Non è la prima volta che leggiamo con stupore i reportage di Ettore Mo sul maggior quotidiano nazionale. E ogni volta ci chiediamo come questo sia possibile, come non ci sia nessuno, all'interno del giornale, che si chieda come s dei servizi, accettabili solo da fogli parrochiali, possano apparire sul Corriere. Pubblichiamo con sincero rincrescimento, siamo lettori del Corriere da troppi anni per non provare dolore, l'articolo di Ettore Mo su Cuba apparso oggi, 24/05/2009, a pag.15, un pezzo che forse solo Gianni Minà o Gianni Vattimo, due dei maggiori lecchini della dittatura cubana, avrebbero potuto scrivere.Non lo commentiamo, lasciamo tutto lo sdegno che provoca ai nostri lettori. Lo dedichiamo, invece, a quel terzo degli abitanti di Cuba che, sovente a rischio della propria vita, hanno abbandonato l'isola a bordo di barconi, alla mercè dei pescicani, alla ricerca della libertà sulle coste americane. Lo dedichiamo alle migliaia di prigionieri politici, incarcerati e torturatit dal regime castrista senza che mai dall'occidente si levasse un grido di protesta, lo dedichiamo a quegli omosessuali, prigionieri senza nemmeno essere riconosciuti come tali, usati oggi, dai vari Ettore Mo, a dimostrazione del "cambiamento" che dovrebbe essere avvenuto nell'isola. Aggiungiamo, se al Corriere esiste ancora qualcuno in grado di leggere ciò che viene pubblicato, che ha dell'incredibile che un articolo simile esca sulle pagine di quel giornale che si vanta ancora di essere il primo quotidiano italiano. Ecco l'articolo:
L’AVANA — Cuba ha festeggiato e continua a festeggiare il cinquantenario della Rivoluzione — 17 maggio 1959 — come un compleanno di famiglia senza ridondanze di parate e celebrazioni patriottiche. La retorica è confinata nei vecchi slogan tracciati sui muri e ormai sbiaditi come Patria o Muerte e Hasta la Victoria siempre che ricordano la lotta contro il regime di Fulgencio Batista, un passato ridotto in cenere. Un recente sondaggio ha collocato l’isola — la perla dei Caraibi — in cima alla graduatoria dei Paesi più felici del mondo.
Non ha sorpreso nessuno che la manifestazione più vivace e chiassosa del calendario sia stata una sfilata degli omosessuali — uomini e donne — che a passo di danza negli sfrenati ritmi latino-americani hanno percorso le vie del centro per sfociare nei giardini del Pabellón di Cuba, cuore vibrante della capitale. «Era già avvenuto l’anno scorso — ha commentato un anziano signore con un sorrisetto di disgusto — e a quello là non è affatto piaciuto». Quello là è Fidel Castro, che vent’anni fa i gay li mandava ai lavori forzati.
A sottolineare ulteriormente il cambiamento e l’evoluzione del clima sociopolitico del Paese anche il fatto che la madrina della manifestazione fosse stata eletta Mariela Castro Espín, figlia del presidente Raúl, che ha pronunciato un applauditissimo discorso sulla salvaguardia dei diritti umani. La festa sarebbe continuata nei giorni successivi, sotto un cielo impietoso e incandescente. Niente di meglio che trovar rifugio nei musei dell’Avana o di Santa Clara per ripassare la Storia. O nella casa di vecchi campesinos che hanno combattuto accanto a Fidel o ad Ernesto Che Guevara sulla Sierra Maestra.
Come Modesto, che abita ad Arrey Blance, un villaggio a un paio d’ore dall’Avana, poche case, la campagna arroventata senza un filo di vento. La nostra guida lo descrive come «un hombre grande de pelo blanco», un omone coi capelli bianchi. Ottantadue anni, come Fidel. In nostro onore s’è messo una camicia bianca, ariosa come una toga. Fragrante. Dice che «qui a Cuba si vive bene con l’agricoltura» e «non sono villaggi da fame come altri Paesi del Centro America». Modesto racconta che verso la fine della Rivoluzione cubana ebbe un incontro straordinario. S’era messo col Movimento di liberazione contro la dittatura di Batista, che portava armi rubate all’esercito regolare.
«Era il 23 dicembre e raggiunsi sulla montagna un accampamento dei ribelli. Avevo con me fucili e proiettili. Ma, avvicinandomi, ebbi l’impressione di trovarmi davanti a un reparto di donne. Avevano i capelli così lunghi... Anche il loro comandante aveva i capelli lunghi. Sì, proprio lui, Che Guevara... mancavano pochi giorni alla battaglia decisiva di Santa Clara. Lo vidi stanco, molto teso. E comunque era un uomo di poche parole, badava ai fatti».
Ciò che sorprende nei racconti dei compagni d’avventura del Che è la mancanza dei toni eroici, si privilegiano i piccoli fatti, la banalità della vita quotidiana: «Ci nutrivamo di latte in polvere — rievoca Miguel, che per 22 mesi combatté al fianco del Comandante ed è rimasto uno dei suoi testimoni più attendibili e meticolosi —. Molto spesso non avevamo né riso, né fagioli, né carne perché non c’era denaro per comprare dai contadini, che già non riuscivano a mettere insieme il pranzo e la cena con quelle nidiate di bambini sempre affamati... E il Che era giusto, inflessibile. Se c’era un pezzo di pane doveva essere diviso fra tutti. Lui era l’ultimo. E se c’erano dei prigionieri, erano i primi ad avere quel poco cibo di cui disponevamo».
