i «leader» nostrani. Militari, carabinieri (e poliziotti, con e senza pancia) sono un pezzo di istituzioni, un pezzo di Stato di cui andare orgogliosi. Il modo migliore di onorare il sacrificio loro e delle loro famiglie è interrogarci sul senso della nostra presenza in quel tormentato Paese, cercando di capire perché, per l’Europa ben più che per l’America, sia decisivo l’Afghanistan.
Proviamo infatti a chiederci quali sarebbero le conseguenze se gli Stati Uniti si disimpegnassero dall’Afghanistan prima di essere riusciti a stabilizzarlo. In termini regionali, una sconfitta delle forze alleate in Afghanistan potrebbe avere effetti molto seri, potenzialmente in grado di destabilizzare l’intera area circostante. Potrebbe infatti risultare estremamente difficile «tenere» il Pakistan, avendo perso l’Afghanistan. È la riedizione della vecchia «teoria del domino», questa volta applicata all’Asia sudoccidentale. Ma a livello sistemico, funziona sempre la teoria del domino? Dipende. In Corea, nel 1948, mentre l’Urss di Stalin e la Cina di Mao erano saldamente alleate, quella teoria fornì un’interpretazione appropriata della realtà. In Vietnam, quasi trent’anni dopo, fu invece il suo abbandono a consentire a Nixon e Kissinger di riformulare la politica americana, sacrificando il Vietnam per consentire il riavvicinamento sino-americano. La bruciante sconfitta vietnamita produsse limitate conseguenze strategiche a favore dell’Urss, perché più che compensata dal vantaggio conseguito da Washington grazie all’alleanza con Pechino.
In politica internazionale, insomma, la gravità delle sconfitte dipende soprattutto da chi se ne avvantaggia. Anche la Gran Bretagna nel 1842 subì una sanguinosa débâcle (17 mila morti) nella ritirata da Kabul, che la rivale Russia non seppe sfruttare, e l’influenza inglese nella regione cessò solo nel 1947, con l’indipendenza indiana. E nel 9 d. C. i Romani persero 3 legioni ad opera di Arminio, nella selva di Teutoburgo; ma nessun rivale strategico di Roma fu in grado di avvantaggiarsi di tale sconfitta, e l’impero sopravvisse oltre 4 secoli. E quindi: al di là del danno in termini di reputazione e motivazione per la leadership americana, un eventuale ritiro americano avrebbe conseguenze sistemiche solo se avvantaggiasse qualche rivale strategico degli Usa, o invogliasse qualcuno a diventarlo. I candidati realistici a una simile posizione sono solo due: Cina e Russia, ma ambedue appaiono decisamente refrattari a invischiarsi in un’area dove i ricordi del passato (per la Russia) o i timori su futuri contagi islamisti (per la Cina) funzionano da efficace deterrente.
Per l’Europa le cose sono ben diverse. Sconfiggere i talebani e l’estremismo che incarnano dovrebbe essere una nostra priorità. Siamo noi, e non gli Stati Uniti, a confinare con quel mondo musulmano dove il fondamentalismo fa proseliti. Siamo ancora noi, e non gli Stati Uniti, ad avere al nostro interno quote crescenti di popolazioni musulmane che, anche per la nostra incapacità di offrire loro un’efficace integrazione politica e civile, potrebbero essere sensibili al messaggio estremista. Ma c’è un ulteriore interesse di natura strategica che spiega le ragioni del nostro impegno nelle valli afghane. Se, malauguratamente, l’instabilità regionale dovesse alterare il quadro sistemico e costringere l’India a concentrare tutte le sue attenzioni su un Pakistan sempre più inquieto, nessuna politica di engagement nei confronti della Cina sarebbe seriamente possibile. Con il risultato di rendere sempre più allettante, agli occhi di Washington, la realizzazione di un grande accordo con Pechino - il famoso G2 - e di segnare il tramonto della rilevanza politica e militare della Nato e, insieme a essa, dell’Europa.
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