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Il Foglio Rassegna Stampa
27.05.2009 Pakistan: l'unico alleato affidabile nella guerra contro i talebani è il generale Kayani
L'analisi di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 27 maggio 2009
Pagina: 3
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «L'unico alleato di Obama»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/05/2009, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " L'unico alleato di Obama " sul generale pakistano Ashfaq Perwez Kayani e sulla guerra ai talebani in Pakistan:

Gli elicotteri del governo continuano a superare la linea del fronte su nella valle di Swat, a Peochar, duemila metri di altezza, per sbarcare centinaia di commando dietro le posizioni nemiche e sopra i fortini dei talebani. Ssg. Sigla di tre lettere, reggimento Special services group, tremila uomini delle forze speciali dell’esercito pachistano. Battono i sentieri, si infilano nei paesi e nelle case, seguono i guerriglieri, quando li trovano li ammazzano, senza farsi ammazzare e senza farsi prendere sotto dalle migliaia di proiettili d’artiglieria sparati dalla fanteria più a sud, un tuono ottuso e regolare che sale da fondovalle. Il ruolo delle truppe speciali è rischioso in qualsiasi esercito del mondo, ma in Pakistan è terribilmente più complicato. Si aggiungono ambiguità mortali. Quando muori sei elevato anche tu a shahed, a martire dell’islam, ma i tuoi nemici dicono lo stesso dei propri morti. Sei stato addestrato in America grazie a un programma di aiuti militari nei santuari delle forze speciali più avanzate del mondo, a Fort Benning e Fort Bragg, ma prevedi che un giorno potrebbe arrivare l’ordine: tradisci i tuoi istruttori. Dai la caccia agli obiettivi, i guerriglieri talebani, ma ricordi benissimo di avere insegnato tu stesso alle prede di oggi come si gioca il gioco. Il Pakistan combatte una campagna militare senza precedenti per spazzare via i suoi nemici interni. Il comandante delle Forze armate, Ashfaq Perwez Kayani, che non si fida a mandare così vicino ai talebani gli altri soldati, considera il reggimento il reparto più affidabile per guidare le operazioni. E in questo momento gli americani considerano lui, il generale Kayani, l’alleato più affidabile in tutto il sud dell’Asia, più dei governi civili. Ogni giorno Kayani si sente al telefono con il capo di stato maggiore degli Stati Uniti, l’ammiraglio Mike Mullen. Per il Gruppo speciale la linea che divide gli alleati dai nemici è sottile, permeabile, scivolosa. I guerriglieri hanno appena catturato quattro commando. Hanno cominciato le trattative per uno scambio di prigionieri, ma alla loro porta è arrivato soltanto un ex rappresentante governativo nelle aree tribali, a suo modo una figura dello stato quando lo stato pretendeva ancora di controllare quella zona. Ha detto che pretendeva indietro non gli uomini in vita, ma almeno le loro armi e le loro divise, asset troppo preziosi per non essere restituiti. Quando i prigionieri hanno capito i termini dell’accordo che si stava formando si sono lanciati sui loro carcerieri, ne hanno massacrato otto a mani nude, poi sono stati massacrati a loro volta dalle raffiche di kalashnikov. Ora la televisione mostra la madre del capitano, il nuovo Martire Capitano Nawia Rajiaz, mentre bacia impietrita lo stemma del gruppo. Vicino una corona di fiori marcata Coas: Chief of Army Staff, il capo di stato maggiore Kayani. Il Servizio speciale fa la storia del paese. Dai suoi ranghi arriva anche Perwez Musharraf, l’ex generalissimo e presidente. Durante la guerra nel vicino Afghanistan contro gli occupanti sovietici, i commando passano il confine in segreto per far vincere i mujaheddin con lezioni di sabotaggio, nuove armi, tattiche insurrezionali. Nel periodo caotico che segue la liberazione gli specialisti del reparto finiscono spesso e volentieri in “servizio extrareggimentale”: travestiti da guerriglieri pashtun, senza neanche un’etichetta sulla biancheria che consenta il loro riconoscimento, fanno la guerra civile accanto ai talebani di mullah Omar e spingono la loro salita