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Il Foglio Rassegna Stampa
22.05.2009 Libano: la propaganda elettorale di Hezbollah
Come il partito armato cerca di allargare i suoi consensi

Testata: Il Foglio
Data: 22 maggio 2009
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Sappiamo governare un paese grande cento volte il Libano»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 22/05/2009, a pag.3, l'articolo dal titolo " Sappiamo governare un paese grande cento volte il Libano ":

Beirut. Sullo sfondo giallo del cartellone elettorale, il simbolo di Hezbollah, il pugno alzato che stringe un AK47, è sfumato. L’attenzione è invece attirata da parole ben calcate in verdone: “Il tuo Libano, il nostro Libano, il loro Libano”. Le scritte sono sbarrate da strisce rosse. Sotto, lo slogan: “Lubnan watan wahid li jami’ abna’ihi”, il Libano è un’unica nazione per tutte le sue genti”. La retorica della “resistenza”, il kalashnikov e i razzi katiusha delle milizie sciite ogni tanto lasciano spazio alla tattica nella campagna elettorale del Partito di Dio che si prepara al voto legislativo del 7 giugno, in Libano. La politica è politica anche per un partito armato, perché bisogna sì ricordare spesso che il nemico (Israele) sarà battuto – e Hassan Nasrallah non perde comizio per farlo – ma poi si deve anche cercare di conquistare il consenso, allargare la base, insomma vincere le elezioni. I dodici candidati del Partito di Dio viaggiano tra i villaggi del sud e della valle della Bekaa organizzando piccole tribune elettorali. Sono poche le manifestazioni anti israeliane, con sfilate di uomini armati in passamontagna e in mimetica. Pochi discorsi davanti a grandi folle, come fanno invece i rivali politici della Corrente del Futuro di Saad Hariri, figlio dell’ex premier Rafiq, che ha presentato la sua piattaforma in un tripudio di luci e tecnologia. “La resistenza che ha sconfitto Israele può governare un paese grande cento volte il Libano”, ha detto la guida del movimento sciita, Hassan Nasrallah, in un recente discorso televisivo, indirizzando le sue parole “a coloro che dubitano dell’abilità dell’opposizione a occuparsi degli affari della nazione”. Il leader del partito ha anche colto l’occasione per glorificare i fatti dello scorso anno, quando la lotta contro i sunniti aveva raggiunto il suo massimo di sangue facendo parlare di nuova, eterna guerra civile, come momento di grande torprestigio per gli sciiti e Hezbollah. Ma a Nasrallah è riservato un ruolo speciale, i candidati sono molto più tattici. La rimozione del confessionalismo dalla politica libanese; l’introduzione del sistema proporzionale; la lotta alla corruzione. Così il movimento cerca di espandersi oltre la componente sciita della popolazione: grazie ai suoi alleati, può farlo tra i sunniti del nord, tra i drusi di Aley, sulle colline vicino a Beirut, tra i cristiani del Monte Libano, attraverso i suoi legami con il generale maronita Michel Aoun. Per molti analisti, la vittoria del Partito di Dio alle urne di giugno non è affatto da escludere. E si parla già di una lotta all’ultimo voto. Il movimento sciita, considerato un gruppo terroristico dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, ha scelto una campagna non incentrata sulla guerra del 2006 contro Israele e sugli scontri del 2008 con i sunniti di Hariri, in pieno centro di Beirut Hezbollah non vuole allontanare nessuno dei suoi nuovi possibili elettori; non vuole spaventare, con il suo eventuale successo alle urne, né i libanesi né la comunità internazionale che attende l’esito di un voto capace di spostare gli equilibri regionali. Il movimento alleato di Siria e Iran “vede il pericolo di una propria vittoria”, ha detto l’esperta libanese Amal Saad Ghorayeb. Lo sceicco Nasrallah e i suoi hanno studiato il precedente di Hamas e sanno a cosa vanno incontro, tanto che Foreign Policy ha perfino ipotizzato che “Hezbollah potrebbe non avere la vittoria come principale obiettivo”. Nel 2006, Hamas ottenne un’importante vittoria alle elezioni, diventando il gruppo di maggioranza nei Territori, battendo lo storico partito Fatah, imponendo un’incredibile trasformazione non soltanto nelle dinamiche interne, ma anche nelle relazioni della comunità internazionale con la leadership locale. Nel giro di poche settimane, sia Stati Uniti sia Unione europea tagliarono gli aiuti diretti all’Autorità nazionale, creando una serie di complicati sistemi per poter far arrivare danaro alle casse del rais Abu Mazen senza passare per Hamas; il governo guidato dal premier Ismail Haniye fu condannato all’isolamento anche da gran parte dei regimi arabi. Nelle settimane precedenti, in preparazione del voto, il movimento islamista, filiale palestinese della Fratellanza musulmana egiziana, aveva puntato, come i colleghi del Partito di Dio, su un messaggio moderato: pochi i riferimenti alla lotta armata, alla “resistenza” contro Israele, alla guerra senza fine. Molti gli slogan contro la corruzione di una classe dirigente vecchia e senza dubbio poco efficiente. “Taghaier walislah”, cambiamento e riforma, era il nome della lista. Ma il rifiuto di accettare le condizioni del Quartetto (Nazioni Unite, Russia, Unione europea, Stati Uniti) – riconoscere Israele, abbandonare la violenza, smantellare le infrastrutture del terrorismo – ha portato la comunità internazionale a imporre il blocco degli aiuti e a isolare l’esecutivo. Allo stesso modo, il Partito di Dio libanese non ha intenzione di disarmare le proprie milizie come richiesto da due risoluzioni dell’Onu e dall’attuale governo libanese. La vittoria del movimento alle urne significherebbe la fine delle pressioni per lo smantellamento di tutti i gruppi armati nazionali (la campagna del blocco di maggioranza del 14 marzo verte proprio su questo punto, come prova uno slogan dei maroniti del Kataeb: “Al Barlaman silahuna”, il Parlamento è la nostra arma). Gli sciiti di Hezbollah non si fanno illusioni: una vittoria potrebbe innescare le stesse reazioni internazionali, minando così seriamente lo spazio di manovra politico del movimento. Non è un caso che il segretario generale Nasrallah abbia già messo le mani avanti: se la sua coalizione avrà successo, inviterà i rivali politici a unirsi al governo per assicurare una maggiore stabilità al paese, ha detto. E a Beirut si mormora che il movimento abbia addirittura pensato di chiedere a Saad Hariri – alla testa dei sunniti contro cui il Partito di Dio si è battuto poco meno di un anno fa, invadendo con i suoi pick up carichi di Rpg le tranquille strade commerciali della capitale – di servire come primo ministro. Sia la Gran Bretagna sia la Francia hanno già fatto sapere che lavoreranno con qualsiasi vincitore; più freddi e parchi di dichiarazioni restano i regimi sunniti, tra cui l’Arabia Saudita che appoggia anche economicamente la maggioranza, e gli Stati Uniti, i primi a isolare l’esecutivo Hamas nel 2006. Gli americani hanno fatto sapere che riconsidereranno l’afflusso di aiuti militari a seconda di chi comporrà il nuovo governo. I finanziamenti dal 2006 sono stati pari a un miliardo di dollari, di cui 410 milioni dedicati all’assistenza a militari e forze di polizia.

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