Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/05/2009, a pag. 16, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo : " Islam e social network. La fatwa dei 700 imam ". Gli imam indonesiani stanno decidendo se permettere o no alla popolazione l'utilizzo di facebook. Il social network Usa, infatti, secondo quanto dichiarato dal capo del potente Consiglio degli Ulema, Amidan "La gente che usa Facebook può essere indotta a praticare un chatting disgustoso e pornografico ". Da quando in qua tenersi in contatto con amici e parenti è pornografico? Ecco l'articolo:
Settecento imam riuniti a giudizio. Un imputato per lo meno inusuale. Nella città di Kediri, est di Giava, Indonesia, il Consiglio degli Ulema del più grande Stato musulmano del mondo è impegnato in una due-giorni dedicata al dilagare (e ai pericoli) di Facebook. La rete sociale, ovvero il sito Internet fondato nel 2004 negli Stati Uniti, è oggi utilizzata da oltre 200 milioni di utenti globali. Per scambiarsi informazioni e foto, lanciare campagne più o meno serie, ritrovare e tenere vecchi contatti, cercarne di nuovi. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che evidentemente preoccupa i religiosi musulmani dell’arcipelago. Gli stessi che negli scorsi mesi fa avevano vietato ai fedeli, con una serie di fatwa, di praticare lo yoga («troppo indù») e alcune danze tradizionali («troppo erotiche»), insieme alla vasectomia, al fumo delle donne incinte e al voto per candidati non islamicamente corretti (festeggiare l’Anno Nuovo «occidentale» è stato invece solo sconsigliato).
Se in molti Paesi musulmani e non solo le potenzialità di Facebook temute dalle autorità sono quelle politiche, in Indonesia il nemico è invece il sesso illegale. O almeno così ha spiegato Nabil Haroen, portavoce dell’Università Islamica Lirboyo che ospita l’evento: «I religiosi pensano sia necessario emanare un editto che regoli il networking virtuale, perché le relazioni online portano alla lussuria, proibita dall’Islam». Il capo del potente Consiglio degli Ulema, Amidan (come molti indonesiani usa solo il cognome), ribadisce: «La gente che usa Facebook può essere indotta a praticare un chatting disgustoso e pornografico ». Chatting, ovvero chiacchiere via computer, ognuno a casa propria.
Ma questo, aggiunge, «è il primo passo verso il sesso illecito, perché fuori dal matrimonio».
Tra i settecento religiosi non c’è unanimità: si va dalla propensione al divieto assoluto della rete sociale a quello limitato alle attività «impure». Anche se la fatwa finale non avrà valore legale per i 210 milioni di musulmani del Paese (il 90% degli abitanti), come sempre i credenti più pii la osserveranno. Ma nelle recenti elezioni, l’arcipelago ha sancito un deciso calo dei partiti islamici, riscoprendosi più laico e interconfessionale. E l’avanzata di Facebook nel Paese ha intanto registrato tassi da record (+645% nel 2008). L’Indonesia, secondo le classifiche della società di ricerca Alexa, è oggi quinta al mondo per utenti registrati dopo Usa, Gran Bretagna, Francia e Italia. A fronte di tanto entusiasmo, una fatwa anti-Facebook sembra così destinata a non cambiare granché nel Paese. Nè, probabilmente, nel resto del mondo islamico.
«La gente usa il network per restare in contatto con parenti e amici, per sapere cosa accade nel mondo», dichiara Debbie Frost, portavoce di Facebook, con una certa sorpresa per la crociata indonesiana. «Ma tantissime persone e organizzazioni la usano per promuovere programmi e campagne positive». E questo è particolarmente vero in molti Stati musulmani dove la situazione politica (e non religiosa) impedisce o limita altre forme di aggregazione. Come in Arabia Saudita, dove varie battaglie femministe sono state organizzate proprio su Facebook, così come il primo sciopero della fame del Regno, promosso da alcuni riformatori. O in Egitto, dove accanto ai più scontati appelli dei blogger per la libertà di espressione, ne sono stati lanciati dalle comunità cristiane, dopo il diffondersi della febbre suina, contro l’abbattimento di migliaia di maiali che solo loro allevano.
Tentativi o ipotesi di bloccare il network sono diffusi, in questi Paesi. Ma solo la Siria, dal 2007, l’ha davvero vietato, sostenendo il pericolo di «infiltrazioni israeliane» e bloccando di fatto le attività dei dissidenti. Anche in Iran per qualche tempo Facebook è stata oscurato (come molti siti Internet), poi è stato riammesso. Forse perché ormai è utilizzato davvero da tutti. Se il presidente Ahmadinejad per ora si limita a un blog, i suoi sostenitori più giovani stanno invece cercando di contrastare sul network la campagna dei riformatori rivali, in vista delle presidenziali di giugno. Con poco successo, per la verità: il sito «amici di Ahmadinejad» ha finora raggiunto 588 membri. Quello «Scommetto che trovo un milione di persone che non amano Ahmadinejad » è già arrivato a 35 mila, il maggior numero di adesioni tra tutte le pagine dedicate al presidente.
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