al potere fra tutte le altre fazioni. Pochi anni dopo, contrordine soldati: si fa inversione di marcia. Si sta dalla parte di Washington. Almeno in apparenza. Nell’inverno del 2001 i nuovi alleati americani affidano ai commando il compito chiave di chiudere la via di fuga che dalle montagne di Tora Bora serpeggia fino alla frontiera con le aree tribale del Pakistan. E’ il bunker dove Osama bin Laden e i capi di al Qaida aspettano la fine. Ma quelli svaniscono in mezzo all’accerchiamento americano-pachistano, come fili di fumo nell’aria piena di neve. Eppure per i giannizzeri di Musharraf, vanto delle Forze armate, due fulmini, un pugnale e una stella sul braccio sinistro, è arrivato il momento del cambio duraturo di lealtà. Il governo ha cominciato a gettarli nei vespai tribali di frontiera con ordini opposti a quelli di prima. Rastrellamenti e imboscate nelle zone pashtun per catturare o eliminare i capi della guerriglia filotalebana. Collaborazione spalla a spalla con la Cia americana. Operazioni a specchio: soldati americani al di là del confine, loro al di qua, per risalire assieme le zone attorno alla Linea Durand, confine Afghanistan Pakistan, dove il ronzio di guerriglieri è più intenso. Appendono trofei importanti. Operazione “Leone di montagna”, retata di combattenti arabi e uzbeki di al Qaida. Due blitz assieme alla Cia per catturare Abu Zubaydah e Khalid Sheikh Mohammed, i pianificatori militari dell’attentato dell’11 settembre. L’obbedienza non alla linea filoamericana ma piuttosto alla linea filo-almeno- salviamo-la-faccia-sul-piano-internazionale del governo si paga carissima. Un capitano della squadra antiterrorismo diserta subito e passa al nemico. E’ uno “special one” tra gli special one, uno di quelli che si allenano a fare irruzione su aerei dirottati con il passamontagna in testa, un ex peacekeeper in Sierra Leone: con lui migliaia di dollari di addestramento finiscono dalla parte della guerriglia. Con il nuovo nome di battaglia di capitano Ahmed diventa l’architetto della guerra per rompere l’alleanza debole tra Pakistan e Stati Uniti e scatena rivolte in Waziristan contro l’esercito. Muore in Afghanistan nel 2007, nel distretto di Garmsir della provincia di Helmand, mentre come ai vecchi tempi combatte a fianco dei talebani, questa volta contro il nemico nuovo: le truppe inglesi. L’ex generale Ssg che comandava il gruppo ai tempi delle operazioni di caccia nel Waziristan, un duro integerrimo, doppia nazionalità britannica e pachistana, cognato del celebre scrittore indiano V.S. Naipaul, a novembre ha scritto allo stato maggiore una lettera per denunciare le connivenze tra due suoi colleghi generali e i talebani, una lettera molto dura anche contro i concordati che il governo stringe di volta in volta nelle aree estremiste per guadagnare pochi mesi di tranquillità. Quattro giorni dopo è stato ammazzato alla periferia della capitale, due motociclette si sono affiancate alla sua macchina e lo hanno crivellato di colpi assieme all’autista. Le sue note funebri non lo definiscono martire. Una delle tre basi del reggimento è nell’area di Tarbela Ghazi, vicino alla gigantesca diga sul fiume Hindu: un complesso militare e strategico che secondo informazioni ufficiose fa parte anche del programma atomico. A cinquanta chilometri da Islamabad, a metà strada tra le province irredente e la capitale, custodirebbe parte delle bombe nucleari del paese. A settembre dentro la base un uomo in abiti tradizionali ha appoggiato la bicicletta fuori dalla porta, è entrato nella mensa dei commando è si è fatto saltare in aria. Nel tetto uno squarcio, nella compagnia antiterrorismo Zarrar venti morti, altri soldati feriti, alcuni accecati e resi sordi dalla violenza dello scoppio. Ora le versioni che circolano sono due, poco verificabili considerato che alla polizia è stato negato l’accesso per i primi due giorni. La prima versione vuole che i bungalow annessi al complesso siano stati subaffittati, i controlli si siano colpevolmente rilassati, con via vai di civili mezzo sconosciuti che si erano persino abituati a usare la lavanderia del campo. Standard