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La Repubblica Rassegna Stampa
25.05.2009 A Baghdad riprende la vita normale
E Valli non perde l'occasione per applaudire il ritiro americano dall'Iraq

Testata: La Repubblica
Data: 25 maggio 2009
Pagina: 1
Autore: Bernardo Valli
Titolo: «Baghdad torna a vivere»

Riportiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/05/2009, a pag. 1-12, il reportage di Bernardo Valli dal titolo " Baghdad che torna a vivere ".
Valli descrive il ritorno alla vita normale a Baghdad. Ma non precisa che il risultato è dovuto alla liberazione dell'Iraq dalla dittaura di Saddam Hussein. Come non specifica che di liberazione si è trattato, non di occupazione. Ecco l'articolo:

Il Shabandar Café è uno storico ritrovo di artisti, nel cuore della città vecchia, dove per anni era meglio non inoltrarsi. Nel marzo 2007 un´automobile imbottita di dinamite imboccò via Al Munteneby, e distrusse il caffè e le librerie vicine, non risparmiando uomini e donne che si muovevano in quel momento nel quartiere. Ritorno al Shabandar Café ricostruito dopo un imprecisato numero di anni, è mezzogiorno, e trovo tutti i tavoli occupati.
Ma un uomo anziano, con la faccia scavata e severa, si alza e mi cede il suo. Senza l´ombra di un sorriso, conservando un´espressione grave, l´anonimo cliente spiega il suo gesto premuroso dicendo che uno dei primi stranieri a mettere piede nel locale dopo tanto tempo merita un certo riguardo. È come se, invece di compiere una cortesia, celebrasse un rito.
Il padrone arriva a rincalzo per dirmi che vuole offrirmi un caffè. Un caffè turco? Mazbut? Con poco zucchero? Vuole cosi sottolineare, anche lui, il fatto che un occidentale senza armi e senza scorta, possa adesso muoversi indisturbato nella capitale dell´Iraq. Non è una novità perché altri mi hanno preceduto, ma resta un fatto insolito. È un segno che la situazione è cambiata.
La gradita e composta cordialità al caffè degli artisti avviene dopo una lunga visita al grande mercato di Al Shourga, dove la ressa è tale che camminando tra le botteghe, urti, ti strofini a centinaia di corpi accaldati. Corpi duri come macigni, che mi ricordano come l´Arabia delle palme, i cui fiumi, il Tigri e l´Eufrate ricongiunti, si gettano nell´Oceano, sia più ruvida dell´Arabia dell´ulivo, il cui fiume, il Nilo, si getta nel Mediterraneo. In un suk egiziano sbatti contro spalle soffici, rispetto a queste irachene. Il suk di Al Shourga è stato per anni un labirinto in cui la caccia all´uomo, tra sunniti e sciiti, tra insorti e governativi, tra americani e saddamisti, è stato il micidiale gioco quotidiano. Gli ultimi morti, a pistolettate, sono recenti. Di quest´anno? Del mese o della settimana scorsa? Di ieri? Nessuno sa essere preciso sulle date.
Per un mercato in grande agitazione, Al Shourga è stranamente silenzioso. Più delle voci, risuonano i rumori degli oggetti: lo stridio delle ruote dei carri sul selciato, il tonfo dei sacchi di riso che si ammucchiano nei magazzini, le radio piagnucolose. Gli sguardi sfuggenti sono più eloquenti delle parole. Si interrogano sulla tua provenienza. Un kafir? Un non musulmano? Forse un libanese che è una via di mezzo. Dal mormorio che ci accompagna, Asseel, la bella ed elegante irachena che mi fa da guida, ha afferrato più volte la parola «libanese». Pochi dunque pensano che un europeo possa aggirarsi solo nel suk. Per prudenza, Asseel si tiene qualche passo dietro di me, come è d´uso che facciano le donne, e questo contribuisce a credere che io non sia proprio un kafir, se faccio rispettare il privilegio maschile. Tanto più che Asseel porta l´hijab, il velo islamico.
