Attenzione ai paragoni, diciamo a Lucia Annunziata, che sulla STAMPA di oggi, commentando la decisione americana di abolire le discriminazioni contro i diplomatici gay, equiparandone lo status con quelli etero, scrive "immaginiamo imbarazzi di cerimoniali, e autentici problemi di rispetto religioso, come potrebbero verificarsi in Medio Oriente o anche in Vaticano." D'accordo sul Vaticano, dove desta ancora imbarazzo una donna ambasciatore. ma dove Annunziata sbaglia è nello scrivere "Medio Oriente", due parole che includono anche Israele, uno stato nel quale da anni si ospitano ambasciatori accompagnati di un uomo invece che da una moglie. Senza nessun imbarazzo, presentano le credenziali, lui e lui vengono ricevuti dal capo dello Stato, non avviene nulla di strano. Non Medio Oriente, andava allora scritto, oppure Medio Oriente con l'eccezione di Israele, uno Stato che ha fatto della modernità la propria bandiera. Ecco l'articolo:
Quando la scorsa settimana, nel pieno del dibattito sulle torture durante la presidenza di George W. Bush, un ennesimo traduttore arabo venne cacciato dall’esercito americano perché gay, il comico Jon Stewart così trafisse le ipocrisie americane: «Permettiamo agli interrogatori di usare il waterboarding per i terroristi, ma cacciamo perché gay i traduttori che ci potrebbero dire cosa rivelano i terroristi sotto tortura».
«Don’t ask, don’t tell» - Non chiedere e non spiegare.
La formula, che è da sempre nel mondo anglosassone la base della ricerca della felicità in condizioni di incertezza - per esempio, nel matrimonio - è diventata da anni sinonimo della pilatesca fuga a cui hanno fatto ricorso una serie di Amministrazioni statunitensi di fronte a uno dei più scomodi tra i diritti civili: il riconoscimento dei gay nell’esercito. Fu Clinton - Bill, presidente Usa - nel primo mandato a dovervisi adeguare, dopo aver fatto molte promesse, intimorito dalla reazione dei conservatori. La storia torna a galla ora, rimessa in moto da un secondo Clinton, Hillary, Segretario di Stato, che ha deciso di picconare il muro delle fobie pubbliche antiomosessuali. Non si tratta di militari, stavolta, ma - da un certo punto di vista - il riconoscimento è persino più audace: il Dipartimento di Stato riconoscerà ai compagni/e dei diplomatici americani gay gli stessi diritti delle coppie eterosessuali. E forse gli Usa rischieranno di pentirsene. A volte succede. Ma, se di rivoluzione nel linguaggio internazionale si vuol parlare, quale migliore shock che quello di portare a tavola, a ricevere i potenti di turno, insieme con il Signor Ambasciatore anche il suo Signor compagno?
È un bel ribaltamento, intanto, contro l’ipocrisia. I Mr e Mrs Ambasciatori esistono già oggi: nelle mani di Hillary e Obama c’è un recente appello di ben 2200 membri dell’Amministrazione Esteri di sgombrare la vita diplomatica dalle ambiguità connesse al problema di compagni di vita che finora vengono inclusi come «parte della famiglia», ma che non hanno diritto, ad esempio in situazioni di guerra, di essere evacuati insieme con i loro compagni/e. Il caso più famoso lo ha fatto esplodere nel 2007 un apprezzato diplomatico, Michael Guest, che dopo 26 anni di servizio si dimise dal Foreign Service per protesta contro le regole che gli impedivano di riconoscere il suo compagno, «obbligandomi così a scegliere tra la lealtà al mio partner e quella nei confronti della patria». Guest è poi stato chiamato da Obama a far parte del «transition team» nel Dipartimento di Stato.
Molti punti di vista possono essere letti, ovviamente, in questa decisione di Hillary Clinton. Secondo gli ultimi dati, il 57 per cento della popolazione Usa sotto i 35 è a favore dei matrimoni gay. Una tendenza che contraddice la cautela con cui il presidente Obama ha deciso di gestire in questi mesi la questione dei diritti civili. È possibile dunque che il Segretario di Stato voglia aiutare Obama trascinando avanti lei stessa la palla in campo. O che voglia aiutarlo magari riprendendo in mano una torcia liberal tipica dei Clinton e della loro generazione. O anche solo che voglia «compensare» la cautela nazionale della Casa Bianca, aprendo una campagna di immagine internazionale.
Perché, alla fine, di questo poi si tratterà. Immaginiamo l’impatto che avranno sul piano diplomatico queste coppie «same-gender»; immaginiamo gli sconvolgimenti del più arido e del più tradizionale settore della burocrazia, quello dei «foreign offices» esposti alla frizione di una rivoluzione sessuale aperta; immaginiamo imbarazzi di cerimoniali, e autentici problemi di rispetto religioso, come potrebbero verificarsi in Medio Oriente o anche in Vaticano.
Ma qualunque sarà l’intoppo, questa decisione di Foggy Bottom si irraggerà in tutta l’amministrazione pubblica americana, e anche in quelle mondiali. Con effetti non meno rivoluzionari di quelli già avuti nelle relazioni internazionali dall’elezione del primo presidente Usa nero.
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