di sicurezza pachistani, quindi orridi, fino a quando un martire però dei loro non s’è riuscito a infiltrare. L’altra versione, che viene dalle maliziose fonti indiane, dice che un giovane ufficiale avesse una sorella alla Moschea Rossa, che poi è stata uccisa durante l’assalto condotto proprio dalla compagnia speciale Zarrar. Quale che sia la verità, Tarbela secondo informazioni insistenti ospita trecento “consiglieri americani”, forze speciali già impegnate dentro il paese – forse addirittura gli uomini che hanno il compito di mettere in sicurezza con la forza l’arsenale atomico del Pakistan in caso di assalto montante della guerriglia. Un’altra voce dice che la fortissima esplosione ha danneggiato anche parte delle antenne della stazione locale dell’Nsa, l’agenzia governativa americana che setaccia e origlia le comunicazioni elettroniche. Era lo stesso giorno della visita dell’inviato speciale John Negroponte, a Washington si sono innervositi. Ovviamente lo Ssg ha combattuto nella battaglia centrale che ha iniziato la guerra civile in tutto il Pakistan: in urdu è Lal Masjid Qabza, l’assedio alla Moschea Rossa. Il nido di militanti filotalebani incastonato nel centro della capitale tra il palazzo dei servizi segreti, i cui agenti non disdegnano di fare spesso una capatina a pregare, e il palazzo del presidente, diventa una sfida aperta a Musharraf nel luglio 2007: puoi anche fare finta di nulla con i montanari delle aree tribali, ma noi siamo qui nel mezzo della metropoli, con le nostre mura verniciate di rosso, siamo provocatoriamente filo al Qaida e perseguitiamo con durezza chi non s’inchina alla nostra linea politica: oserai muovere contro di noi? Dopo una trattativa anche più lunga, estenuante e docile del solito, Musharraf ordina ai suoi ex commilitoni di attaccare. I commando fanno saltare i cancelli con l’esplosivo, spalancano buchi nei muri, sparano stanza per stanza, giardino per giardino, corridoio per corridoio. Muoiono 150 persone, compreso il comandante della compagnia Zarrar, quella poi decimata nella sua mensa, ucciso con una raffica mentre sta sistemando una carica esplosiva ai piedi del muro di cinta. Muore anche uno dei due ulema fratelli che comanda la Moschea; l’altro prova a fuggire vestito da donna, ma è scoperto. Il blitz dell’Ssg è il momento fondativo del nuovo terrorismo guerrigliero pachistano. Ma in pratica cambia poco. Le autorità fanno ridipingere le mura di azzurro una settimana dopo sono già tornate rosse. L’ulema superstite che ha scatenato la strage è stato condannato a blandi arresti domiciliari, terminati due mesi fa. E’ tornato subito nella Moschea di nuovo rossa e alla sua prima predica, protetto dal servizio d’ordine di fedeli con mitra, ha attaccato il governo. La campagna di primavera Dopo quattro settimane, come sta andando la campagna militare montata dal governo per fermare l’avanzata dei talebani giù dalla valle di Swat? Islamabad l’ha cominciata pensando di impressionare finalmente il mondo per la sua ritrovata determinazione contro i talebani, ma gli elementi per giudicare sono ancora incerti. L’accesso ai giornalisti nell’area è proibito e un milione e mezzo di persone ha abbandonato la zona, e quindi è impossibile verificare le notizie che arrivano dal portavoce dell’esercito. Secondo i racconti dei profughi, però, l’esercito sta usando la forza bruta senza discriminare. Il comando teme il contatto diretto tra i soldati e i talebani, ha paura che possa fiaccarne la volontà di combattimento, e per questo manda avanti i paramilitari dei Frontier Corps, meno equipaggiati e professionali, e spazza con l’artiglieria, gli elicotteri e l’aviazione le posizioni nemiche nascoste tra le case. L’opposto di una buona campagna di counterinsurgency, che prima di tutto si preoccupa della protezione dei civili. Gli ufficiali sanno che non guadagneranno mai prestigio, gradi e medaglie sparando su altri pachistani, considerano la missione una gigantesca operazione di polizia e vedono di non esporsi troppo. Le cifre annunciate dal portavoce, 1.200 talebani uccisi, sono verosimilmente gonfiate. Gli analisti