Sto dando l´impressione che una passeggiata nel cuore di Bagdad, dopo anni di stragi e di rapimenti, sia un´impresa temeraria. Non è cosi. Da più di una settimana mi aggiro per la città, in automobile e a piedi, raccogliendo estreme gentilezze, come nel caffè degli artisti, o suscitando talvolta una curiosità educata o sospettosa, come nei vicoli di Al Shourga. In generale, un mare di indifferenza. Da quando sono a Bagdad un centinaio di iracheni, e tre soldati americani, sono stati uccisi in attentati di kamikaze o di vario genere. Ma nella città vasta e rumorosa, confesso di non avere udito neppure le esplosioni. Né di avere assistito a momenti di panico. Mi viene fatto piuttosto notare che i morti sono in netta diminuzione. All´ospedale Abn Al Nafise, il dottor Jasme mi dice che dai quaranta e più feriti al giorno si è passati a una media di due. Le impennate dei diagrammi che seguono l´andamento dei ricoveri sono rare.
Abito fuori dalla «zona verde», dove sono barricate ambasciate e ministeri, e il mio albergo, Al Mansour, è un oasi di pace. Non ci sono più tracce, nello spazioso ingresso, dell´esplosione che lo scorso anno ha decimato i capi tribù sunniti, della provincia di Anbar, invitati dal governo.
Bagdad è come un campo trincerato che vive a un ritmo frenetico, dove colonne di automobili, spesso di gran lusso, incrociano colonne di autoblindo da cui spuntano armi di tutti i calibri. Armi che, nei momenti di vittimismo, pensi siano braccate su di te. Senza contare i posti di blocco, appostati dietro muri di cemento armato, e animati da poliziotti e militari dotati dei più moderni detector. I muri di tutte le dimensioni, costruiti ovunque, per difendersi dagli attentati, sono un´ossessione. Uno scultore, Monther, mi ha mostrato una sua statuetta di legno raffigurante un uomo dritto, in piedi, sull´attenti, con la faccia schiacciata contro un muro. «Siamo noi iracheni, mi ha detto. La prenda cosi si ricorderà di noi». L´ho comperata.
Nonostante il traffico, le automobili sono esaminate con puntiglio, provocando intasamenti mostruosi. Nell´attesa puoi leggere un romanzo. In più occasioni i controllori, attraverso i loro sensibili detector, hanno individuato i medicinali, in compresse, che avevo in una tasca. Se chi guida è sunnita, il poliziotto o il soldato, che è sempre sciita, almeno a Bagdad, fa un controllo più severo. E il sunnita, che ha osato uscire dal suo quartiere dove di solito resta rintanato, teme sempre di essere perseguitato. Non ha del tutto torto. Lo scontro etnico si è attenuato, ma non spento. Nessuno sa con esattezza chi è all´origine degli ultimi attentati.
Gli estremisti sunniti del Baath, il partito di Saddam, non ancora annientati o convertiti? Quelli di Al Qaeda, ossia gli integralisti arabi venuti da fuori, approfittando dell´invasione americana? Gli uomini di Sadr, quelli dell´esercito del Mahdi, non rassegnati a collaborare col governo? Gli iracheni preferiscono aggiudicare le stragi agli stranieri. Nei posti di guardia, nei commissariati, in molti checkpoint, magari appuntata su un sacco di sabbia, c´è l´immagine dell´imam Hussein, simbolo degli sciiti che detengono il vero potere. Mentre i sunniti sono ancora in bilico tra il dissenso armato e l´integrazione. Questa incertezza rappresenta uno dei rischi. Ma non è il solo.
La società, in quasi tutte le sue espressioni, dagli uffici pubblici al commercio, dalle professioni private alla scuola e all´università, ha ripreso vita. Non conosce il boom economico di un dopoguerra, ma cerca di avere, con coraggio e fatica, ritmi normali. Lo fa con un certo successo. Il grande apparato militare la protegge e inevitabilmente la frena. La intralcia e la rassicura. L´enorme crescita del numero di soldati e miliziani iracheni fa pensare a una società sempre più militarizzata. C´è in questo fenomeno un innegabile aspetto positivo: lo Stato iracheno, dotandosi di una polizia e di un esercito efficienti, sta rinascendo dalle rovine di quello di Saddam Hussein, disperso ma non annientato dall´invasione americana, perché in parte si era dato alla macchia. È un segno visibile della sovranità nazionale in parte recuperata. Al tempo stesso i tanti soldati in giro danno l´impressione che ci si stia preparando a una guerra. Una nuova guerra? Visto che quella in corso dovrebbe essere sul punto di finire?
