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Fra Atene e Gerusalemme Qualche giorno fa mi è stato raccontato un piccolo aneddoto inedito. Era il 1966 e Willy Brandt era ancora sindaco di Berlino, quando a un ricevimento ufficiale incontrò Jacob Taubes. Qualcuno glielo presentò come “professore di ermeneutica” e Brandt, con finta ingenuità, gli chiese: “ Ermeneutica? Che accidente è?” Al che Taubes, noto per avere un carattere terribile ma all’occasione capace di conquistare l’interlocutore, rispose sornione: “Vuol dire che c’è qualcosa di nascosto nel testo, e bisogna tirarlo fuori a tutti i costi”. Nato a Vienna in una famiglia rabbinica e arrivato a Berlino nel 1963 dopo aver studiato, e litigato furiosamente , con Gershom Scholem, Taubes fu uno degli ultimi rappresentanti della simbiosi culturale giudeo-tedesca. Sebbene ci scherzasse sopra, l’ermeneutica era per lui un affare maledettamente serio: bisognava capire, distinguere, spremere un significato da ogni parola, mettendosi di traverso tra culture diverse. In Taubes, il cui pensiero era maturato dopo la Shoah, il furore filologico aveva qualcosa di aggressivo, quasi minaccioso. Ma la lunga vicenda dell’esegesi giudeo-tedesca era cominciata ben prima, nell’atmosfera eccitante e contraddittoria dell’assimilazione. Uno dei testimoni più significativi di questa stagione fu senza dubbio Franz Rosenzweig, che nella sua pur breve vita – morì a poco più di quarant’anni dopo una lunga malattia –tentò di rivoluzionare il rapporto interpretativo tra cristianesimo e giudaismo. All’ermeneutica di Rosenzweig è dedicato “Tra Atene e Gerusalemme” di Francesco Paolo Ciglia, esperto internazionale di questo tema. Il mondo di Rosenzweig è crollato da un pezzo, e il suo esperimento di ibridazione transculturale potrebbe sembrare solo un nostalgico relitto del passato. Sul giudaismo tedesco alla Rosenzweig grava il sospetto di aver giocato con le illusioni, senza accorgersi di quello che stava per succedere. Eppure questo libro riesce a portare Rosenzweig nel cuore della contemporaneità, poiché mette a confronto le utopie dell’intellettuale ebreo con le incertezze della filosofia postmoderna. Accostare Rosenzweig a Lyotard potrebbe sembrare un esercizio azzardato, ma per lo meno riesce a farci capire come il più vecchio tra i due sia quello con maggiore forza trasgressiva. Già perché Rosenzweig, con quel suo pacato ragionare di cosmologia omerica e valori biblici voleva proprio cambiarla, la società del suo tempo. In comune col postmoderno aveva il talento per la decostruzione e la capacità di individuare i meta-racconti, che racchiudono la filosofia fino a soffocarla, ma possedeva in più una energia progettuale ignota al pensiero debole. Giunto, nel 1913, sull’orlo della conversione al cristianesimo, Rosenzweig ritornò all’ebraismo con vigore raddoppiato, e concepì assieme all’amico Martin Buber un progetto ambiziosissimo di reinvenzione linguistica e filosofica della Bibbia ebraica e dell’umanesimo di Israele. Poco importa se l’avventura di Rosenzweig fu interrotta dalla sua morte e poi dal naufragio dell’ebraismo tedesco. Se la scommessa della cultura è quella di far saltar fuori a tutti i costi il non detto, certo Rosenzweig è stato un maestro della caccia alla verità. Giulio Busi --------------------------------------------------- Il re di cuori , Hanna Krall Izolda e suo marito:: due ebrei di Varsavia durante l’Olocausto. Quando lui viene arrestato, lei si batte in ogni modo per salvarlo. Arrestata a sua volta, e mandata ad Auschwitz, viene liberata dai russi. Hanna Krall, giornalista e scrittrice polacca di origini ebraiche, usa il registro della cronaca ma lo impasta di emotività per raccontare una storia (vera) nelle pieghe della storia. Francesca Frediani Il Venerdì di repubblica --------------------------------------------- Il peso del corpo, Ehud Havazelet La vita si racchiude nel “peso del corpo”, la morte in una cassetta di ceneri. Volendo sintetizzare all’estremo, si potrebbe dire che il potente romanzo d’esordio di Ehud Havazelet – nato a Gerusalemme, ma residente negli Stati Uniti – ruota tutto attorno a questa semplice e lampante evidenza. Con tutti i vertiginosi interrogativi che essa si porta appresso. In particolare: come ci si può liberare dalla pesanteur della vita, dai grovigli dolorosi che la contrassegnano, da tutto il male subito e commesso, dai sentimenti provati e mai esternati, per potersi finalmente pacificare con se stessi e dunque con chi, prima di noi, ha visto la propria esistenza ridotta, per l’appunto, in cenere? Daniel era un bambino ultra dotato e da giovane divenne il leader indiscusso del movimento studentesco, ma il successivo precipizio nel mondo della droga gli ha fatto incontrare una morte prematura e dai contorni oscuri: è stato freddato da una rivoltellata mentre si aggirava in un territorio conteso da diverse bande di malavitosi a San Francisco. Dall’altra parte della nazione vive il fratello più giovane, Nathan, che dopo aver idolatrato Daniel negli anni giovanili, se ne è progressivamente allontanato. Senza peraltro trovare mai, neppure lui, un vero equilibrio: né nella vita lavorativa, né tanto meno in quella sentimentale. Ora, ricevuta la ferale notizia, Nathan vola a San Francisco in compagnia del vecchio padre, Sol, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e chiuso da sempre in un impenetrabile silenzio che neanche la moglie Freda, scomparsa da poco, è mai riuscita a scalfire. Giunti nella città californiana, i due incontreranno Abby, la donna a cui Daniel era legato, e il piccolo Ben, un bambino di sei anni figlio della ragazza. In teoria l’incontro dovrebbe aiutare a chiarire le ragioni del misterioso omicidio, mentre aggroviglierà ulteriormente la situazione: “ Ogni informazione sembrava isolata, mutuata da un’altra storia, la tessera di un altro rompicapo”. E tutto questo per la semplice ragione che la tela delle relazioni implica continui rimandi, costringendo ciascun personaggio a sprofondare nei propri ricordi e nei propri fantasmi. Perché ognuno segue “percorsi isolati di infelicità” e porta dentro al cuore una colpa indicibile, la quale, sovraccaricandosi di peso col passare del tempo, finisce per impedire qualunque libera scelta in ordine al proprio destino: “Nessuna via d’uscita. Nessuna scelta”, afferma a un certo punto Nathan pensando ai suoi disastri sentimentali. All’inizio del racconto si poteva pensare che questo drammatico incaglio riguardasse soltanto il povero Daniel, ma col passare delle pagine verremo a sapere che anche il fratello e il padre sono schiacciati, ciascuno a suo modo e per ragioni diverse, da un intollerabile fardello. Solo la visione di quella cassetta di metallo in cui sono conservate le ceneri di Daniel, farà capire a Nathan e a Sol che pochezza e miseria, sono comuni a tutti gli essere umani. E che il peso del corpo è la prima fonte di vita, ma anche l’origine di ogni dolore. Franco Marcoaldi |
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