americani sono scettici: “Se fosse vero, non incontrerebbero ancora tutta questa resistenza. Non per nulla questa operazione si chiama Rai-e-haq 4. E’ la quarta della serie, e potrebbe finire come le prime tre, con un nulla di fatto e un nuovo accordo di pace con i talebani”. Ci sono anche altri numeri che non convincono. La grande mobilitazione contro i talebani in realtà è un falso. In zona ci sono meno truppe rispetto a novembre, quando le tensioni con l’India dopo la strage terrorista di Mumbai fecero spostare sul confine sudest almeno trentamila uomini. Dicono gli analisti: prima c’erano venti brigate, ora ce ne sono dieci, la metà, questo sarebbe il grande sforzo bellico? Il punto più interessante è che Islamabad promette per giugno un seguito di questa campagna militare, per ripulire le zone proibite del Waziristan – a ridosso dell’Afghanistan – dove sta il grosso della guerriglia. A parte l’idiozia implicita nella politica governativa degli annunci, che ha fatto subito aumentare il viavai alla frontiera – voi venite quassù a bombardarci? Noi andiamo dall’altra parte a combattere – potrebbe essere l’inizio della grande manovra a martello contro i talebani. In Afghanistan gli americani del nuovo generale Stanley McChrystal premono aggressivamente verso il basso, in Pakistan i soldati di Kayani avanzano verso nord, verso il confine, e fanno la parte dell’incudine. Un’intera estate di guerra, con i guerriglieri presi in mezzo. A patto che non finisca di nuovo come nel 2001, con il nemico che all’ultimo momento svanisce nel nulla. Due giorni fa il Presidente Oleoso in persona, Asif Ali Zardari, si è smentito da solo: “Non andiamo in Waziristan”. Il mistero dei droni C’è anche la questione misteriosa dei droni. Sono gli aerei robot che dall’alto uccidono i terroristi di al Qaida e spesso anche i civili ignari delle aree tribali. Prima era soltanto un programma governato dalla Cia, da dentro una base segreta in Pakistan. Poi s’è aggiunto un programma militare comandato direttamente dal Pentagono, con voli che partono dall’Afghanistan. Qualche giorno fa il New York Times, con un editoriale di David Kilcullen, ex consulente con aura quasi mistica di David Petraeus quando erano a Baghdad, ha chiesto di smetterla con i bombardamenti mirati dei droni, perché fanno troppe vittime collaterali e sono controproducenti: “Il bando di arruolamento più efficace per i talebani”. L’ammiraglio che comanda lo stato maggiore americano, Mike Mullen, e il direttore della Cia, Leon Panetta, in due occasioni separate hanno replicato che i droni sono straordinariamente efficaci, troppo per rinunciare, e persino i talebani lo ammettono. Il 19 aprile un drone ha distrutto un camion bomba caricato con tonnellate di esplosivo e nascosto nel parcheggio di un fortino, prima che potesse partire in missione verso sud, verso le città. Da mesi il governo di Islamabad brama l’accesso al programma droni degli alleati americani. Lo ha ripetuto anche il Presidente Oleoso alla tv americana due settimane fa durante la visita alla Casa Bianca: dateci i droni e non dovrete più preoccuparvi del resto, ha detto Zardari. L’Amministrazione, in cambio del solito risicato prezzo politico – pace con Kabul, un po’ di durezza verso gli estremisti –, ha acconsentito a una specie di affidamento congiunto. Ufficiali pachistani possono partecipare alla definizione delle missioni: rotte, bersagli, uccisioni e assistere ai bombardamenti. Il fatto strano è che da circa trenta giorni l’interesse dei militari pachistani nei droni s’è volatilizzato. Non si interessano più. C’è da capire che cosa li sta facendo rinunciare a un premio che hanno ottenuto a prezzo di così tanta insistenza, ma gli americani non stanno insistendo più di tanto. Per condividere con Islamabad il programma droni dovrebbero spartire segreti non rivelati nemmeno ai britannici e ai canadesi che combattono al loro fianco in Afghanistan. E poi la condivisione era già stata interrotta poco cordialmente qualche anno fa: qualcuno avvisava gli obiettivi prima del colpo e li metteva in fuga.

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