È sempre una forte emozione, tornando a Cuba, ripercorrere brevemente i suoi itinerari, visitare le sue case o anche sostare lungo la via crucis della sua straordinaria avventura: la vedova, Aleida March, è un’anziana signora, molto malata, che non ha più tempo né voglia di riaffondare in lontani ricordi. Soprattutto in quella mattina dell’8 ottobre del ’67, quando lo freddarono brutalmente in Bolivia.
Ciò che si legge nel suo libro «Evocación» forse non aggiunge nulla, per gli storici, alla vicenda della Rivoluzione cubana: ma tratta della rievocazione di una lunga e spesso sofferta convivenza con uno dei suoi più grandi e tragici protagonisti. E non è certo superfluo ricordare che tra gli autori preferiti del giovane Ernesto Guevara figuravano Pindaro, Sofocle, Euripide, Demostene, Platone, Aristotele, Plutarco, Racine, Dante, Ariosto, Shakespeare e Goethe.
Nutrita da tanta letteratura, la giovane guerrigliera Aleida si lancia nella lotta clandestina nel dicembre del ’56, quando già sapeva dell’esistenza del giovane Che, la cui leggenda s’era «già diffusa per tutto il Paese», un giovane eroe e anche «molto attraente». Una foto, nel libro, lo mostra col sigaro in bocca e il più spavaldo dei sorrisi. Stava per cominciare la «verdadera lucha revolucionaria» e anche Fidel ha il sigaro in bocca.
Si sposano. Ernesto fa carriera, diventa ministro, gira per il mondo. Da ovunque si trovi manda ad Aleda messaggi dolci e di fuoco, zucchero e miele: da Hiroshima, dal Marocco, la chiama Aleiducha, la riempie di abrazos e besos. Nascono quattro figli. Dall’Egitto, nel ’65, le invia una lettera molto affettuosa e galante dove la chiama Señora e le bacia rispettosamente le mani firmandosi il «suo maritino». Ma all’interno le acque non sono tanto calme. Tra Fidel e Guevara nascono dissidi e contrasti soprattutto sulla questione economica: il Che s’era opposto alla riforma agraria del 1961 con cui Castro invitava i contadini a distruggere le piantagioni di canna da zucchero perché «ne erano state piantate troppe». Una seconda riforma agraria avrebbe posto un limite alla superficie massima delle proprietà terriere.
Più che l’Avana è Santa Clara la città maggiormente legata all’esistenza di Ernesto Guevara. Le tappe della sua vita sono scrupolosamente documentate nelle sale di un museo che porta il suo nome. Qui venne combattuta la battaglia finale e determinante della Rivoluzione. Qui sono tumulati i suoi resti e quelli dei 156 compagni che morirono insieme a lui in Bolivia nelle alture di La Higuera. Nelle bacheche del sotterraneo sono esposti i pochi soggetti, le poche cose che vennero trovate sui cadaveri: un portafogli, un pettine, una camicia stracciata, un berretto, una banconota venata da tracce di sangue essiccato. Ci sono anche le scarpe e i vestiti di una giovane rivoluzionaria che si chiamava Labadi Arc, violata prima di morire.
C’è pure una foto di Fidel, quando venne ferito negli scontri tra polizia e studenti il 12 febbraio del 1948. Accanto, gli scarponi di Raúl Castro quando scarpinava col fratello sulla Sierra in cerca di gloria e una bambolina di plastica dentro la cui tenera innocenza venivano incapsulati i messaggi segreti destinati ai partigiani in lotta sulla montagna. Sul soffitto, come nella Cappella Sistina, sono affrescate le storie della guerra di Cuba.
Tra i messaggi che Aleida March conserva gelosamente nella sua casa ce n’è uno particolarmente toccante con francobollo giapponese. Poche parole. «Sono a Hiroshima, quella della bomba — dice —. Nel catafalco che vedi ci sono i nomi di 78 mila persone morte e si presume un totale di 180 mila. Fa bene visitare questo luogo per lottare con energia a favore della pace. Un abbraccio. Che».
È domenica e mi sembra giusto, accomiatandomi da Cuba, fare una passeggiata al santuario di San Lázaro. È meta di pellegrinaggi da tutte le parti. La gente arriva in pullman, in macchina, in treno e in calesse (famiglie intere con la borsa per il picnic) trainate da vecchi ronzini con musi lunghi e dolci. Secondo la tradizione, dai limiti del recinto le persone più devote e affette da senile disperazione raggiungono la soglia della chiesa strisciando sulle ginocchia, un centimetro dopo l’altro.
Un poco imbarazzato seguo uno di questi pellegrini, un uomo sui settanta, ben vestito, i jeans da ragazzo bene, i mocassini. Una fatica boia. Una bella signora di mezza età gli cammina accanto, sul selciato di pietra e lo protegge con un ombrello a fiori dal sole spietato. Lo sforzo è grande e l’uomo bofonchia esausto e ogni mezzo metro appoggia la testa canuta sugli stecchi delle braccia, incrociate sull’asfalto. Sta facendo quella penitenza (apprendo) perché la moglie è malata grave e lui è qui per chiedere la grazia a San Lazzaro: ma altri sforzi dovrà fare per avvicinarsi alla grata della cappella, assediata com’è da tanti poveracci che hanno nel cuore pene altrettanto grandi. Nella mano sinistra ha un mazzetto di fiori, nella destra una candelina che in qualche modo è riuscito ad accendere. E abbarbicandosi infine al cancelletto, riesce a depositare sul pavimento i segni della propria devozione.
Poi lo vedo piangere e anche a me viene il magone.
Invitiamo i nostri lettori ad inviare al direttore del Corriere della Sera, il loro pensiero sull'articolo di Ettore Mo, cliccando sulla e-mail sottostante.