A fine giugno gli americani si ritireranno dalle città. E l´esercito iracheno dovrà sostituirli. Cosi comincerà la "nuova" guerra. Meglio, il nuovo confronto. Quello tra soli iracheni. In un primo tempo sarà limitato alle zone urbane, con gli americani nei paraggi, pronti a intervenire. Poi si arriverà col tempo al ritiro progressivo e programmato delle forze straniere, delle quali resteranno (nel 2011) alcune guarnigioni isolate. L´uscita degli americani da Bagdad sarà la prima grande prova. Una prova attesa con impazienza ed evidente nervosismo. Migliaia di iracheni rifugiatisi in Siria o negli emirati del Golfo, quindi ricchi iracheni, sono ritornati. Ma nei quartieri benestanti molte ville sono ancora deserte, abbandonate. Non tutti sono sicuri che la vera pace, sia pure precaria, sia imminente e garantita. Per ora c´è l´appuntamento di Bagdad senza americani.
I più prudenti attendono che si chiariscano anche i rapporti tra gli Stati Uniti e l´Iran. Perché quest´ultimo (vicino fratello nella religione sciita ma al tempo stesso nemico nella storia) ha armato la dissidenza anti-americana dell´esercito sciita del Mahdi, forse altri gruppi di insorti, e con identico zelo potrebbe esercitare domani una grande influenza, concreta, militare, sull´Iraq non più occupato e protetto dalla superpotenza. Prima di capire se gli Stati Uniti, dopo tante sconfitte e incongruenze, hanno "infine vinto" in Iraq, bisogna aspettare i futuri rapporti con la limitrofa Repubblica islamica, alla quale Obama ha teso la mano. Un Iran ostile, ansioso di esportare la propria rivoluzione clericale, può tenere aperto il conflitto.
Gli americani sono quasi spariti dalla città. Già se ne vedono pochi. Mentre passa un convoglio americano, uno dei rari, ovviamente blindato, chiedo quando un soldato yankee, o un cittadino degli Stati Uniti ben identificato come tale, potrà passeggiare per Bagdad come io ho fatto in questi giorni. La risposta è: «Tra una decina d´anni». La sentenza viene da un giovane attore, Mohammed Kassem Al Mellak, che incontro nel ridotto del Teatro Nazionale. La giudico un po´ eccessiva. Ma a breve distanza a ripeterla sono due interlocutori molto diversi: due cardiologi, durante una colazione nel ristorante del loro ospedale. E poi ancora un avvocato, uno dei difensori di Zaidi, il giornalista che ha lanciato una scarpa contro Bush junior in visita a Bagdad, e che è diventato un eroe, agli occhi di molti iracheni. Non di tutti.
All´università statale (Al Mostansyria) un gruppo di studenti, della facoltà di lettere e storia, si dichiara riconoscente nei confronti degli americani. Dicono - riassumo - che hanno portato, se non proprio la democrazia, una libertà prima sconosciuta. Ma sanno di essere in pochi a pensarla cosi. Anche se molti, in evidente contraddizione, adesso temono che, allontanatisi gli americani, Bagdad riesploda. L´astio nei confronti dei soldati stranieri è dovuta alle distruzioni e alle umiliazioni subite dal Paese. L´esibita avversione, a quasi tutti i livelli, fa pensare che ci sia il timore di infrangere qualcosa di simile a una parola d´ordine, dettata dall´orgoglio nazionale. Fanno eccezione i curdi del Nord, ma loro, e la loro regione, hanno un´altra storia.
Faccio un salto ad Al Bataween, il vecchio quartiere ebraico rimasto da più di mezzo secolo senza ebrei. Durante la guerra, nel 2003, era uno degli angoli più animati della città, dove potevo trovare panini e salsicce nelle improvvisate cucine all´aperto degli immigrati maghrebini. C´era, mi dicevano, anche un anziano ebreo che non aveva mai voluto abbandonare l´Iraq. Adesso alcuni ebrei sarebbero ritornati con la speranza di recuperare i beni confiscati alle loro famiglie più di mezzo secolo fa. Ma in realtà è una leggenda. A spingermi a ritornare ad Al Bataween è soprattutto il ricordo di un bellissimo libro di Naim Kattam, un ebreo iracheno professore di arabo (emigrato in Canada), in cui racconta la sua giovinezza, negli anni Trenta e Quaranta, quando gli ebrei erano un terzo della popolazione di Bagdad, e pensavano di essere integrati nella società araba. L´italiano Sereni, che visitò l´Iraq a quell´epoca, scopri una sola differenza tra ebrei e musulmani: i primi chiudevano le botteghe il sabato e i secondi il venerdì. Il libro di Naim Kattam si chiama «Addio Babilonia».

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